Cattiva conservazione di prodotti nel ristornate: inevitabile la condanna

I Giudici di legittimità ribadiscono alcuni principi relativi al reato di cui all’art. 5, lett. b , l. n. 283/1962 che vieta l’impiego nella produzione, la vendita, la detenzione per la vendita, la somministrazione e la distribuzione per il consumo di sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione.

Sul tema la Corte di Cassazione con la sentenza n. 19686/18, depositata il 7 maggio. Il fatto. Il Tribunale di Pistoia confermava il decreto penale di condanna che dichiarava l’imputata responsabile del reato di cui all’art. 5, lett. b , l. n. 283/1962 per la detenzione di prodotti alimentari in cattivo stato di conservazione nel ristorante gestito dalla s.r.l. di cui era legale rappresentante. Con ricorso per cassazione, l’imputata lamenta l’omessa considerazione che il reato sarebbe stato depenalizzato con il d.lgs. n. 8/2016. Inoltre, in quanto reato di danno, nessun danno poteva essere riscontrato non essendo gli alimenti giunti sui tavoli del ristorante. Depenalizzazione. La Corte di legittimità dichiara manifestamente infondata l’asserita depenalizzazione del reato in quanto, essendo punito in base al disposto dell’art. 6 l. n. 283/1962 con l’arresto o con l’ammenda, sfugge all’ambito di applicazione dell’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 8/2016. Dolo. Ugualmente infondato è il motivo di ricorso attinente all’affermazione di responsabilità. La contravvenzione in oggetto vieta l’impiego nella produzione, la vendita, la detenzione per la vendita, la somministrazione e la distribuzione per il consumo di sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione. Si tratta di un reato di danno che sussiste laddove le modalità di conservazione si rivelino in concreto idonee a determinare il pericolo di un danno o deterioramento delle sostanze, essendo irrilevante la produzione di un danno alla salute attesa la sua natura di reato di danno a tutela del c.d. ordine alimentare, volto ad assicurare che il prodotto giunga al consumo con le garanzie igieniche imposte dalla sua natura . Avendo il Tribunale correttamente applicato i principi appena richiamati, la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 21 marzo – 7 maggio 2018, numero 19686 Presidente Di Nicola – Relatore Di Stasi Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 08/02/2017, il Tribunale di Pistoia, decidendo a seguito di opposizione a decreto penale di condanna, dichiarava D.P.F. responsabile del reato di cui all’art. 5 lett. b l. numero 283/1962 perché nella qualità di legale rappresentante della Russo Group srl, società che gestiva il ristorante presente all’interno del complesso omissis , deteneva per la ristorazione prodotti alimentari in cattivo stato di conservazione, principalmente pesce, carne e funghi e la condannava alla pena di Euro 20.000 di ammenda. 2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione D.P.F. , a mezzo del difensore di fiducia, articolando i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 comma 1, disp. att. cod. proc. penumero La ricorrente, deduce, innanzitutto, che il reato contestatogli sarebbe stato depenalizzato a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs numero 8/2016, trattandosi di reato previsto da legge speciale non ricompreso nell’elenco allegato al predetto provvedimento di depenalizzazione. Argomenta, poi, che, vertendosi in fattispecie di reato di danno, alcun danno si era verificato in quanto gli alimenti non erano mai giunti nella disponibilità dei consumatori inoltre, l’imputata aveva acquisito la carica societaria di amministratore quanto il ristorante era da tempo operativo e con un preposto e la condotta imputatale non era esigibile né attribuibile psicologicamente alla stessa espone, infine, che il trattamento sanzionatorio non era sorretto da adeguata motivazione, pur essendo stata inflitta un pena dell’ammenda pari ai due terzi del massimo edittale. Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata. Considerato in diritto 1. Manifestamente infondata è l’invocata depenalizzazione del reato di cui all’art. 5 lett. b l. numero 283/1962 ad opera del d.lgs numero 8/2016. Il reato in esame è punito, in base al disposto dell’art. 6 l. numero 283/1962, con l’arresto fino a un anno o con l’ammenda da Euro 309 e Euro 30.987 . Non si tratta, quindi, di reato punito con la sola pena pecuniaria e, pertanto, non trova applicazione l’art. 1 comma 1 d.lgs n 8/2016 né il reato in questione rientra negli altri casi di depenalizzazione di cui all’art. 3 del d.lgs 8/2016. 2. La censura afferente l’affermazione di responsabilità è manifestamente infondata. Va ricordato che la contravvenzione prevista dall’ad. 5, lett. b, della legge 30 aprile 1962 numero 283, che vieta l’impiego nella produzione, la vendita, la detenzione per la vendita, la somministrazione, o comunque la distribuzione per il consumo, di sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione, non è reato di pericolo presunto, ma di danno, in quanto la disposizione citata non mira a prevenire con la repressione di condotte, come la degradazione, la contaminazione o l’alterazione del prodotto in sé, la cui pericolosità è presunta iuris et de iure mutazioni che nelle altre parti del citato art. 5 sono prese in considerazione come evento dannoso, ma persegue un autonomo fine di benessere, consistente nell’assicurare una protezione immediata all’interesse del consumatore a che il prodotto giunga al consumo con le cure igieniche imposte dalla sua natura. Ne consegue che tale contravvenzione non si inserisce nella previsione di una progressione criminosa che contempla fatti gradualmente più gravi in relazione alle successive lettere indicate dal citato art. 5, ma si configura, rispetto ad essi, come figura autonoma di reato, che con essi può concorrere, ove ne ricorrano le condizioni. Ai fini della configurabilità del resto in esame, non vi è la necessità di un cattivo stato di conservazione riferito alle caratteristiche intrinseche delle sostanze alimentari, essendo sufficiente che esso concerna le modalità estrinseche con cui si realizza, che devono uniformarsi alle prescrizioni normative, se sussistenti, ovvero, in caso contrario, a regole di comune esperienza Sez. U, numero 443 del 19/12/2001, dep.09/01/2002, Rv. 220717 in senso conforme, Sez. 3, 17 gennaio 2014, numero 6108, Rv. 258861 Sez. 3, 20 aprile 2010, numero 15094 Sez. 3, 21 settembre 2007, numero 35234 Sez. 3, 10 giugno 2004, numero 26108 Sez. 3, 24 marzo 2003, numero 123124 sez. 4, 18 novembre 2002, numero 38513 Sez. 3, 8 novembre 2002, numero 37568 Sez. 3, 3 gennaio 2002, numero 5 . Ed è stato chiarito che il reato di detenzione per la vendita di sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione, previsto dall’art. 5, lett. b , della legge 30 aprile 1962, numero 283, è configurabile quando è accertato che le concrete modalità di conservazione siano idonee a determinare il pericolo di un danno o deterioramento dell’alimento, senza che rilevi a tal fine la produzione di un danno alla salute, attesa la sua natura di reato di danno a tutela del c.d. ordine alimentare, volto ad assicurare che il prodotto giunga al consumo con le garanzie igieniche imposte dalla sua natura cfr Sez. 3, numero 40772 del 05/05/2015, Rv. 264990 Sez. 3, 2 settembre 2004, numero 35828 . È, quindi, necessario accertare che le modalità di conservazione siano in concreto idonee a determinare il pericolo di un danno o deterioramento delle sostanze Sez. 3, 11 gennaio 2012, numero 439 Sez. 3, 13 aprile 2007, numero 15049 escludendosi, tuttavia, la necessità di analisi di laboratorio o perizie, ben potendo il giudice di merito considerare altri elementi di prova, come le testimonianze di soggetti addetti alla vigilanza, quando lo stato di cattiva conservazione sia palese e, pertanto, rilevabile a seguito di una semplice ispezione Sez. 3 numero 35234, 21 settembre 2007, cit. . Nella specie, il Tribunale, in linea con i suesposti principi di diritto, ha accertato, in aderenza alle emergenze istruttorie cnr e rilievi fotografici che il cattivo stato di conservazione degli alimenti emergeva da diversi profili conservazione promiscua in recipienti privi delle prescritte indicazioni, accatastamento di alcuni di essi in scaffalature ove