Il lavoro all’esterno del detenuto non è una misura alternativa alla detenzione, bensì una specifica modalità trattamentale inframuraria

In materia di lavoro all’esterno dei detenuti, i provvedimenti di ammissione e di revoca hanno natura amministrativa. Nondimeno, identica natura presentano i provvedimenti che, nel corso del procedimento finalizzato alla loro adozione, la legge riserva all’autorità giudiziaria, avverso i quali non è esperibile il ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost. in quanto la disciplina in esame non rientra in quella della libertà personale.

La Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 35730/2018, depositata il 26 luglio, coglie l’occasione per esprimersi in tema di diritti dei detenuti, con particolare riguardo al tema del lavoro all’esterno e sull’esperibilità dei mezzi di impugnazione avverso i provvedimenti pronunciati in tale ambito. Il fatto. Il Magistrato di Sorveglianza di Vercelli dichiarava inammissibile il reclamo proposto da un condannato avverso il provvedimento di revoca dell’ammissione al lavoro esterno. Il soggetto in questione, nella specie, era stato ammesso alla partecipazione ad un corso di formazione professionale con provvedimento del dicembre 2013 e, successivamente, veniva sanzionato con l’esclusione dalle attività in comune per non aver fatto rientro in Istituto alla chiusura anticipata del corso serale. In conseguenza di siffatte violazioni, la Direzione Penitenziaria aveva revocato l’ammissione al lavoro con provvedimento dell’aprile 2015. Dinanzi a tale decisione, il difensore del prevenuto ha proposto reclamo, dichiarato inammissibile dal Magistrato di Sorveglianza perché la disciplina del lavoro all’esterno dei detenuti non contempla mezzi di impugnazione. Tuttavia, come da richiesta del detenuto, il Giudice adito trasmetteva gli atti al Tribunale di Sorveglianza in sede. Avverso tale decisum propone ricorso per Cassazione il condannato per mezzo del proprio difensore, lamentando la violazione degli articolo 21, 35 bis,69, comma6, ord.pen. e articolo 111 Cost Secondo il ricorrente, i provvedimenti di ammissione o di revoca al lavoro esterno incidono sul fondamentale diritto al lavoro spettante al detenuto al apri di ogni cittadino e, comunque, il Magistrato di Sorveglianza, anche a voler ritenere inapplicabile al caso di specie il rimedio del reclamo giurisdizionale, avrebbe dovuto investire della questione direttamente il Tribunale di Sorveglianza, tenuto conto che tanto la revoca quanto la precedente ammissione era stata disposta dallo stesso Magistrato. Trattamento rieducativo. I Giudici di Legittimità, pur condividendo il fatto che il lavoro costituisca componente essenziale del trattamento rieducativo. In effetti, l’ammissione del detenuto al lavoro esterno non è una misura alternativa alla detenzione, bensì una specifica modalità trattamentale del detenuto. In capo al detenuto, quindi, si configura un vero e proprio diritto al lavoro esterno, rimesso alla discrezionalità dell’autorità amministrativa penitenziaria e all’approvazione preliminare del magistrato di sorveglianza nell’ambito della valutazione del programma trattamentale . Ciò posto, i Giudici della Prima Sezione di Piazza Cavour, con la pronuncia in commento, richiamano l’indirizzo – seppur risalente - già espresso sul tema Sez.1, n. 3063/1995 , a tenore del quale in materia di lavoro all’esterno dei detenuti, i provvedimenti di ammissione e di revoca hanno natura amministrativa e identica natura presentano i provvedimenti che, nel corso del procedimento finalizzato alla loro adozione, la legge riserva all’autorità giudiziaria, avverso i quali – pertanto - non è esperibile il ricorso per Cassazione ex articolo 111 Cost., poiché la disciplina in esame non rientra in quella della libertà personale. Alla stregua di tale ricostruzione, la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e dell’ammenda pari ad euro duemila.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 28 settembre 2017 26 luglio 2018, n. 35730 Presidente Carcano – Relatore Saraceno Ritenuto in fatto 1. Con il provvedimento in epigrafe il Magistrato di sorveglianza di Vercelli ha dichiarato inammissibile il reclamo proposto dal condannato C.R. avverso il provvedimento di revoca dell’ammissione al lavoro esterno. C. era stato ammesso alla partecipazione ad un corso di formazione professionale, con provvedimento in data 9.12.2013, approvato dal Magistrato di sorveglianza l’11.12.2013. In data 27.4.2015 era stato sanzionato con l’esclusione dalle attività in comune per non aver fatto immediato rientro in Istituto alla chiusura anticipata del corso serale e, a ragione della violazione delle prescrizioni alle quali si era obbligato, la Direzione aveva revocato l’ammissione al lavoro con provvedimento approvato in data 28 aprile 2015. A ragione della decisione, il Magistrato ha osservato che il proposto reclamo era manifestamente inammissibile perché la disciplina normativa del lavoro all’esterno non prevede mezzi di impugnazione ha disposto, tuttavia, la trasmissione degli atti al Tribunale di sorveglianza, come da richiesta del difensore del detenuto. 