Condannata la cliente che si introduce nello studio legale dell’avvocato senza permesso

Invadere lo studio legale dell’avvocato per recuperare dei documenti relativi ad una causa senza permesso è violazione di domicilio. Irrilevante secondo i Giudici il fatto che la condotta avesse il carattere della clandestinità vista la presenza della collaboratrice della persona offesa.

Sul tema la Cassazione con sentenza n. 35767/18, depositata il 26 luglio. La vicenda. La Corte d’Appello di Caltanissetta, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Enna, riqualificava la condotta consumata dall’imputata dall’originaria imputazione di furto nel delitto di violazione di domicilio con la conseguente rideterminazione della pena. Nel dettaglio l’imputata era accusata di essersi introdotta nello studio legale della persona offesa per recuperare dei documenti relativi ad una causa, nonostante l’opposizione della collaboratrice di studio dell’avvocato. Contro la decisione di merito l’imputata ha proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi tutti ritenuti infondati dalla Suprema Corte. Circostanza della clandestinità. La ricorrente con il secondo motivo di ricorso lamenta la violazione di legge ed il difetto di motivazione in quanto la condotta contestata avrebbe dovuto essere ricondotta al delitto previsto dall’art. 392 c.p. Esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose , posto che quando la ricorrente si era introdotta nello studio la collaboratrice era presente al momento del fatto e l’aveva seguita senza perderla di vista. Secondo la Cassazione la richiesta di riqualificazione della condotta nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è infondata. La ricorrente deduce l’insussistenza della clandestinità nell’introduzione nell’ufficio legale, ma i Giudici di legittimità rilevano che la circostanza è priva di pregio visto che alla prevenuta è stata contesta l’introduzione nello studio non in modo clandestino ma contro il volere dell’avente diritto, espresso dall’avvocato per mezzo della sua collaboratrice, così configurandosi il delitto di violazione di domicilio di cui alla prima ipotesi dell’art. 614 c.p In conclusione il Supremo Collegio, ritenendo infondati anche i restanti motivi, ha rigettato il ricorso con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 18 aprile – 26 luglio 2018, n. 35767 Presidente Pezzullo – Relatore Stanislao Ritenuto in fatto 1 - Con sentenza del 7 febbraio 2017, la Corte di appello di Caltanissetta, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Enna, riqualificata la condotta consumata da A.O. , dall’originaria imputazione di furto nel delitto di violazione di domicilio, ne rideterminava la pena. Il compendio probatorio era costituito dalle dichiarazioni della persona offesa, Avv. L.T. , che aveva riferito come l’imputata si fosse introdotta nel suo studio per recuperare i documenti relativi ad una causa intentata dalla madre, con l’assistenza della medesima legale, nonostante l’opposizione della collaboratrice di studio che aveva ricevuto da lei stessa, contattata telefonicamente, disposizioni in tal senso. 2 - Propone ricorso l’imputata, a mezzo del suo difensore, articolando le proprie censure in quattro motivi. 2 - 1 - Con il primo deduce la violazione di legge, ed in particolare degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen., per essere stata ritenuta responsabile del delitto di violazione di domicilio nonostante la rubrica riportasse la sola accusa relativa al delitto di furto, che era stato escluso non appartenendo al legale l’incartamento prelevato dall’imputata. Non aveva rilievo il fatto che le fosse stato contestato, fin dall’originaria imputazione, di essere penetrata, contro il volere del legale, nel suo ufficio, non essendole stata comunque mai contestata formalmente la violazione dell’art. 614 cod. pen Sulla diversità fra le due fattispecie di reato citava la sentenza n. 9523 del 18/09/1997 di questa Corte. 2 - 2 - Con il secondo motivo lamenta la violazione di legge ed il difetto di motivazione in quanto la condotta dell’imputata non era stata ricondotta al delitto previsto dall’art. 392 cod. pen Si doveva, infatti, considerare che non si era raggiunta la prova che la ricorrente si fosse introdotta, contro la volontà della persona offesa o clandestinamente, nella stanza - studio della L. , posto che la sua collaboratrice aveva riferito di averla seguita e di non averla mai persa di vista. In ogni caso l’imputata aveva solo inteso recuperare i documenti e non violare il domicilio del legale. 