Va sempre consentita all’imputato l’escussione della fonte diretta, in caso di testimonianza de relato

Anche quando sul dichiarante invocato non verta alcun obbligo di deposizione, come nel caso di coimputati o di imputati nei procedimenti connessi o collegati ex artt. 197 bis e 210 c.p.p. Alla mancata convocazione degli imputati cit. segue l’inutilizzabilità della testimonianza indiretta già resa.

Così la Cassazione, Prima Sezione Penale, sentenza n. 23345/18, depositata il 24 maggio. Il fatto processuale il caso della testimonianza/fonte diretta del coimputato o dell’imputato in un procedimento connesso o collegato da escutere a seguito delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Per fatti di mafia, l’esecutore materiale di un tentativo omicidiario veniva condannato per tentato omicidio con aggravante mafiosa ex artt. 56, 575 c.p. ed art. 7 l. n. 152/1991. Le prove a carico maturavano per le deposizioni testimoniali prodotte da collaboratori di giustizia, i quali avevano acquisito informazioni sulla reità dell’imputato dai mandanti e dagli esecutori del medesimo fatto delittuoso – coimputati ed imputati in procedimenti connessi o collegati -. Per quest’ultimi, come noto - nonostante l’art. 195 c.p.p. in via generale imponga l’audizione della fonte diretta pena l’inutilizzabilità delle dichiarazioni de relato - non vige tuttavia alcun obbligo di deposizione, anche ai sensi degli artt. 197- bis , comma 4 e 210, comma 4, c.p.p. – recanti disciplina sull’esame e sulla testimonianza assistita degli imputati nei procedimenti connessi o collegati –. La Corte d’Appello – così deducendo dall’assenza di un obbligo di deposizione - non aveva ammesso la richiesta dell’imputato di provare ad escutere i testimoni/coimputati cit. e, ciò nonostante, aveva a piene mani attinto dalle dichiarazioni accusatorie de relato per condannare l’imputato. La Cassazione invocata, ritenuta la violazione dell’art. 195 c.p.p., annulla la sentenza e rinvia ad altra sezione. La dichiarazione de relato ex art. 195 c.p.p. è utilizzabile nei casi prescritti di morte, infermità ed irreperibilità della fonte diretta e – inoltre - nel caso di assenza di obbligo a deporre per il coimputato o per l’imputato in un procedimento connesso o collegato ex artt. 197-bis, 208 e 210 c.p.p Va di fatti specificata la non tassatività dei casi indicati ex comma 4 dell’art. 195 c.p.p. Il coordinamento sistematico con gli artt. 197- bis e 210 c.p.p. cit. – su descritti – e con l’art. 208 c.p.p. – che ammette l’esame del coimputato solo quando questo ne fa richiesta o vi consenta -, impone di ritenere l’utilizzabilità della dichiarazione de relato anche nel caso in cui manchi un obbligo di deposizione a carico della fonte diretta invocata. Occorre tuttavia trovare riscontri al narrato, sia di carattere soggettivo – sull’attendibilità del dichiarante – che oggettivo – sulla verità di quanto riferito -, per l’espresso disposto dell’art. 192, comma 3, c.p.p Va tuttavia in concreto” verificata la mancata volontà dei coimputati o degli imputati nei procedimenti connessi o collegati – che devono essere convocati in dibattimento - di deporre nel processo. Sulla scorta dei sostegni sistematici su descritti i Giudici di primo grado e d’appello avevano superato la richiesta di escussione della fonte diretta da parte dell’imputato. A contrario i Giudici di legittimità specificano che qualora l’imputato ne faccia richiesta, deve essere tentata l’escussione dei coimputati cit., i quali potranno eventualmente rifiutarsi di rispondere, con reviviscenza processuale del contenuto dichiaratorio del testimone de relato . In caso di richiesta di esame inevasa, s’integra la violazione dell’art. 195 c.p.p., come nel caso.