La punibilità per molestia nel caso di innumerevoli chiamate all’ex

L’art. 660 c.p. punisce la condotta di chi reca molestia o disturbo al altro soggetto, se commessa per petulanza o per altro biasimevole motivo condotta tenuta con la consapevolezza della sua idoneità a molestare o disturbare il soggetto passivo del reato.

Lo ha confermato la Corte di Cassazione con sentenza n. 28253/18 depositata il 19 giugno. Il caso. L’imputata aveva recato molestia e disturbo all’ex marito contattandolo più e più volte telefonicamente, giustificando le telefonate con il desiderio di sentire i propri figli, i quali vivevano con il padre. Secondo il Giudice dell’appello, la sua petulanza si estrinsecava in un atteggiamento pressante, indiscreto e invadente nei confronti dell’ex coniuge. L’elemento soggettivo del reato. In tema di molestia o disturbo alle persone, l’art. 660 c.p. punisce chiunque, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo, in un luogo pubblico o col mezzo del telefono, sottolineando che se la condotta è stata posta in essere per petulanza , non occorre un ulteriore biasimevole motivo per integrare il reato sotto il profilo soggettivo. Ciò è stato ribadito dalla Suprema Corte, la quale sul punto evidenzia che l’elemento soggettivo del reato è rappresentato dalla consapevolezza di voler molestare o disturbare il soggetto passivo, senza che assuma rilievo l’eventuale sua convinzione di operare per un fine non biasimevole o per il ritenuto conseguimento, con modalità non legali, della soddisfazione di un proprio diritto , essendo quindi sufficiente qualsiasi condotta volontaria oggettivamente idonea a molestare altre persone, con lo scopo specifico di interferire nella libertà altrui. Pertanto la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 23 aprile – 19 giugno 2018, n. 28253 Presidente Iasillo – Relatore Rocchi Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza indicata in epigrafe, il Tribunale di Trapani dichiarava S.A.M. colpevole della contravvenzione di cui all’art. 660 cod. pen., dichiarava non doversi procedere nei suoi confronti per il delitto di minaccia per intervenuta remissione di querela e la assolveva dal delitto di ingiuria con la formula perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato . Secondo l’imputazione, la S. avrebbe recato molestia e disturbo all’ex coniuge P.F. contattandolo ripetutamente, anche più volte al giorno, tramite le utenze telefoniche a lei in uso. Secondo il Giudice nell’arco del trimestre ottobre - dicembre 2013 erano state effettuate 49 telefonate dalle due utenze cellulari in uso all’imputata verso quella della persona offesa. L’imputata aveva ammesso di averle effettuate, giustificandosi con il desiderio di sentire i propri figli, che erano stati affidati al marito. Peraltro, il figlio A. , sentito dalla polizia giudiziaria, aveva negato che il padre avesse impedito i contatti con la madre che gli pervenivano sul suo cellulare era stato il figlio a bloccare le chiamate provenienti dal cellulare della madre, perché lui e suo fratello non volevano vederla spesso, anche perché le conversazioni finivano sempre in offese al padre. Anche il figlio maggiore P.R. aveva confermato che la madre molestava il padre con telefonate e SMS, così come faceva con lui, e spesso offendeva il padre. In definitiva, la persona offesa era risultata attendibile e le sue dichiarazioni erano riscontrate da quelle dei figli. Quanto all’elemento soggettivo del reato, il Giudice osservava che l’atteggiamento dell’agente risulta petulante quando colui che interferisce nell’altrui sfera di libertà continua a farlo anche dopo essersi accorto che la sua condotta non è gradita. La petulanza, come nel caso di specie, si esplicava in un modo di agire pressante, indiscreto ed invadente e il reato sussiste anche se difetta il biasimevole motivo, come nel caso in esame. Il giudice concedeva all’imputata le attenuanti generiche. 