L'utilizzo di minacce per recuperare somme di denaro può configurare il reato di estorsione

Le minacce e le attività intimidatorie poste in essere nei confronti della vittima e finalizzate al recupero di somme di denaro, configurano il reato di estorsione ex art. 629 c.p.– e non già quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni di cui all’art. 393 c.p. – qualora l'autore di tali condotte non sia il titolare del diritto alla restituzione.

Così la Corte di Cassazione con sentenza n. 17156/18, depositata il 17 aprile. Il caso. Il Tribunale di Roma, in riforma parziale dell’accoglimento dell’istanza di riesame avverso l’ordinanza del GIP del medesimo Tribunale, sostituiva all’indagato per estorsione aggravata la misura cautelare della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari. L’indagato, infatti, era stato tratto in arresto successivamente ad un episodio di minaccia a terzi posto in essere da alcuni individui e volto al recupero di alcune somme di denaro spettanti ai fratelli dello stesso. Al momento dell'arresto, l'indagato si trovava nella stessa vettura che attendeva gli autori materiali delle condotte addebitate. Avverso la decisione del Tribunale l’indagato ricorre per cassazione denunciando la propria inconsapevolezza circa le condotte poste in essere nei confronti della vittima nonché l’omessa valutazione delle condotte alla luce della fattispecie dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni. L’esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Il Supremo Collegio, precisando la genericità delle censure mosse dal ricorrente in ordine all’omessa indicazione, nel provvedimento impugnato, dei dati fattuali comprovanti il concorso materiale dell’indagato, ribadisce come, nel caso di specie, le intimidazioni, dirette al conseguimento della somma di denaro, venivano poste in essere da soggetti terzi, i quali risultavano altresì incaricati a riscuoterle. Ciò posto, la Suprema Corte rileva che l’evidente interesse che muoveva il ricorrente nel pretendere una somma equivalente alla caparra che sarebbe stata versata al promittente venditore nonché le richieste minacciose del coindagato non potevano essere frutto di iniziative autonome e sconosciute al ricorrente, poiché l’oggetto delle richieste dipendeva direttamente dalla vicenda contrattuale in cui era stato parte attiva il ricorrente che intendeva ottenere la restituzione della caparra versata . Alla luce della ricostruzione dei fatti, il provvedimento impugnato non ha mancato di sottolineare come l’intervento di un terzo, estraneo alla conclusione degli accordi raggiunti per formulare la proposta di acquisto, finalizzato alla richiesta di restituzione della somma pretesa, incaricandolo della materiale ricezione della somma, rendeva evidente la sussistenza di un’ipotesi estorsiva , giacché vi è esercizio arbitrario delle proprie ragioni qualora la condotta tipica è posta in essere da colui che ha la titolarità del preteso diritto . Difatti, precisano i Giudici di legittimità, qualora la condotta sia realizzata da un terzo che agisca su mandato del creditore, essa può assumere rilievo soltanto ai sensi dell’art. 629 c.p. . La Corte dunque dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 16 marzo – 17 aprile 2018, n. 17156 Presidente Diotallevi – Relatore Di Paola Ritenuto in fatto 1. Il Tribunale di Roma, con ordinanza in data 13/12/2017, in parziale accoglimento dell’istanza di riesame proposta avverso l’ordinanza del G.i.p. del Tribunale di Roma, che aveva applicato la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di O.M., indagato per il delitto di estorsione aggravata in concorso, sostituiva la misura con quella degli arresti domiciliari. 2. Il procedimento era sorto a seguito delle denunce sporte dalla persona offesa I.R.F.D., che aveva riferito di avere formulato, assieme ai fratelli O. e su proposta di costoro e ad altro soggetto a nome T., una proposta di acquisto di un esercizio commerciale, con l’impegno di versare alla promittente alienante la somma di 5.000 Euro a titolo di caparra l’accordo non era sfociato nella stipula del contratto e a distanza di circa un anno lo I. era stato raggiunto da alcuni individui che gli intimavano di consegnare loro la somma di 2.500 Euro che spettava ai fratelli O. seguiva un altro episodio in cui un terzo soggetto si metteva in contatto con la vittima manifestando l’urgenza di provvedere, pena il rischio di subire conseguenze negative quindi veniva nuovamente raggiunto da uno dei personaggi che si erano recati da lui la prima volta, che intimava nuovamente con toni minacciosi di consegnare la somma pretesa nell’occasione, la vittima consegnava la somma di 500 Euro che riusciva a recuperare e l’uomo, allontanatosi e raggiunta una vettura ove si trovava un altro soggetto, veniva tratto in arresto con il complice l’uomo in attesa nella vettura veniva identificato nell’odierno ricorrente. 