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 23 gennaio – 24 maggio 2018, n. 23345 Presidente Cortese – Relatore Vannucci Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 7 dicembre 2015 la Corte d’appello di Napoli confermò la decisione con cui, il 20 febbraio 2013, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ebbe a dichiarare L.I. responsabile, in concorso con B.A. mandante e C.F. altro esecutore , del delitto di tentato omicidio aggravato ex art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, convertito con modificazioni nella legge n. 203 del 1991 di R.A., commesso in omissis , con conseguente condanna dello stesso imputato alla pena di quattordici anni di reclusione. Richiamata e condivisa la decisione di primo grado, il giudice di appello indica gli elementi di prova a conferma della statuizione di colpevolezza, costituiti dalle convergenti chiamate in reità rispettivamente effettuate dai collaboratori di giustizia Be.Ma. e A.P. dal riconoscimento formale che la persona offesa R. aveva fatto del motociclo impiegato in occasione della commissione del delitto dall’esito degli accertamenti relativi ai residui di sparo rinvenuti su tale veicolo, appartenente a L. dal contenuto della, captata, conversazione svoltasi il 9 aprile 2009 all’interno di autovettura da L. usata. In particolare Be. ed A. avevano, rispettivamente, dichiarato di aver appreso da B.A. che costui era il mandante del progettato omicidio Be. aveva, in particolare, affermato che, prima del fatto delittuoso, B. aveva detto di avere incaricato C. e L. di eseguire il mandato ad uccidere, confermando, poi, dopo il tentativo di omicidio, che i due avevano invano tentato di uccidere la vittima designata, secondo quanto da loro riferito allo stesso B. dopo il loro arresto Be., infine, aveva riferito di aver saputo, nel corso conversazioni svoltesi all’interno del carcere, da C. e L. che costoro erano stati gli esecutori materiali del fatto A. aveva, invece, dichiarato, di avere appreso, da confidenza fattagli da D.V.F., che C. e L. erano stati gli esecutori materiali del tentativo di omicidio. Nel rigettare istanza avanzata dal difensore di L., il giudice di appello evidenzia, da un lato, che non vi era obbligo di ascoltare il contenuto delle dichiarazioni provenienti dalle fonti primarie di prova orale B. e C. , essendo costoro imputati dello stesso reato in altri procedimenti che avrebbero avuto facoltà di non rispondere e che nella specie la prova dichiarativa si sottraeva alla disciplina contenuta nell’art. 195 cod. proc. pen. e, dall’altro, che la richiesta di ascoltare in dibattimento le dichiarazioni di D.V. era stata avanzata solo nel corso della discussione orale svoltasi nel dibattimento in grado di appello. Stimata l’intrinseca attendibilità delle fonti e la convergenza di quanto da esse affermato, la sentenza evidenzia che gli elementi a disposizione erano coerenti e che le chiamate de relato avessero linea univoca di lettura. I riscontri alla compartecipazione di L. e C. nella commissione del fatto sono costituiti dai residui di sparo rilevati sul motociclo impiegato per l’agguato e dal riconoscimento del mezzo da parte della persona offesa. Infine, il contenuto della conversazione, captata, del 10 aprile 2009 dava conto della consapevolezza dell’imputato delle responsabilità nell’agguato in esame e della preoccupazione a lui derivante dall’esito degli esami sugli abiti sequestrati e sottoposti ad accertamento. 2. Per la cassazione di tale sentenza L.I. ha proposto ricorso atto da lui sottoscritto con il quale sono dedotti vizio di motivazione e violazione di legge. 2.1 Deduce in primo luogo il ricorrente che nella specie la ricognizione della motocicletta era nulla per violazione dell’art. 213, ultimo comma, cod. proc. pen., dal momento che la persona offesa, prima di procedere al riconoscimento, aveva visto informalmente tale veicolo presso la caserma dei carabinieri nella individuazione di cose l’art. 361 cod. proc. pen. opera un richiamo al disposto del precedente art. 213 attraverso il primo comma dell’art. 215 dello stesso codice di rito dal contenuto del verbale risultava che non erano state osservate le prescrizioni imposte dalla norma richiamata. Inoltre, il processo era stato caratterizzato dalla mancata assunzione di una prova decisiva costituita dall’escussione in dibattimento di B.A. e C.F., imputati della commissione dello stesso reato in altri procedimenti, che avevano riferito ai dichiaranti Be. ed A., nel corso