2. Avverso l’indicato provvedimento ricorre il C. , a mezzo del difensore avvocato Guido Cardello, chiedendone l’annullamento. 2.1 Con un primo motivo denunzia violazione di legge in relazione agli artt. 21, 35 bis, 69, comma 6, ord. pen. e art. 111 Cost Ad avviso del ricorrente, i provvedimenti di ammissione o di revoca del lavoro all’esterno incidono sul fondamentale diritto al lavoro spettante al detenuto al pari di ogni altro cittadino, diritto, peraltro, che costituisce una componente essenziale del trattamento rieducativo nei confronti di atti lesivi di posizioni giuridiche protette non può mai mancare la tutela giurisdizionale, secondo il principio già somministrato da Corte cost. n. 26 del 1999 e, pertanto, anche i provvedimenti che incidono sul titolo, consentendo o revocando l’ammissione al lavoro, non possono essere sottratti ad un controllo giurisdizionale effettivo di conseguenza la decisione censurata, affermando l’inoppugnabilità dei provvedimenti in questione, ancorché incidenti su una posizione di diritto soggettivo del detenuto e anzi su uno dei diritti fondamentali della persona, è incorsa nella violazione del combinato disposto degli artt. 35 bis cod. pen. e 69, comma 6, lett. b, della legge penitenziaria. 2.2 Con un secondo motivo denunzia la violazione o erronea applicazione dell’art. 21 ord. pen. e degli artt. 24 e 111 Cost Anche a voler ritenere inapplicabile al caso di specie il rimedio del reclamo giurisdizionale contemplato dall’art. 35 bis, il Magistrato di sorveglianza non avrebbe potuto dichiarare motu proprio l’inammissibilità dell’impugnazione e disporre ex post la trasmissione degli atti al Tribunale di sorveglianza, ma avrebbe dovuto investire direttamente il Giudice superiore, tenuto conto che la revoca, così come la precedente ammissione, era stata disposta dallo stesso Magistrato e che il giudizio relativo all’impugnazione di tale provvedimento non poteva spettare allo stesso giudice che lo aveva emesso. 2.3 Con il terzo motivo lamenta la carenza o comunque l’apparenza della motivazione, affidata a mere clausole di stile prive di ogni concreto riferimento. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. 2. Non è in dubbio che il lavoro costituisca componente essenziale del trattamento rieducativo e lo stesso carattere obbligatorio del lavoro penitenziario dei condannati e degli internati art. 15, comma 3, ord. pen si pone come uno dei mezzi al fine del recupero della persona, valore centrale per il . sistema penitenziario non solo sotto il profilo della dignità individuale ma anche sotto quello della valorizzazione delle attitudini e delle specifiche capacità lavorative del singolo Corte cost. n. 158 del 2001 . La legge penitenziaria prevede art. 20, comma 1, ord. pen. Negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro . art. 15 Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato .è assicurato il lavoro per l’appunto, che al condannato sia, salvo casi di impossibilità, assicurato un lavoro, nella forma consentita più idonea, all’interno o all’esterno dell’istituto e, se è vero che il lavoro del detenuto, intramurario o esterno, presenta, per i profili di accesso e per gli aspetti organizzativi, disciplinari, di sicurezza, inevitabili peculiarità che giustificano varianti o deroghe rispetto alla regolamentazione del rapporto di lavoro in generale, tuttavia né la sua specificità, né la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovrintende alla esecuzione della pena valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato Corte cost. n. 158 del 2001 il lavoro dei detenuti implica, dunque, una serie di diritti . modulati sulla base contrattuale dei singoli rapporti instaurati che possono non coincidere con quelli che contrassegnano il lavoro libero, se ciò risulta necessario per mantenere integre le modalità essenziali di esecuzione della pena, restando comunque illegittima ogni irrazionale, ingiustificata discriminazione, con riguardo ai diritti inerenti alle prestazioni lavorative, tra i detenuti e gli altri cittadini Corte cost. n. 341 del 2006 . Alla luce dei parametri normativi di riferimento e, massimamente, dei pronunciamenti del giudice delle leggi, si può, dunque, affermare che solo nello svolgimento del rapporto di lavoro e dell’attività lavorativa si è in presenza di diritti soggettivi perfetti, che non si esauriscono in quelli riconosciuti e garantiti dall’art. 36 Cost., ma sono tendenzialmente assimilabili ai diritti riconosciuti ai lavoratori liberi, con i soli limiti derivanti dallo stato di privazione della libertà personale. 