2 - 3 - Con il terzo motivo deduce la violazione di legge in relazione alla mancata applicazione dell’art. 131 bis cod. pen., i cui estremi potevano essere ravvisati dal giudicante all’esito dell’intervenuta riqualificazione della condotta. 2 - 4 - Con il quarto motivo lamenta la violazione di legge in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, punto sul quale, nonostante lo specifico motivo di appello, la Corte non aveva motivato in alcun modo. 3 - Il difensore della ricorrente ha depositato una memoria nella quale sviluppa ulteriori argomentazioni relative ai primi tre motivi di ricorso. Considerato in diritto Il ricorso promosso nell’interesse di A.O. è privo di fondamento e va pertanto rigettato. 1 - Il fatto contestato all’imputata nel manifesto d’accusa comprende anche l’illecito ingresso della medesima tanto che vi si legge mentre si trovava all’interno dello studio professionale dell’Avv. L.T. , in attesa che quest’ultima vi facesse rientro, si introduceva, contro la espressa volontà delle colleghe e collaboratrici di studio del professionista anzidetto, all’interno della stanza di quest’ultima, ed ivi si impossessava . Non vi è pertanto dubbio che, oltre al furto dei documenti del quale l’imputato non è stata ritenuta colpevole , alla medesima fosse stato ascritto anche l’ingresso, contro la volontà dell’avente diritto espressa attraverso le collaboratrici di studio , nel suo studio personale, come tale non accessibile a chiunque ma solo a chi fosse stato autorizzato dallo stesso legale. La Corte d’appello pertanto, nel riqualificare la condotta, non aveva aggiunto nulla all’accusa mossa fin dall’origine alla prevenuta, solo ritagliandone un segmento e modificandone, di conseguenza, il nomen iuris . Facendo così corretta applicazione del noto principio di diritto, formulato dalle Sezioni unite di questa Corte, con la sentenza n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051, secondo il quale, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa. Trasformazione che certo non si è verificata nel caso concreto posto che, lo si ripete, la condotta di cui l’imputata è stata ritenuta responsabile rientrava, tutta, nell’originaria imputazione. Dovendosi poi considerare che la stessa non poteva che essere rubricata, una volta riacquistata la sua autonomia dal susseguente impossessamento degli atti del fascicolo , nel delitto di violazione di domicilio ritenuto dal giudice senza che si fosse creata quella dicotomia strutturale di condotte, incompatibili l’una con l’altra, il furto e la truffa, che costituisce il presupposto della sentenza Sez. 4, n. 9523 del 18/09/1997, Grillo, Rv. 208784, citata nel ricorso . Il primo motivo è pertanto infondato. 2 - Il secondo, sulla richiesta riqualificazione della condotta nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, anche in relazione all’assenza di prova dell’introduzione nell’ufficio della legale in modo clandestino, è parimenti infondato. Quanto al diverso delitto ipotizzato, previsto dall’art. 392 cod. pen., non ne sussiste il presupposto, la possibilità dell’agente di rivolgersi al giudice, posto che, dall’incontrastata, sul punto, ricostruzione del fatto, il fascicolo in possesso del legale riguardava un incarico affidatole dalla madre della ricorrente e non dalla ricorrente stessa. La non clandestinità dell’ingresso della prevenuta nello studio personale del legale è, invece, circostanza priva di pregio alcuno visto che le è stata contestata l’introduzione nello stesso, non in modo clandestino ma contro il volere dell’avente diritto, espressole dalla L. attraverso le collaboratrici, così configurandosi la prima delle diverse ipotesi alternative che configurano il delitto ascrittole e non la seconda, come la censura difensiva presuppone. 3 - Il terzo motivo è inammissibile non avendo la prevenuta richiesto al giudice del merito la speciale formula di proscioglimento prevista dall’art. 131 bis cod. pen., non sussistendo onere alcuno, in capo al giudice, neppure quando diversamente qualifichi il fatto, di vagliarne d’ufficio la configurabilità, non rientrando tale decisione nel novero di quelle indicate dall’ultimo comma dell’art. 597 cod. proc. pen. come rilevabili d’ufficio, e non essendo la stessa una delle formule di proscioglimento previste dall’art. 129 cod. proc. pen 4 - Il quarto motivo è infondato poiché la Corte territoriale, con motivazione implicita, laddove ha ricordato la gravità del fatto connotato dall’azione repentina, e meditata, della prevenuta al fine di realizzare i suoi illeciti intenti, ha escluso che sussistano ragioni di meritevolezza che consentano di concederle le circostanze attenuanti generiche. 5 - Al complessivo rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.