di periodi di detenzione comune, di essere, rispettivamente, mandante ed esecutore, unitamente a L., del tentativo di omicidio. Il giudice di primo grado aveva verificato che la cronologia detentiva era compatibile ma non aveva accertato se in concreto entrambi avessero possibilità di accedere a luoghi comuni. Nel caso di specie le notizie riferite derivavano da unica fonte e le dichiarazioni, ancora, sarebbero state inutilizzabili ex art. 195, comma 3, cod. proc. pen 2.2 Con il secondo motivo si deduce omessa e contraddittoria motivazione. Si afferma, quanto ai risultati dello stub effettuato sul motociclo, che il giudice di appello non aveva esaminato la possibilità che tale veicolo fosse stato contaminato dall’accesso in sito della polizia giudiziaria. Ancora, la motocicletta era stata venduta ad esso L. il OMISSIS , due giorni prima del delitto, ed era possibile che il veicolo fosse già contaminato al momento della relativa consegna, essendo il relativo venditore, B.A., persona adusa all’impiego di armi. Inoltre, nello scrutinio di attendibilità delle fonti collaborative, la sentenza impugnata aveva travisato quanto riferito da A.P., che aveva riferito una causale del delitto diversa da quella propalata da Be.Ma. . Del resto, ad avviso del ricorrente, lo stesso quadro descritto da Be. non coinciderebbe con quanto detto dalla persona offesa, dal momento che il primo aveva affermato che C. era sceso dalla moto ed aveva sparato Ra.Ag. aveva invece affermato che i colpi erano stati esplosi dall’esecutore che era in sella al motoveicolo. Considerato in diritto 1. La prima parte del primo motivo di ricorso è inammissibile per mancanza di specificità. Invero, il ricorrente deduce solo che l’individuazione da parte della persona offesa, escussa come testimone in dibattimento, del motociclo, ad esso ricorrente sequestrato, come il veicolo utilizzato dalle due persone che tentarono di ucciderla, sarebbe avvenuta, nel corso delle indagini preliminari, in violazione dell’art. 213 cod. proc. pen. le cui disposizioni sono richiamate, in quanto compatibili, dal successivo art. 215 relativo alla ricognizione di cose non si confronta però in alcun modo con il contenuto della motivazione sul punto espressa nella sentenza impugnata. Nella sentenza, oltre al richiamo del principio, qui condiviso, secondo cui le ricognizioni fotografiche di persone o cose effettuato nel corso di indagini della polizia giudiziaria, non specificamente regolato dal codice di rito, costituisce un accertamento di fatto, in quanto tale utilizzabile in dibattimento in base ai principi di non tassatività dei mezzi di prova e del libero convincimento del giudice in questo senso, cfr., fra le altre, Cass. Sez. 5, n. 6456 del 1 ottobre 2015, dep. 2016, Verde, Rv. 266023 Cass. Sez. 6, n. 12501 del 27 gennaio 2015, Di Stefano, Rv. 262908 , si afferma che nel riconoscimento informale la prova non deriva dall’atto ricognitivo in sé, bensì dall’attendibilità delle dichiarazioni di chi, avendo avanti la polizia giudiziaria esaminato il motociclo al ricorrente sequestrato nell’immediatezza dei fatti, si dica certo, in sede di escussione quale testimone, della identificazione in precedenza effettuata che l’attendibilità delle dichiarazioni rese dal testimone R. si desume dai fatti, esterni alla dichiarazione, specificamente indicati nelle pagg. 7 e 8 della sentenza impugnata. Con tale specifica parte della motivazione il ricorrente, come detto, non si confronta con conseguente inammissibilità della prima parte del primo motivo di ricorso per mancanza di indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che avrebbero dovuto qualificare lo stesso art. 581, lett. c , cod. proc. pen. . 