Epiteti offensivi contro il datore di lavoro: la minaccia di imminenti licenziamenti non è una provocazione

Il comportamento provocatorio viene definito dalla giurisprudenza come la condotta che, pur non integrando gli estremi di un illecito codificato, sia contraria alla civile convivenza secondo una valutazione oggettiva, caratteristica che non può essere attribuita alla volontà del datore di lavoro di procedere ad alcuni licenziamenti a causa della crisi economica.

Sul tema la sentenza della Corte di Cassazione n. 21133/18 depositata l’11 maggio. Il fatto. Il Tribunale di Cosenza confermava la pronuncia con cui il Giudice di Pace aveva riconosciuto responsabile l’imputato per diffamazione per le espressioni banditi utilizzate con riferimento ai propri datori di lavoro nel corso di un’assemblea sindacale. Avverso la sentenza di condanna, ricorre per cassazione l’imputato dolendosi per l’insussistenza del dolo della diffamazione e per il mancato riconoscimento dell’esimente della provocazione essendo tali dichiarazioni maturate in un contesto sindacale dove si discuteva di imminenti licenziamenti da parte dei datori di lavoro. Dolo. Ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di diffamazione, la consolidata giurisprudenza ritiene sufficiente il dolo generico, anche nella forma del dolo eventuale, essendo sufficiente che l’agente utilizzi consapevolmente parole ed espressioni comunemente interpretate dalla collettività come offensive. In merito a tale profilo, il giudice di merito ha dunque correttamente evidenziato la portata offensiva delle espressioni pronunciate dall’imputato con riferimento al termine banditi . Provocazione. Il comportamento provocatorio, di cui il ricorrente deduce la mancata considerazione da parte del giudice di merito, viene costantemente definito dalla giurisprudenza come la condotta che pur non integrando gli estremi di un illecito codificato, sia contraria alla civile convivenza secondo una valutazione oggettiva e non in ragione della percezione negativa che del medesimo abbia avuto l’agente . Applicando tale principio al caso di specie, l’intenzione del datore di lavoro di procedere ad alcuni licenziamenti, motivo dell’indizione dell’assemblea sindacale dove si è poi verificata la condotta diffamatoria, rappresenta l’esercizio di un diritto – peraltro ancora in via potenziale – e non assume dunque i caratteri all’”altrui fatto ingiusto” necessari per la configurabilità dell’esimente in parola. In conclusione, la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, oltre ad una somma a favore della Cassa delle Ammende.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 9 marzo – 11 maggio 2018, n. 21133 Presidente Pezzullo – Relatore Riccardi Ritenuto in fatto 1. Con sentenza emessa il 02/12/2016 il Tribunale di Cosenza ha confermato la sentenza del Giudice di Pace di San Marco Argentano, che aveva affermato la responsabilità penale di I.F. per il reato di cui all’art. 595 cod. pen., per avere, nel corso di un’assemblea sindacale presso la residenza sanitaria OMISSIS , comunicando con il direttore sanitario e con i dipendenti, offeso la reputazione di P.C. e Po.Ma.Ma. , profferendo l’espressione Su Catanzaro ci sono gli imprenditori che sono dei banditi e Po. e P. fanno parte di questa categoria . 2. Avverso tale sentenza ricorre per cassazione il difensore di I.F. , Avv. Francesco Diacovo, deducendo i seguenti motivi. 2.1. Vizio di motivazione in relazione al dolo della diffamazione lamenta che il dolo sia stato desunto solo dal termine banditi adoperato, ma che non ricorre un intento diffamatorio, anche per la genericità dello stesso. 2.2. Vizio di motivazione in relazione all’omesso riconoscimento dell’esimente della provocazione lamenta che la sentenza ha escluso l’esimente, ritenendo non essere emersi elementi a fondamento, senza considerare che la provocazione sarebbe individuabile nell’annuncio, da parte dei datori di lavori, del licenziamento di alcuni lavoratori la sentenza non avrebbe considerato che il termine è stato appunto adoperato nel corso dell’assemblea sindacale indetta proprio per discutere le azioni da porre in essere, ed in un contesto territoriale e sociale afflitto da una gravissima crisi economica. 