La moglie non è in grado di accudire la prole minore: quali i presupposti per la concessione della detenzione domiciliare al marito detenuto?

La nozione di assoluta impossibilità dell’assistenza” va intesa sulla scorta di una interpretazione che tenga, da un lato, conto del necessario rigore imposto dalla eccezionalità della situazione e, dall’altro, dei diritti, costituzionalmente protetti, all’uguaglianza dei vari membri della famiglia, all’assistenza della prole, alla funzione rieducativa della pena

Sul tema la Corte di Cassazione con la sentenza n. 21966/18, depositata il 17 maggio. Il caso. Il Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria rigettava l’istanza di detenzione domiciliare avanzata da D.R. ai sensi dell’art. 47- ter , comma 1- ter , lett. b , ord. pen. in particolare, secondo i Giudici la circostanza che la moglie del detenuto fosse affetta da un disturbo dell’adattamento con ansia e depressione misto e disturbo dipendente di personalità e che, per l’effetto, fosse inidonea a gestire la prole di età minore, non era elemento sufficiente per l’accoglimento della richiesta di misura alternativa, considerato anche che, in ogni caso, la donna espletava regolare attività lavorativa e manifestava, quindi, adeguate competenze sociali. Inoltre, e fermo restando ciò, il detenuto – durante l’osservazione intramuraria – aveva manifestato un indice di prognosi criminale tale da rendere probabile, in caso di concessione della misura richiesta, la reiterazione di condotte penalmente rilevanti. Il ricorso del detenuto. Avverso la decisione del Tribunale ricorreva per Cassazione il condannato, deducendo l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, rilevando in primis , che i Giudici di prime cure non avrebbero adeguatamente e concretamente valutato il pericolo di reiterazione delle condotte di reato, limitandosi invece ad una astratta considerazione della sua pericolosità sociale in secundis , eccependo che il giudizio sulla capacità della moglie di gestire la prole minore sarebbe stato illogicamente desunto, sic et simpliciter , sulla scorta della circostanza afferente l’espletamento, da parte della stessa, di regolare attività lavorativa, e senza confrontarsi con le specifiche argomentazioni difensive inerenti l’inadeguatezza della donna a svolgere il ruolo di genitore. I requisiti per la concessione della misura alternativa. La Suprema Corte, nel ritenere fondato il ricorso di D.R., ha preliminarmente chiarito quella che è la ratio della norma di cui all’art. 47- ter , comma 1- ter , lett. b , ord. pen., la cui introduzione è stata conseguente alla pronuncia della Corte Costituzionale n. 215/1990, che ha ravvisato una violazione dell’art. 31 Cost. e, dunque, della speciale protezione accordata all’infanzia, nella originaria impossibilità per il detenuto padre di prole di età inferiore a dieci anni di offrire alla stessa una adeguata assistenza nei casi in cui la madre sia a ciò impossibilitata. Donde, requisiti per la concessione della misura alternativa de qua sono, da un lato, il limite di pena detentiva residua non superiore ai quattro anni e, dall’altro, l’esercizio da parte del detenuto della responsabilità genitoriale nei confronti della prole unitamente e contestualmente alla situazione di assoluta impossibilità della madre di fornire ai figli la necessaria assistenza morale e materiale. L’assoluta impossibilità di assistenza secondo la giurisprudenza. La giurisprudenza di legittimità interpreta la nozione di assoluta impossibilità di assistenza” in termini rigorosi, ovvero nel senso di una situazione che tenga conto di tre elementi differenti del necessario rigore imposto dalla eccezionalità della situazione dei diritti costituzionalmente protetti all’uguaglianza dei vari membri della famiglia all’assistenza della prole della funzione rieducativa della pena. In ogni caso, chiariscono i Supremi Giudici, l’assoluta impossibilità della madre ad accudire la prole non può essere intesa in modo talmente rigido da escludere la stessa applicazione del beneficio, nel senso di richiedere una difficoltà estrema, tale da superare le normali capacità reattive della persona, autonomamente considerata e nel contesto familiare. Nel caso di specie, la circostanza che la moglie del detenuto avesse svolto regolare attività lavorativa non poteva essere utilizzata come elemento da cui ricavare la capacità della donna ad accudire la prole minore, specie in costanza di una relazione peritale che acclarava le difficoltà della stessa nel gestire le proprie responsabilità genitoriali, per lo più determinate dalla situazione patologica in cui versava. Donde, la motivazione del Tribunale è risultata essere illogica e contraddittoria nella parte in cui ha ritenuto di ricavare adeguate capacità educative della donna sulla scorta del pregresso svolgimento di attività professionale – tra l’altro in epoca oramai passata e non in termini di attualità rispetto all’istanza. Per tali motivazioni, l’ordinanza impugnata è stata annullata con rinvio per un nuovo esame.