2. Nel caso concreto, e per quanto interessa la specifica doglianza contenuta nella seconda parte del primo motivo di ricorso, si osserva che il ricorrente è stato, in dibattimento, indicato come esecutore del delitto dai collaboratori di giustizia estranei al fatto nel processo di merito da accertare Be.Ma. e A.P. entrambi appartenenti all’organizzazione di camorra denominata clan be. , di omissis , al momento della commissione del tentato omicidio . Be. ha, in sintesi, dichiarato a di avere appreso da B.A. personaggio di spicco del clan be. che costui aveva dato incarico, per i motivi specificamente indicati dal dichiarante, all’odierno ricorrente ed a C.F. entrambi appartenenti a tale associazione criminale di uccidere Ra.Ag. ed aveva consegnato a C. una pistola modello P38 , a dire di B. poi utilizzata per commettere il delitto con la precisazione che il mandato originariamente conferito era nel senso che C. avrebbe dovuto condurre il motociclo mentre L., seduto dietro al conducente, avrebbe dovuto sparare alla vittima designata, mentre L. e C., dopo il loro arresto, avevano riferito che i ruoli nell’esecuzione del mandato erano stati invertiti b di avere appreso da C. e L. che costoro erano stati gli esecutori del mandato, non interamente adempiuto per fatti indipendenti dalla loro volontà. A. ha, a sua volta, in sintesi affermato a di avere appreso da B.A. che costui aveva conferito mandato di uccidere R. b di avere appreso da D.V.F. altro dirigente del clan be. , che gli esecutori del mandato si identificavano in C. e L. . B., C. e D.V. non sono stati escussi in dibattimento e non risulta che costoro abbiano reso, nel corso delle indagini preliminari, dichiarazioni relative al delitto di cui il ricorrente è imputato. La sentenza impugnata h.3, poi, correttamente escluso la sussistenza di proprio obbligo di procedere all’escussione di D.V.F. perché la relativa istanza non era contenuta nei motivi di appello. Tale decisione, d’altra parte, non è specificamente contestata in questa sede dal ricorrente. Premesso, poi, che nessuna critica specifica di una qualche consistenza il ricorrente muove quanto al giudizio di attendibilità, intrinseca ed estrinseca, delle dichiarazioni rispettivamente rese dai due collaboratori, fra loro reciprocamente riscontrate in maniera individualizzante pagg. 6 e 7 della sentenza impugnata pagg. 52-54 della sentenza di primo grado - dal momento che le doglianze sul punto contenute nella seconda parte del secondo motivo di ricorso sono da un lato connotate da alquanta genericità e, dall’altro, hanno avuto puntuale ed adeguata risposta da parte del giudice di appello -, la sentenza impugnata è invece contestata in diritto per avere disatteso, confermando sul punto la decisione di primo grado, l’istanza del ricorrente riprodotta nei motivi di appello di escutere in dibattimento B. e C. quali imputati, in altri procedimenti, della commissione del tentato omicidio di R., in quanto fonte primaria delle dichiarazioni rispettivamente rese da Be. e da A. come sopra sintetizzate con conseguente dedotta violazione del precetto contenuto nell’art. 195 cod. proc. pen., in tema di testimonianza indiretta. La sentenza impugnata al pari di quella di primo grado ritiene inapplicabile nel caso concreto la disciplina relativa alla testimonianza indiretta, in adesione ai principi affermati in argomento dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’art, 195 cod. proc. pen. non si applica quanto alla dichiarazione de relato dei collaboranti che hanno riferito fatti appresi dal coimputato, in quanto la fonte primaria in tal caso non può essere chiamata a rendere dichiarazioni che possano pregiudicare la sua posizione, fermi restando i criteri di particolare rigore nella valutazione di tali elementi probatori cfr. Cass. Sez. 5, n. 21562 del 3 febbraio 2015, Fiorisi, Rv. 263705 Cass. Sez. 5 n. 3284 del 25 maggio 2011, Mazzarella, Rv. 250582 Cass. Sez. 1, n. 16891 del 10 febbraio 2010, Tolentino, Rv. 24755 Cass. Sez. 6, n. 33750 del 11 maggio 2005, Longoni, Rv. 232042 Cass. Sez. 5, n. 26628 del 23 marzo 2004, Sappracone, Rv. 229863 . La stessa sentenza è dichiaratamente consapevole che l’interpretazione da essa seguita si pone in aperto contrasto con i contenuti dell’arresto costituito da Cass. S.U., n. 20804 del 29 novembre 2012, dep. 2013, Aquilina, Rv. 255145 di seguito indicata anche come sentenza Aquilina , che in quello che viene dal giudice di appello ritenuto essere un obiter dictum caratterizzante parte della relativa motivazione