3. Propone ricorso per cassazione la difesa dell’O., deducendo con il primo motivo di ricorso la violazione di legge, oltre il difetto di motivazione ai sensi dell’art. 606 lett. e cod. proc. pen., relativamente alla valutazione condotta in ordine al requisito della gravità indiziaria il ricorrente lamenta che il Tribunale si sia limitato a recepire gli argomenti contenuti nella motivazione dell’ordinanza del G.i.p., senza dare conto delle ragioni su cui dovrebbe fondarsi il giudizio sia in ordine alla consapevolezza del ricorrente, circa le modalità messe in atto per il recupero delle somme, sia nell’attribuire all’O. un contributo specifico nella realizzazione della condotta di reato contestata essendo all’evidenza insufficiente il mero dato della presenza nel giorno in cui era avvenuta la consegna del denaro a terzi soggetti . 4. Con il secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione di legge, oltre il vizio per difetto di motivazione ai sensi dell’art. 606 lett. e cod. proc. pen., nella parte in cui il provvedimento impugnato aveva escluso che il fatto accertato dovesse inquadrarsi nella fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni sottolineava il ricorrente che dagli elementi raccolti poteva legittimamente ritenersi che l’O. avesse avuto la possibilità di ritenere che stesse agendo per la tutela di un proprio diritto censurava la motivazione della decisione che aveva ricollegato l’impossibilità della differente qualificazione giuridica del fatto, in virtù della connotazione particolarmente grave delle minacce poste in essere, ricordando la più recente giurisprudenza di legittimità che aveva escluso la rilevanza di quel dato, privilegiando l’accertamento dell’elemento intenzionale riteneva che, alla stregua dell’operata ricostruzione della vicenda, fosse pacifico che l’indagato avesse inteso tutelare un proprio diritto, ritenuto legittimamente esistente e tutelabile davanti all’autorità giudiziaria. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato e generico nella misura in cui risulta evidentemente carente del requisito della specificità dei motivi a fondamento del ricorso con sui si censura il profilo della gravità indiziaria e della motivazione relativa . 2.1. Il primo motivo di ricorso non specifica quale aspetto del giudizio formulato sia in contrasto con la disciplina positiva, o con l’obbligo della necessaria motivazione del provvedimento ex art. 309 cod. proc. pen. Il lamentato difetto della certezza in merito alle condotte contestate è evidentemente vizio che non può trovare ingresso nel giudizio di legittimità volto a sindacare la motivazione del provvedimento del riesame il presupposto indicato dall’art. 273 cod. proc. pen. infatti, non impone un’operazione di verifica che conduca ad esprimere giudizi in termini di certezza, ma piuttosto richiede il controllo degli elementi raccolti nel corso delle indagini, e prospettati dalla pubblica accusa, per accertare se gli stessi siano idonei a fondare un giudizio di qualificata probabilità sulla responsabilità dell’indagato in ordine ai reati addebitatigli atteso che i gravi indizi di colpevolezza non corrispondono agli indizi intesi quali elementi di prova, idonei a fondare un motivato giudizio finale di colpevolezza e non devono, pertanto, essere valutati secondo gli stessi criteri richiesti, per il giudizio di merito, dall’art. 192, comma secondo, cod. proc. pen. che, oltre alla gravità, richiede la precisione e la concordanza degli indizi - non richiamato dall’art. 273, comma primo-bis, cod. proc. pen. così da ultimo, Sez. 2, n. 22968 del 08/03/2017, Carrubba, Rv. 270172 . 