3. Tanto posto, l’ammissione al lavoro all’esterno non è misura alternativa alla detenzione, ma specifica modalità trattamentale I detenuti e gli internati possono essere assegnati al lavoro esterno in condizioni idonee a garantire l’attuazione positiva degli scopi dell’art. 15 art. 21 ord. pen. . L’ordinamento non riconosce al Magistrato di sorveglianza né il potere di concedere né quello di revocare in autonomia il provvedimento di ammissione, essendo tale facoltà espressamente rimessa all’Amministrazione e l’intervento del primo essendo previsto in funzione di mera approvazione dell’iniziativa della seconda. E tuttavia, posto che l’assegnazione deve essere disposta in condizioni idonee a garantire gli scopi previsti dall’art. 15 ord. pen., è evidente che essa non è rimessa alla discrezionalità del direttore dell’istituto, ma è subordinata, come espressamente stabilito dall’art. 48, comma 1, reg. esec., alla sua indefettibile previsione nel programma di trattamento rieducativo, formulato -secondo una logica di individualizzazione dei relativi protocolli e all’esito dell’osservazione scientifica della personalità del singolo detenuto e dell’individuazione dei suoi bisogni specifici dal gruppo di osservazione previsto dall’art. 29 reg. esec., lo stesso gruppo che esamina gli sviluppi del trattamento praticato e i suoi risultati, predisponendo e apportando le modifiche che si rendano necessarie. 4. È evidente allora che in capo al detenuto condannato è configurabile un diritto al trattamento, quale aspetto del più generale diritto alla rieducazione, restando riservata all’autorità amministrativa e all’approvazione preliminare del magistrato di sorveglianza nell’ambito della valutazione del programma l’offerta degli interventi finalizzati alla rieducazione e risocializzazione del condannato, ossia l’individuazione delle più consone modalità trattamentali e, tale essendo il lavoro all’esterno, non è configurabile né un diritto soggettivo alla sua ammissione né, correlativamente, un diritto alla stabilità e prosecuzione dello stesso, in quanto il provvedimento di revoca dell’ammissione non si atteggia alla stregua di un licenziamento, ma rientra anch’esso nell’attività trattamentale, periodicamente riscontrata e valutata in relazione alla modificazione dei comportamenti e della personalità. 5. Nei sensi sopra indicati va riaffermato il principio, secondo il quale in materia di lavoro all’esterno i provvedimenti di ammissione e di revoca hanno natura amministrativa e identica natura amministrativa hanno i provvedimenti che, nel corso del procedimento finalizzato alla loro adozione, la legge riserva all’autorità giudiziaria, avverso i quali non è ipotizzabile il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., in quanto la materia in esame non può farsi rientrare in quella della libertà personale Sez. 1, n. 3063 del 19/05/1995 dep. 04/07/1995, Nistri, Rv. 20208301 cui adde Sez.1, n. 33579 del 03/04/2002, Montrucchio, Rv. 22222401 . 6. Non sussistono, pertanto, i denunziati vizi di legittimità, bastando qui ricordare che il reclamo giurisdizionale, con l’espresso richiamo all’art. 69, comma 6, postula l’inosservanza delle disposizioni previste dalla legge penitenziaria e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all’internato un attuale e grave pregiudizio all’esercizio di diritti soggettivi , tal che lì dove la prospettazione dell’istante non involga prima facie violazioni della sfera soggettiva della persona detenuta provocate da atti o comportamenti dell’Amministrazione e, dunque, la domanda non sia inquadrabile ai sensi dell’art. 69, comma 6, il magistrato di sorveglianza non è vincolato alla procedura dell’art. 35 bis e decide de plano con provvedimento deformalizzato, senza fissazione dell’udienza camerale. Nemmeno vi sono i presupposti per qualificare l’impugnazione alla stregua di reclamo al Tribunale di sorveglianza ai sensi dell’art. 35 bis, comma 4, ord. pen., poiché detta forma di impugnazione è chiaramente riferita ai provvedimenti emessi ai sensi dell’art. 35 bis, comma 1, assunti cioè a seguito di reclamo avverso i provvedimenti dell’Amministrazione di cui all’art. 69 ord. pen., comma 6, tra i quali non rientra quello in esame enumerato invece al medesimo art. 69, comma 5. 6. Alla luce delle superiori considerazioni il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità consegue, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità Corte cost., sent. n. 186 del 2000 , anche la condanna al versamento a favore della cassa delle ammende di una sanzione pecuniaria che si stima equo determinare nella somma di Euro 2.000. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di duemila Euro in favore della cassa delle ammende.