2. Ricorre per cassazione il difensore di S.A.M. , deducendo violazione di legge e vizio di motivazione. L’istruttoria aveva dimostrato che il reato era insussistente per difetto dell’elemento soggettivo, atteso il motivo per cui l’imputata telefonava ripetutamente al marito la necessità di contattare i figli - uno dei quali aveva bloccato le chiamate provenienti dall’utenza della madre - e di avere loro notizie. Quindi la S. non voleva sentire l’ex marito che, del resto, non si era mai lamentato delle chiamate ricevute. Il Giudice aveva confermato l’assenza di un biasimevole motivo ad origine delle chiamate, ma aveva ugualmente ritenuto integrato il reato contestato eppure la giurisprudenza di legittimità esclude il reato contestato in mancanza di un motivo biasimevole, anche se la condotta risulta molesta. Il ricorrente conclude per l’annullamento della sentenza impugnata. Considerato in diritto Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi. Il motivo di ricorso non contesta la ricostruzione della condotta operata dalla sentenza impugnata le telefonate sono state espressamente ammesse dall’imputata che ha sì, sostenuto, che l’ex marito non si era mai lamentato delle stesse, ma anche che il figlio con cui la S. voleva parlare non rifiutava di ricevere sue chiamate, tanto da bloccare le telefonate in entrata provenienti dai suoi apparecchi cellulari. In ogni caso, si tratta di circostanze di fatto per le quali la ricorrente non denuncia un travisamento della prova da parte del Tribunale che, invece, ha affermato la piena consapevolezza da parte dell’imputata che le sue chiamate non erano gradite, sia per la condotta posta in essere offese, ingiurie contro il coniuge , sia per il loro numero la sentenza menziona nove chiamate nel corso di una sola giornata . D’altro canto, la questione di diritto posta in ricorso risulta ripetutamente smentita dalla giurisprudenza di questa Corte. L’articolo 660 cod. pen. punisce la condotta che reca molestia o disturbo se commessa per petulanza o per altro biasimevole motivo la particella disgiuntiva o impone inevitabilmente di ritenere che, se la condotta è stata posta in essere per petulanza , non occorre un ulteriore biasimevole motivo per integrare il reato sotto il profilo soggettivo. Ciò è stato affermato ripetutamente da questa Corte, secondo cui l’elemento soggettivo del reato consiste nella coscienza e volontà della condotta, tenuta nella consapevolezza della sua idoneità a molestare o disturbare il soggetto passivo, senza che possa rilevare, in quanto pertinente alla sfera dei motivi, l’eventuale convinzione dell’agente di operare per un fine non biasimevole o addirittura per il ritenuto conseguimento, con modalità non legali, della soddisfazione di un proprio diritto Sez. 1, n. 33267 del 11/06/2013 - dep. 31/07/2013, Saggiomo, Rv. 256992 Sez. 1, n. 4053 del 12/12/2003 - dep. 03/02/2004, Rota, Rv. 226992 quindi, è sufficiente qualsiasi condotta volontaria oggettivamente idonea a molestare e disturbare terze persone, avente il fine specifico di interferire inopportunamente nell’altrui sfera di libertà Sez. 1, n. 19071 del 30/03/2004 - dep. 23/04/2004, Gravina, Rv. 228217 in definitiva, gli intenti perseguiti dall’agente sono del tutto irrilevanti, una volta che si sia accertato che comunque, a prescindere dalle motivazioni che sono alla base del comportamento, esso è connotato dalla caratteristica della petulanza, ossia da quel modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà delle persone Sez. 1, n. 13555 del 26/11/1998 - dep. 22/12/1998, Faedda, Rv. 212059 . Si tratta della ricostruzione del fatto che, in maniera logica e argomentata, il Tribunale ha offerto della vicenda. 2. Alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione consegue ex lege, in forza del disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento della somma, tale ritenuta congrua, di Euro 2.000 duemila in favore delle Cassa delle Ammende, non esulando profili di colpa nel ricorso palesemente infondato v. sentenza Corte Cost. n. 186 del 2000 . P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 alla Cassa delle Ammende.