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 19 dicembre 2017 – 17 maggio 2018, n. 21966 Presidente Mazzei – Relatore Renoldi Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza emessa in data 16/05/2017, il Tribunale di sorveglianza di Reggio Calabria aveva rigettato, nei confronti di R.D. , l’istanza di detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1-ter, lett. b ord. penit Secondo i giudici di merito, la moglie del detenuto, A.A. , ancorché affetta, alla stregua degli accertamenti peritali espletati, da disturbo dell’adattamento con ansia e depressione misto e disturbo dipendente di personalità , sarebbe stata in grado, diversamente da quanto prospettato nella richiesta del beneficio, di gestire la prole di età minore, avuto riguardo alle adeguate competenze sociali palesate nello svolgimento dell’attività lavorativa. Sotto altro profilo, l’assenza di revisione critica manifestata dal condannato durante l’osservazione intramuraria avrebbe rappresentato un negativo indicatore di prognosi criminale, sì da rendere probabile, in caso di applicazione della misura, la reiterazione di condotte di rilevanza penale. 2. Avverso il predetto provvedimento, ha proposto ricorso per cassazione lo stesso R. a mezzo del difensore fiduciario, deducendo, con un unico motivo di impugnazione, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b , c ed e , cod. proc. pen., in relazione agli artt. 125 cod. proc. pen., 31 Cost., 47-quinquies e 4-bis ord. penit Secondo il ricorrente, il tribunale di sorveglianza reggino non avrebbe valutato il pericolo concreto di una reiterazione delle condotte di reato, limitandosi ad una astratta considerazione della pericolosità sociale del ricorrente e, inoltre, avrebbe illogicamente fondato il giudizio sulla capacità della moglie del detenuto di prendersi cura della prole sulla circostanza che costei svolgesse attività lavorativa, senza considerare le diverse abilità all’uopo occorrenti e senza confrontarsi con le deduzioni difensive circa la cessazione del menzionato impegno lavorativo a far data dal 2015. 3. In data 18/09/2017, il Procuratore generale presso questa Corte ha depositato in Cancelleria la propria requisitoria scritta, con la quale ha sollecitato l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di sorveglianza di Reggio Calabria, sostanzialmente aderendo alle prospettazioni difensive articolate in sede di ricorso introduttivo. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato. 2. L’art. 47-ter, comma 1, lett. b ord. penit. - come modificato dapprima dall’art. 4 della legge 27/05/1998, n. 165 e, da ultimo, dall’art. 105, comma 1 del d.lgs. 28/12/2013, n. 154 - prevede la possibilità che sia concessa la detenzione domiciliare, in caso di pena detentiva anche residua non superiore ai quattro anni, nei confronti del condannato padre, esercente la responsabilità genitoriale, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole . L’introduzione della disposizione in esame è stata conseguente alla pronuncia della sentenza n. 215 del 1990 della Corte costituzionale, che ha ravvisato una violazione dell’art. 31 Cost. e, dunque, della speciale protezione accordata all’infanzia, nella originaria impossibilità, per il detenuto padre di prole di età inferiore ai dieci anni, di offrire alla stessa un’adeguata assistenza nei casi in cui la madre sia a ciò impossibilitata. Requisiti essenziali per l’accesso alta misura alternativa sono, dunque, accanto al ricordato limite di pena, l’esercizio da parte del detenuto della responsabilità genitoriale nei confronti della prole onde evitare che la misura possa essere accordata in presenza di situazioni pregiudizievoli per la stessa e la situazione di assoluta impossibilità della madre di fornire ai figli la necessaria assistenza morale e materiale. 