ha affermato che quando l’autore della confidenza stragiudiziale, riferita nel corso dell’esame dibattimentale da persona che rende dichiarazioni de relato, sia un imputato in procedimento connesso o collegato ai sensi dell’art. 210 cod. proc. pen., è doverosa l’applicazione dell’art. 195 cod. proc. pen. in quanto espressamente prevista dal comma 5 dell’art. 210 cod. proc. pen La stessa sentenza di appello, tuttavia, evidenzia che il risultato cui si perviene seguendo la regola di interpretazione da essa fatta propria e l’argomentare della sentenza resa a sezioni unite è identico , dal momento che tale ultima pronuncia giustifica la mancata escussione della fonte diretta, con conseguente utilizzabilità della chiamata in reità o correità, considerando non tassativi i casi di impossibilità di escussione della fonte diretta previsti dall’art. 195, comma 3, cod. proc. pen., posto che nei casi di imputato nel medesimo procedimento, o in procedimento connesso o collegato tali soggetti non hanno l’obbligo di sottoporsi all’esame e che tale conclusione vale nei casi previsti dagli artt. 197-bis, comma 4 e 198, comma 2, cod. proc. pen. Sempre secondo la sentenza impugnata, la citata sentenza del 2012 afferma del resto che, qualora l’imputato di reato connesso o collegato, fonte primaria delle conoscenze relative ai fatti contestati, si avvalga della facoltà di non rispondere ad esso garantita dall’art. 210, comma 4, cod. proc. pen. , la dichiarazione de relato è comunque utilizzabile, anche se non sottoposta al vaglio della fonte diretta. La conclusione del ragionamento della sentenza impugnata è dunque nel senso che il contenuto delle dichiarazioni rese de relato dai due collaboratori di giustizia sopra indicati è utilizzabile a prescindere dall’assunzione della fonte diretta delle loro conoscenze . Tale conclusione, che ha il pregio di essere sorretta da un argomentare che non si arresta alla compulsazione delle massime estratte dalle sentenze di legittimità, si pone però in rotta di collisione con l’interpretazione della disciplina relativa alla valutazione della prova nel caso di dichiarazione resa da chiamante in reità o correità de relato offerta, in motivazione, dalla sentenza Aquilina. Tale sentenza ha, in sede di risoluzione di contrasto di giurisprudenza, espressamente affermato i seguenti principi di diritto la chiamata in correità o in reità de relato, anche se non asseverata dalla fonte diretta, il cui esame risulti impossibile, può avere come unico riscontro, ai fini della prova di responsabilità penale dell’accusato, altra o altre chiamate di analogo tenore per il conseguimento del fine precisato si richiede a la valutazione positiva della credibilità soggettiva di ciascun dichiarante e dell’attendibilità intrinseca di ogni singola dichiarazione, in base ai criteri della specificità, della coerenza, della costanza, della spontaneità b l’accertamento dei rapporti personali tra il dichiarante e la fonte diretta, per inferirne dati sintomatici della corrispondenza al vero di quanto dalla seconda confidato al primo e la convergenza delle varie chiamate, che devono riscontrarsi reciprocamente in maniera individualizzante in relazione a circostanze rilevanti del thema probandum d l’indipendenza delle chiamate, nel senso che non devono rivelarsi frutto di eventuali intese fraudolente e l’autonomia genetica delle chiamate vale a dire la loro derivazione da fonti d’informazione diverse . Onde pervenire a tali conclusioni con particolare riferimento alla prima , la sentenza contiene una articolata ricostruzione tanto del valore probatorio delle dichiarazioni rese de relato da collaboratore di giustizia quanto delle conseguenze processuali derivate da tali dichiarazioni. In funzione della risoluzione del contrasto, la sentenza ha ritenuto necessario stabilire se l’obbligatorietà - prevista a pena di inutilizzabilità dal comma 3 dell’art. 195 cod. proc. pen. - dell’audizione, a richiesta di parte, della fonte diretta operi anche nell’ipotesi in cui questa si identifichi con un imputato nel medesimo processo, con un imputato in processo connesso