erano presenti carcasse di roditori ed escrementi di animali, presenza di cristalli di ghiaccio sugli alimenti conservati nel frigorifero. Trattasi di accertamento di fatto, sorretto da argomentazioni congrue e non manifestamente illogiche che si sottrae, pertanto, al sindacato di legittimità. Risulta, dunque, integrata una violazione del c.d. ordine alimentare, volto ad assicurare al consumatore che la sostanza alimentare giunga al consumo con le garanzie igieniche e di conservazione imposte per la sua natura, E tale violazione è sufficiente ad integrare il reato di danno in questione, non essendo è necessario, per la configurabilità del reato contestato che a tal fine che vi sia un danno alla salute. Né assume rilievo la circostanza che l’imputata avesse acquisito la carica societaria di amministratore quando il ristorante era già da tempo operativo. È stato, infatti, affermato che, in tema di tutela dei prodotti alimentari, destinatario degli obblighi connessi al controllo del rispetto delle condizioni igienico sanitarie degli stessi, è, nelle società di capitali aventi organizzazione e struttura complessa, la persona che riveste, a termini statutari, il ruolo di legale rappresentante della società non assumendo rilievo scriminante sia che l’acquisto non sia stato effettuato da questi, sia che la somministrazione sia avvenuta ad opera di terzi-, fatto salvo ipotesi che non ricorre nella specie il trasferimento di responsabilità in forza di delega delle funzioni correttamente attuata, laddove le dimensioni aziendali siano tali da giustificare la necessità di decentrare compiti e responsabilità, ma non anche in caso di organizzazione a struttura semplice cfr Sez.3, numero 46710 del 17/10/2013, Rv.257860 Sez. 3, numero 4067 del 16/10/2007, dep.28/01/2008, Rv. 238596 Sez.3, numero 2281 del 26/10/2006, dep.24/01/2007 Rv.235646 . 3. Manifestamente infondata è anche la censura afferente al trattamento sanzionatorio. Secondo la condivisibile giurisprudenza di questa Suprema Corte, in tema di reati puniti alternativamente con la pena detentiva o pecuniaria, la scelta del giudice di applicare la meno grave sanzione pecuniaria, anche se in misura superiore a quella media tra il minimo e il massimo edittale, deve ritenersi sufficientemente giustificata dalla qualificazione di essa come congrua o equa e dal mero richiamo alle circostanze indicate all’art. 133 cod. penumero , ove la rilevanza di queste, in relazione alla gravità del reato ed alla capacità a delinquere del reo, risultino già desumibili dal complesso della motivazione Sez.1, numero 8560 del 18/11/2014, dep.26/02/2015, Rv.262552 Sez.1, numero 40176 del 01/10/2009, Rv. 245353 ed è stato anche affermato che il Giudice non è tenuto ad esporre diffusamente le ragioni in base alle quali ha applicato la misura massima della sanzione pecuniaria, perché, avendo l’imputato beneficiato di un trattamento obiettivamente più favorevole rispetto all’altra più rigorosa indicazione della norma, è sufficiente che dalla motivazione sul punto risulti la considerazione conclusiva e determinante in base a cui è stata adottata la decisione, ben potendo esaurirsi tale motivazione nell’accenno alla equità quale criterio di sintesi adeguato e sufficiente Sez.3, numero 37867 del 18/06/2015, Rv.264726 . Nella specie, la contravvenzione contestata è punita, con l’arresto fino a un anno o con l’ammenda da Euro 309 e Euro 30.987 ed il Tribunale ha irrogato la meno grave pena pecuniaria, in misura superiore alla media edittale, ritenendola conforme a giustizia . Tale determinazione, raccordata al complesso della motivazione che ha evidenziato plurimi profili di violazioni nel cattivo stato di conservazione degli alimenti, è certamente sufficiente avendo il Tribunale assolto in maniera adeguata al relativo obbligo motivazionale. 4. Alla manifesta infondatezza dei motivi proposti consegue la declaratoria di inammissibilità del ricorso. 5. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. penumero , non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità Corte Cost. sent. numero 186 del 13.6.2000 , alla condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.