“Giudice corrotto”, scrisse l’imputata irritata. Inevitabile la condanna per diffamazione

Nessuna giustificazione per l’imputata che, arrabbiata per il rigetto di un suo ricorso in materia di lavoro, pubblicava un articolo su un sito internet nel quale si definiva corrotto il giudice della causa. Aver acconsentito alla pubblicazione del testo diffamante integra la compartecipazione nell’illecito, condannata per diffamazione.

Sul tema la Cassazione con sentenza n. 27930/18 depositata il 18 giugno. Il fatto. La controversia traeva origine dalla pubblicazione su un sito internet di un articolo nel quale l’odierna ricorrente definiva la persona offesa un giudice corrotto in quanto aveva ascoltato solamente gli avvocati dei ricchi, dei padroni perché gridano più forte . Nella specie la ricorrente era arrabbiata con la persona offesa per aver rigettato un suo ricorso in materia di lavoro, in qualità di giudice del processo. Valutati i fatti, i Giudici di merito aveva condannato l’imputata per il reato di diffamazione nei confronti del giudice. La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso dell’imputata ritenendolo assolutamente generico. Acconsentire alla pubblicazione integra compartecipazione nell’illecito. In particolare, osserva la Suprema Corte, i Giudici di merito hanno correttamente spiegato che parlare, gratuitamente di giudice corrotto” offende gravemente la reputazione del soggetto interessato, in quanto l’integrità morale rappresenta uno dei requisiti necessari all’esercizio della funzione giudiziaria e cifra del valore della persona . Inoltre nel caso di specie non è possibile prendere in considerazione il diritto di critica in quanto esso deve poggiare su fatti veri e non supposti o semplicemente inventati . Infine gli Ermellini evidenziano che i Giudici di merito hanno ritenuto che il comportamento dell’imputata, nell’aver proposto un titolo diverso, ma poi accettato che venisse pubblicato il titolo diffamante, integra inequivocabilmente una forma di compartecipazione nell’illecito, e non una semplice connivenza , in quanto l’imputata poteva opporsi alla pubblicazione dell’articolo atteso che la divulgazione delle notizia era rimessa alla sua volontà . Alla dichiarazione di inammissibilità della Suprema Corte consegue la condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 13 aprile – 18 giugno 2018, n. 27930 Presidente Sabeone – Relatore Settembre Ritenuto in fatto 1. La Corte d’appello di Milano ha, con la sentenza impugnata, confermato quella emessa dal locale Tribunale, che aveva condannato M.E. per diffamazione in danno del C.C. , giudice del Tribunale di Pinerolo. Secondo l’accusa, condivisa dai giudici di merito, M. , irritata per il fatto che era stato rigettato, dal dr. C. , un suo ricorso in materia di lavoro, pubblicò sul sito omissis un suo scritto, dal titolo omissis in cui si asseriva che il dr. C. aveva ascoltato solamente gli avvocati dei ricchi, dei padroni perché gridano più forte e che non aveva avuto scrupoli nel rovinare la sua vita. 2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione l’imputata, a mezzo del difensore, lamentando a mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, derivante dal fatto che la Corte d’appello si è limitata a riportare alcune frasi dell’articolo e ad affermare che costituiscono i punti salienti dello stesso, senza spiegare perché travalichino il diritto di critica b violazione di legge non viene specificato quale e vizio di motivazione in ordine all’attribuibilità del titolo all’autrice dello scritto c violazione degli artt. 132 e 133 del cod. pen. e vizio di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio e alle statuizioni civili. Considerato in diritto Il ricorso è inammissibile per assoluta e irrimediabile genericità e perché non si confronta minimamente con le argomentate riflessioni dei giudici di merito. Premesso che, nella specie, si è di fronte a doppia conforme, per cui le sentenze di primo e secondo grado si saldano a formare un unico corpus argomentativo, balza evidente, dalla semplice lettura delle stesse, che è stata fornita risposta a tutte le doglianze difensive, in quanto a è stato spiegato - circostanza, peraltro, comprensibile a chiunque viva nel consorzio sociale - che parlare, gratuitamente, di giudice corrotto offende gravemente la reputazione del soggetto interessato, in quanto l’integrità morale rappresenta uno dei requisiti necessari all’esercizio della funzione giudiziaria e cifra del valore della persona. Quanto al diritto di critica, esso deve poggiare su fatti veri e non supposti o semplicemente inventati b entrambe le sentenze hanno spiegato che M. propose un titolo diverso dell’articolo, ma poi accettò che questo venisse pubblicato nella maniera che gli è contestata. Tale condotta integra inequivocabilmente una forma di compartecipazione nell’illecito, e non una semplice connivenza, giacché M. aveva la facoltà, e il dovere, di opporsi alla pubblicazione dell’articolo, atteso che la divulgazione della notizia era rimessa alla sua volontà c la sanzione penale è stata determinata nella forma pecuniaria, invece che in forma detentiva, ed è stata contenuta nei limiti edittali nessuna ragione ha, pertanto, la ricorrente di dolersi della decisione del giudice di merito, atteso che questi è libero nell’apprezzamento e non ha mancato di rimarcare l’entità della diffamazione e la diffusività del mezzo impiegato, che ha amplificato l’offesa, rendendo, in tal modo, una motivazione aderente ai criteri cui, per legge, deve attenersi il giudice nella commisurazione della pena d la sanzione civile è stata determinata in maniera equitativa, tenendo conto dei parametri utilizzati per la valutazione del reato e del danno, nient’affatto lieve, procurato alla persona offesa. Per contro, le doglianze difensive si appalesano assolutamente generiche e apodittiche, concretandosi in un rimando ai motivi d’appello nemmeno illustrati nella loro significazione. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento a favore della cassa delle ammende della somma, equitativamente stabilita, di Euro duemila. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 a favore della Cassa delle ammende.