3. La nozione di assoluta impossibilità dell’assistenza è generalmente interpretata in termini rigorosi dalla giurisprudenza di legittimità, chiamata a offrire una interpretazione che tenga, da un lato, conto del necessario rigore imposto dalla eccezionalità della situazione e, dall’altro, dei diritti, costituzionalmente protetti, all’uguaglianza dei vari membri della famiglia, all’assistenza della prole, alta funzione rieducativa della pena così Sez. 1, n. 2183 del 15/05/1992, dep. 15/06/1992, P.M. in proc. Di Bella, Rv. 190625 . Uno degli ambiti in cui la giurisprudenza di questa Corte si è maggiormente confrontato è quello relativo all’impedimento alle ordinarie attività di assistenza derivante dalla prestazione di attività lavorativa da parte della moglie del detenuto. Con riferimento a tale problematica, si è ormai da tempo ritenuto che l’attività lavorativa da parte di una donna con prole infradecenne non determini, di per sé, quella condizione di assoluta impossibilità di prendersi cura della prole stessa, tale da giustificare, in favore del padre dei minori, la concessione della detenzione domiciliare Sez. 1, n. 44910 del 28/10/2011, dep. 2/12/2011, Monti Condesnitt, Rv. 251480 Sez. 1, n. 13021 del 28/01/2009, dep. 25/03/2009, Parrino, Rv. 243550 Sez. 1, n. 849 del 16/02/1994, dep. 1/04/1994, Rossetti, Rv. 197003 . E tuttavia, la giurisprudenza di questa Corte ha fornito all’interprete una chiara prospettiva di lettura della norma affermando che l’assoluta impossibilità della madre ad accudire la prole non può essere intesa in modo talmente rigido, da escludere la stessa applicazione del beneficio, nel senso di richiedere una difficoltà estrema, tale da superare le normali capacità reattive della persona, autonomamente considerata e nel contesto familiare Sez. 1, n. 1740 del 15/04/1994, dep. 18/05/1994, Borzachetli, Rv. 197630 . 4. Nei caso di specie, peraltro, il tema dello svolgimento dell’attività lavorativa della moglie del detenuto non è venuto in rilievo sotto il profilo della sua idoneità a configurare, ex se, una situazione di assoluto impedimento all’assistenza della prole, quanto piuttosto quale indice di una capacità accuditiva che l’istante aveva revocato in dubbio alta stregua della riferita difficoltà della donna nel gestire le responsabilità genitoriati. In altri termini, il tribunale di sorveglianza ha affermato che dal momento che A.A. aveva lavorato, in passato, come parrucchiera ed estetista, dovesse conseguentemente ritenersi che ella fosse in possesso delle abilità necessarie a prendersi cura della prole. Nondimeno, a parere di questo Collegio la motivazione offerta dal giudice a sostegno della sua decisione è inficiata da manifesta illogicità. È pacifico che sia l’UEPE che gli stessi periti, dottori M. e C. , abbiano riferito in ordine alle conclamate difficoltà della donna nel gestire le responsabilità genitoriali, anche in considerazione del quadro di disturbo dell’adattamento con ansia e depressione misto e di disturbo dipendente di personalità che la affligge. Tuttavia, il Tribunale, compiendo una illogica omologazione tra attività ontologicamente diverse, quella lavorativa e quella di genitore, ha erroneamente ritenuto che il pregresso svolgimento di un’attività professionale potesse attestare anche delle adeguate capacità in ambito educativo e di cura della prole. Peraltro, anche a volere seguire il percorso argomentativo seguito dal tribunale, i giudici di merito non hanno tenuto in alcun conto il fatto che l’attività di lavoro era stata prestata nel passato, senza alcun riscontro in ordine alla attualità della situazione socio-personale della donna. Sotto altro profilo, l’ordinanza impugnata ha fatto riferimento alla possibilità, per la A. , di ricorrere all’aiuto di strutture di assistenza sociale, senza che però tale circostanza sia stata adeguatamente riscontrata, almeno stando alla lettera del provvedimento, ove genericamente si fa riferimento alla presenza, a omissis , del Centro di formazione cristiana omissis v. fg 2 dell’ordinanza impugnata , senza peraltro chiarire se e quali condizioni sarebbe stata possibile una effettiva presa in carico, da parte della struttura di accoglienza, dei componenti del nucleo familiare e, in particolare, dei minori. 4. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere accolto, con annullamento dell’ordinanza impugnata e rinvio al Tribunale di sorveglianza di Reggio Calabria, che dovrà esercitarsi, nel corso del nuovo esame del quale è investito, di un ulteriore sforzo motivazionale al fine di offrire compiuta risposta ai profili più sopra evidenziati. P.Q.M. annulla l’ordinanza impugnata e rinvio per nuovo esame al Tribunale di sorveglianza di Reggio Calabria.