2.2. In ogni caso, appaiono generiche le censure che il ricorrente muove al provvedimento che non avrebbe indicato i dati fattuali su cui dovrebbe fondarsi l’ipotesi di accusa relativa al concorso morale dell’O. nella realizzazione delle condotte materiali, poste in essere dal coindagato che in più occasioni aveva avvicinato la vittima, intimando il pagamento di una somma di denaro facendo anche uso di un’accetta per intimorire la persona offesa. La ricostruzione in fatto della vicenda mette in luce l’evidente interesse che muoveva l’O. nel pretendere una somma equivalente alla caparra che sarebbe stata versata al promittente venditore le richieste minacciose del coindagato non potevano essere frutto di iniziative autonome e sconosciute all’O., poiché l’oggetto delle richieste dipendeva direttamente dalla vicenda contrattuale in cui era stato parte attiva l’O. che intendeva ottenere la restituzione della caparra versata anziché dalla controparte, da uno dei partecipi dell’offerta avanzata da lui e da altri soggetti. Del resto, l’interesse dell’O. era confermato dall’esser stato sorpreso in attesa del coindagato che si era recato dalla vittima per estorcere la somma di denaro asseritamente dovuta. 3. Anche il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato. Il provvedimento impugnato ha puntualmente chiarito le ragioni che non consentivano di qualificare i fatti ascritti all’indagato alla stregua del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni il Tribunale ha fatto leva non solo sul carattere grave e spropositato delle minacce utilizzate per costringere la vittima a versare le somme di denaro pretese che, peraltro, già denunciano il carattere ingiusto della pretesa, come ribadito ancora di recente dalla giurisprudenza di legittimità Sez. 2, n. 33712 del 08/06/2017, Michelini, Rv. 270425 Sez. 2, n. 51013 del 21/10/2016, Arcidiacono, Rv. 268512 Sez. 2, n. 1921 del 18/12/2015, dep. 2016, Li, Rv. 265643 , ma anche e soprattutto sull’assenza di qualsivoglia elemento per ritenere che la pretesa dell’O. fosse tutelabile davanti all’autorità giudiziaria. Infatti, il provvedimento ha dato conto della vicenda contrattuale intercorsa tra le parti e ha correttamente evidenziato sia che la pretesa della restituzione di 2.500 Euro era del tutto sganciata dalle pattuizioni contrattuali, sia che ove la stessa fosse stata interpretata come richiesta di restituzione della caparra versata dai fratelli O., per effetto della mancata conclusione dell’operazione commerciale, non poteva essere legittimamente avanzata nei confronti dello I. ma, al più, doveva essere rivolta alla parte che aveva ricevuto il versamento della caparra ossia, la promittente alienante inoltre, il provvedimento impugnato non ha mancato di sottolineare come l’intervento di un terzo, estraneo alla conclusione degli accordi raggiunti per formulare la proposta di acquisto, finalizzato alla richiesta di restituzione della somma pretesa, incaricandolo della materiale ricezione della somma, rendeva evidente la sussistenza di un’ipotesi estorsiva, come più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte v. da ultimo Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268360 Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, sia con violenza sulle cose che sulle persone, rientra, diversamente da quello di estorsione, tra i cosiddetti reati propri esclusivi o di mano propria, perciò configurabili solo se la condotta tipica è posta in essere da colui che ha la titolarità del preteso diritto. Ne deriva che, in caso di concorso di persone nel reato, solo ove la condotta tipica di violenza o minaccia sia posta in essere dal titolare del preteso diritto è configurabile il concorso di un terzo estraneo nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni per agevolazione, o anche morale , mentre, qualora la condotta sia realizzata da un terzo che agisca su mandato del creditore, essa può assumere rilievo soltanto ai sensi dell’art. 629 cod. pen. . 4. All’inammissibilità del ricorso, consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso Corte cost. 13 giugno 2000, n. 186 , al versamento della somma, che si ritiene equa, di Euro duemila a favore della cassa delle ammende. Copia del presente provvedimento deve essere trasmesso al direttore dell’istituto penitenziario, affinché provveda a quanto previsto dall’art. 94, comma 1 ter, disp. att. c.p.p P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila alla cassa delle ammende. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1 ter, disp. att. c.p.p.