o collegato ovvero con un testimone assistito . In primo luogo, in essa è stato precisato che l’art. 195 cod. proc. pen. non trova applicazione, in considerazione del tenore letterale delle disposizioni in tale articolo di legge, nei casi in cui il chiamante in reità ovvero in correità riferisca di dichiarazioni a lui fatte dall’imputato, dal momento che la disposizione presuppone in capo all’organo giudicante il potere di ottenere la presenza in dibattimento della fonte diretta ai fini dell’esame e quindi i connessi poteri, quale quello di disporre l’accompagnamento coattivo artt. 132, 133, 490 cod. proc. pen. , che non può avere come destinatario l’imputato, il quale può essere sottoposto ad esame solo se ne fa richiesta o vi consente art. 208 cod. proc. pen. sotto un profilo logico-sistematico, la sentenza fa propri gli argomenti, sviluppati dalla precedente giurisprudenza di legittimità il riferimento specifico è a Cass. Sez. 2, n. 17107 del 22 marzo 2011, Cocca, Rv. 250252 Sez. 6, n. 33750 dell’Il maggio 2005, Longoni, Rv. 232043 Sez. 5. n. 26628 del 25 marzo 2004, Sappracone, Rv. 229863 Sez. 5, n. 552 del 13 marzo 2003, dep. 12/01/2004, Attanasi, Rv. 227021 , secondo cui è da ritenere incongruo - a seconda dei casi - l’obbligo o la facoltà del giudice di escutere la fonte diretta che, identificandosi con l’imputato, non può essere chiamata a rendere dichiarazioni che possono pregiudicare la sua posizione. In secondo luogo, la conclusione è diversa, quanto meno sul piano formale, laddove l’autore della confidenza extraprocessuale, riferita nel corso dell’esame dibattimentale dal dichiarante de relato, sia un imputato in procedimento connesso o collegato ai sensi dell’art. 210 cod. proc. pen. . Rispetto a tale figura ibrida - a metà strada tra l’imputato e il testimone l’applicazione dell’art. 195 cod. proc. pen. è doverosa in quanto, come detto, espressamente prevista dal comma 5 dell’art. 210 cod. proc. pen. . La sentenza ha comunque avuto modo di precisare in adesione a Cass. Sez., 1, n. 26284 del 6 luglio 2006, Greco, Rv, 235001 ed a Cass. Sez. 4, n. 46556 del 4 ottobre 2004, Biancoli, Rv. 231465 che, qualora la fonte primaria, identificabile nell’imputato connesso o collegato, si avvalga, ex art. 210, comma 4, cod. proc. pen., della facoltà di non rispondere, la dichiarazione di seconda mano è comunque utilizzabile, anche se non sottoposta al vaglio della fonte diretta. La sentenza Aquilina, per motivare l’affermazione da ultimo riportata, ha espressamente condiviso l’orientamento, progressivamente consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità, in base al quale l’indicazione dei fatti impedienti l’esame dell’originaria fonte della notizia morte, infermità o irreperibilità da parte dell’art. 195, comma 3, cod. proc. pen. non ha carattere tassativo con conseguente possibilità di individuare, nella pratica, altri casi di impossibilità oggettiva, assimilabili a quelli indicati dalla norma di legge processuale da ultimo citata cfr. Sez. 2, n. 17107 del 22 marzo 2011, Cocca, Rv. 250252 Sez. 4, n. 37434 del 12 giugno 2003, Postiglione, Rv. 226036 . Tale è stato considerato, per quanto qui specificamente interessa, il caso in cui l’autore della confidenza stragiudiziale, riferita nel corso dell’esame dibattimentale dal dichiarante de relato, sia un imputato in procedimento connesso o collegato, dal momento che il soggetto indicato come fonte primaria non ha l’obbligo di sottoporsi all’esame imputato nel medesimo procedimento e imputato in procedimento connesso o collegato . Infine, la sentenza Aquilina opportunamente afferma non va sottaciuto che, in caso di convergenza delle due dichiarazioni, le stesse si fonderebbero virtualmente in un’unica, non idonea di per sé a provare il fatto storico oggetto di giudizio, in quanto sarebbe comunque imprescindibile, proprio perché la notizia deriva ex unica fonte, la ricerca di ulteriori elementi estrinseci di riscontro sia di natura oggettiva che soggettiva ciò ovviamente non vale ove la fonte primaria sia un testimone puro . In buona sostanza, ciò che la sentenza impugnata qualifica