2.3. Vizio di motivazione la sentenza avrebbe travisato le argomentazioni proposte con riferimento all’esimente della provocazione, sostenendo che riconoscerla equivarrebbe ad affermare che ogni volta che i lavoratori invocano ed esercitano i diritti sindacali ci sarebbe a monte una provocazione del datore di lavoro la provocazione, tuttavia, non consisterebbe nella convocazione dell’assemblea sindacale, ma nel fatto che la posizione datoriale aveva intenzione di licenziare alcune figure di lavoratori . Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. 1.1. Il primo motivo è manifestamente infondato. In tema di diffamazione, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di diffamazione, non si richiede che sussista l’ animus iniurandi vel diffamandi , essendo sufficiente il dolo generico, che può anche assumere la forma del dolo eventuale, in quanto è sufficiente che l’agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell’agente Sez. 5, n. 4364 del 12/12/2012, dep. 2013, Arcadi, Rv. 254390 Sez. 5, n. 8419 del 16/10/2013, dep. 2014, Verratti, Rv. 258943 . Tanto premesso, la sentenza impugnata ha correttamente applicato il principio di diritto richiamato, evidenziando la necessità della sola consapevolezza di adoperare espressioni offensive e l’irrilevanza delle intenzioni dell’agente, e, al fine di escludere qualsiasi profilo di inconsapevolezza, sottolineando il significato univocamente offensivo del termine adoperato banditi . 1.2. Il secondo ed il terzo motivo, concernenti il mancato riconoscimento dell’esimente della provocazione, sono manifestamente infondati. La sentenza impugnata, infatti, ha escluso la sussistenza dell’esimente della provocazione, sostenendo che l’intento del datore di lavoro di procedere al licenziamento di alcuni dipendenti della clinica, che aveva determinato l’indizione dell’assemblea sindacale nel corso della quale l’imputato aveva adoperato le espressioni diffamatorie accertate, non potesse integrare un fatto ingiusto , ed aggiungendo, altresì, che non risultava neppure che gli imprenditori P. e Po. fossero i datori di lavoro destinatari delle rivendicazioni sindacali all’ordine del giorno dell’assemblea. Al riguardo, la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente ribadito che il comportamento provocatorio, di cui alla causa di non punibilità prevista dall’ art. 599, comma 2, cod. pen., anche quando non integra gli estremi di un illecito codificato, deve essere contrario alla civile convivenza secondo una valutazione oggettiva e non in ragione della percezione negativa che del medesimo abbia avuto l’agente Sez. 5, n. 25421 del 18/03/2014, Marrelli, Rv. 259882 , e sussiste non solo quando il fatto ingiusto altrui integra gli estremi dell’illecito civile o penale, ma anche quando esso sia lesivo di regole comunemente accettate nella civile convivenza Sez. 5, n. 9907 del 16/12/2011, dep. 2012, Conti, Rv. 252948 non costituisce fatto ingiusto l’esercizio di un diritto Sez. 5, n. 42933 del 29/09/2011, Gallina, Rv. 251535 . Tanto premesso, l’intenzione del datore di lavoro di procedere al licenziamento di uno o più lavoratori, lungi dall’integrare un illecito civile o penale, o un fatto contrario alla civile convivenza, rappresenta l’esercizio peraltro allo stadio della mera ideazione di un diritto, che, dunque, non può essere in alcun modo suscettibile di integrare un fatto ingiusto altrui idoneo a determinare lo stato d’ira che fonda l’esimente della provocazione. 2. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e la corresponsione di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, somma che si ritiene equo determinare in Euro 2.000,00. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.