come mero obiter dictum è in realtà una precisa indicazione interpretativa - che in questa sede deve essere doverosamente rispettata - della portata dei precetti contenuti negli artt. 192, 195 e 210 cod. proc. pen. quando il dichiarante riferisce in dibattimento del fatto contestato all’imputato come reato indicando, come fonte della propria conoscenza riversata nelle dichiarazioni rese, persona imputata in procedimento connesso o collegato a quello in cui il dichiarante è stato escusso con la conseguenza che, ricorrendo tale ipotesi, trova applicazione l’art. 195 cod. proc. pen L’imputato di reato in procedimento connesso o collegato deve quindi, qualora vi sia richiesta di parte, essere sempre convocato in dibattimento per sottoporsi all’esame con la conseguenza che, ove lo stesso si avvalga della facoltà di non rispondere, le dichiarazioni de relato dal terzo rese in dibattimento sono comunque utilizzabili, costituendo l’esercizio di tale facoltà, dalla legge assicurata alla persona indicata dal dichiarante come propria fonte di conoscenza, fatto assimilabile impossibilità oggettiva relativa a quelli che il comma 3 dell’art. 195 cod. proc. pen. indica come impedienti l’inutilizzabilità delle dichiarazioni de relato. Nel caso di specie, risulta dalla sentenza impugnata che il difensore del ricorrente aveva, nei motivi di appello, espressamente reiterato la richiesta, nel corso del giudizio di primo grado respinta, di sottoporre ad esame, sui fatti al ricorrente contestati, B.A. e C.F., imputati in altri procedimenti della commissione, in concorso con il ricorrente, del tentativo di omicidio di R.A. . Nel confermare il rigetto di tale istanza sul rilievo che nel caso concreto non troverebbe applicazione la disciplina legale relativa alla testimonianza indiretta, la sentenza impugnata è viziata da violazione di legge art. 195 cod. proc. pen. , come espressamente dedotto dal ricorrente nella seconda parte del primo motivo di ricorso e ciò, tanto più che la dettagliata narrazione tanto della fase ideativa che di quella esecutiva del delitto è stata da Be. fatta sulla base delle dichiarazioni a lui rese da B. . Tale violazione non sussiste invece, per quanto sopra evidenziato, quanto alla dichiarazione di be. secondo cui L., unitamente a C., ebbe a lui a dichiarare, in maniera sintetica, nel corso di un breve colloquio in carcere, di avere materialmente preso parte al tentativo di omicidio abbiamo fatto, coso però non è morto . mi hanno confermato che sono stati loro pagg. 35 e 36 della sentenza di primo grado . 3. La prima parte del secondo motivo di ricorso, contenente critica della valenza probatoria degli esiti dell’esame effettuato mediante stub evidenziante tracce di polvere da sparo sulla parte posteriore del motociclo sequestrato al ricorrente, è invece inammissibile in quanto da un lato contrastata da specifiche e logiche considerazioni in fatto in questa sede insindacabili rispettivamente contenute nella pag. 13 della sentenza di primo grado e nella pag. 8 della sentenza di appello dall’altro fondata su mera congettura nella parte in cui si afferma che B.P., che aveva venduto ad esso ricorrente il motociclo a lui sequestrato due giorni prima del tentativo di omicidio, sarebbe verosimilmente frequentatore di persone avvezze all’uso delle armi e ciò senza che nella sentenza impugnata vi sia alcun elemento che l’asserzione giustifichi . 4. In definitiva la sentenza impugnata è da annullare con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli che si atterrà al seguente principio di diritto alla chiamata in correità o in reità de relato in dibattimento fatta da collaboratore di giustizia si applica l’art. 195 cod. proc. pen. anche quando la fonte diretta sia un imputato in procedimento connesso, ex art. 210 cod. proc. pen. con la conseguenza che la chiamata è pienamente utilizzabile, in applicazione del comma 3 dell’art. 195 cod. proc. pen. quando l’imputato in procedimento connesso, fonte diretta del chiamante in reità, si avvalga in dibattimento della facoltà di non rispondere . P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli.