Credito professionale illiquido? La compensazione è illegittima

In tema di appropriazione indebita, non opera il principio della compensazione con credito preesistente, allorché si tratti di crediti non certi, né liquidi ed esigibili.

Ciò in quanto la ritenzione, in compensazione o in garanzia, di merce non costituisce appropriazione indebita ex art. 646 c.p. solo quando il credito vantato dall'agente nei confronti del proprietario della merce medesima è certo, liquido ed esigibile, ossia determinato nel suo ammontare e non controverso nel titolo. Lo ha confermato la Seconda Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12847, depositata il 20 marzo 2018. Possesso e detenzione nell’appropriazione indebita. Secondo il prevalente orientamento della dottrina, il possesso nel diritto penale è un potere di fatto sulla cosa esercitato autonomamente, cioè fuori della sfera di vigilanza diretta di chi abbia, sulla cosa stessa, un potere maggiore. Sotto il profilo dell’elemento psicologico del reato, esso consiste nella coscienza e volontà, in capo al possessore, della relazione materiale con la cosa, e dunque con la volontà di tenerla presso di sé c.d. animus rem sibi habendi , altrimenti sarebbe possessore anche chi non sa di avere il bene con sé. Su altro versante si pone l’istituto della detenzione, il quale ricorre nei soli casi di potere di fatto esercitato sotto la sfera giuridica di sorveglianza di chi abbia su di essa potere maggiore. Il delitto di appropriazione indebita si consuma al momento dell'interversione dell' animus possidendi in capo a colui cui la cosa è stata affidata, ossia nel momento nel quale egli matura la convinzione di volerla trattenere per sé. Ne consegue che è del tutto irrilevante, ai fini della configurazione del delitto consumato, la circostanza che, in un tempo successivo, il reo perda la materiale o giuridica disponibilità del bene, e non possa più provvedere alla sua consegna all'avente diritto. Ed anzi, nel caso di mandato ad alienare, deve ritenersi sussistente la circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 11, c.p., in quanto il mandato a vendere una cosa mobile fa nascere un rapporto di prestazione d'opera fra le parti, e il mandatario che si appropria del bene affidatogli approfitta della particolare fiducia in lui riposta dal mandante per appropriarsi con maggiore facilità. Il vincolo di mandato In generale occorre rammentare sul piano civilistico che, ai sensi degli art. 1705 e 1706 c.c., il mandato senza rappresentanza ha un'efficacia reale, oltre che obbligatoria, tanto che il mandante può agire come proprietario delle cose mobili acquistate per suo conto sia nei confronti del terzo che dello stesso mandatario. Ne consegue che il bene oggetto del contratto si considera come acquisito fin dal momento dell'esecuzione del mandato al suo patrimonio. Con riguardo al caso specifico del mandato ad alienare, è ravvisabile un contratto in cui l’effetto traslativo dei beni, derivante dal consenso manifestato dalle parti art. 1376 c.c. , non si verifica immediatamente, essendo sospensivamente condizionato al compimento dell’alienazione gestoria del bene da parte del mandatario, il quale, pertanto, in base alle regole del mandato senza rappresentanza, ha il potere di trasferire validamente il bene, che forma oggetto del contratto, al terzo, in nome proprio e per conto del committente, senza necessità di disvelare l’esistenza del mandato, né di dar luogo ad alcun negozio di ritrasferimento del bene medesimo. Secondo altro orientamento giurisprudenziale, il mandato ad alienare senza rappresentanza non è ammissibile, in modo particolare per i beni immobili e mobili registrati ne consegue che la vendita, in caso di mancata spendita del nome del mandante, non comporta altro effetto che quello di obbligare il mandatario a procurare all’acquirente la intestazione del bene Cass. civ., n. 8393/2003 . e la responsabilità dell’avvocato. La sentenza in commento affronta il problema della responsabilità penale del mandatario nella specie, avvocato per appropriazione indebita di denaro, perpetrata mediante la destinazione della somma ricevuta per usi diversi da quelli previsti dal mandante. In generale, sul piano civilistico, la responsabilità del professionista, per danni causati nell’esercizio della sua attività, postula la violazione dei doveri inerenti al suo svolgimento, tra i quali quello di diligenza, che va a sua volta valutato con riguardo alla natura della attività. Con particolare riferimento alla professione di avvocato, deve considerarsi responsabile verso il suo cliente il professionista, in caso di incuria e di ignoranza di disposizioni di legge e in genere nei casi in cui, per negligenza od imperizia, compromette il buon esito del giudizio, dovendosi invece ritenere esclusa detta responsabilità, a meno di dolo o colpa grave, solo nel caso di interpretazioni di leggi o di risoluzione di questioni opinabili. Con riferimento al caso di un mandato a vendere, la giurisprudenza di legittimità ha statuito che commette il delitto di appropriazione indebita il mandatario che, in violazione del mandato ricevuto, trattenga per sé definitivamente le cose affidategli per la vendita Cass. n. 11570/2012 , o trattenga definitivamente la somma ricavata dalla vendita invece di rimetterla al mandante Cass. n. 46586/2011 . Sempre in tema di appropriazione indebita commessa dal mandatario, si è ritenuto sussistere la responsabilità penale del prevenuto che, al fine di procurarsi un ingiusto profitto, si appropri dell'assegno bancario tratto dall'intestataria presso un istituto di credito, consegnandolo in pagamento al proprio creditore, pur avendo ricevuto l'assegno con lo specifico mandato di provvedere alla sua negoziazione e di restituire l'importo in contanti.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 8 – 20 marzo 2018, n. 12847 Presidente De Crescienzo – Relatore Monaco Ritenuto in fatto 1. La Corte d’Appello di Genova, con sentenza in data 31/05/2017, riformando la sentenza di assoluzione pronunciata dal Tribunale di Massa, in data 27/10/2015, dichiarata la prescrizione per alcuni dei reati contestati, condannava L.C. in relazione al reato di cui all’art. 646 cod. pen 2. Il ricorrente esercita la professione di avvocato. Negli anni dal 2008 al 2011, i fatti in contestazione si riferiscono a tale periodo, ha assistito vari dipendenti delle Poste Italiane s.p.a. in ricorsi presentati al fine di ottenere la trasformazione del loro rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato. All’atto del conferimento dell’incarico, presso la sede dei sindacati, i clienti concordavano che gli onorari del professionista, comunque da quantificare, sarebbero stati versati solo ed esclusivamente in caso di accoglimento del ricorso. All’esito dei processi, conclusi con esito favorevole, dopo aver ottenuto il provvedimento dal giudice dell’esecuzione, l’avv. L. chiedeva ed otteneva dalla Banca d’Italia che le somme, sia quelle riconosciute come risarcimento danni ovvero quali rivalutazioni ed interessi o anche a titolo di rimborso spese legali, venissero interamente versate su di un conto corrente a lui intestato. Successivamente il professionista inviava al cliente a mezzo assegno la somma risultante dalla differenza tra quanto ricevuto a seguito del pignoramento e gli onorari dallo stesso quantificati con specifica notula allegata. Per tali fatti l’avv. L. veniva tratto a giudizio per varie ipotesi di appropriazione indebita come specificamente indicato nei capi di imputazione da A ad H. In data 27 ottobre 2015 il Tribunale di Massa, ritenuto che per le somme trattenute dall’avv. L. operasse l’istituto della compensazione tra il credito dallo stesso vantato e quello nei suoi confronti di ogni singolo cliente, assolveva l’imputato da tutti i capi di imputazione con la formula perché il fatto non sussiste. Avverso tale sentenza proponevano appello il pubblico ministero e, ai soli effetti civili, i difensori delle parti private G. , A. e C. . Il 31 maggio 2017 la Corte d’Appello di Genova escluso che il credito vantato dal ricorrente potesse essere ritenuto certo, liquido ed esigibile e, quindi, esclusa l’operatività della compensazione riformava la sentenza del Tribunale e, dichiarati prescritti i reati di cui ai capi A , B limitatamente al fatto commesso il 19.11.2008, C , D ed E , condannava l’imputato per i reati di cui ai capi B , per il fatto commesso il 3.3.2010, F , G ed H. 3. Propone ricorso per cassazione l’imputato e, a mezzo dei propri difensori, deduce i seguenti motivi. 3.1 Violazione di legge quanto all’erronea applicazione dell’art. 646 cod. pen. e vizio di motivazione, che sarebbe mancante, contraddittoria ovvero manifestamente illogica, sempre in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di appropriazione indebita, reato per la configurazione del quale, peraltro, difetterebbe anche l’elemento psicologico. La difesa, richiamati i principi anche come enucleati dalla giurisprudenza, critica le conclusioni cui è pervenuta la Corte d’Appello ed insiste per il riconoscimento della disciplina della compensazione. In specifico il ricorso, ripercorrendo il ragionamento seguito dal primo giudice, evidenzia che il credito vantato dall’avv. L. era da considerarsi certo, liquido ed esigibile. Ogni cliente, infatti, era sicuramente tenuto al pagamento degli onorari e questi erano stati quantificati, peraltro nei limiti minimi e massimi previsti dalle tariffe forensi, e comunicati alle parti con una specifica notula . Requisiti del credito da considerarsi addirittura pacifici, considerato che le stesse parti civili non avevano contestato l’an ed il quantum degli onorari e, invece, si erano per lo più limitate a denunciare le modalità attraverso le quali la pretesa creditoria era stata soddisfatta. L’avv. L. , d’altro canto, non aveva lo scopo di conseguire un ingiusto profitto quanto, piuttosto, quello di agire a tutela di una propria legittima ragione di credito. Sotto altro profilo, quindi, difetterebbe anche l’animus appropriandi necessario per ritenere la sussistenza dell’elemento psicologico. 3.2 Violazione di legge quanto all’erronea applicazione dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. e vizio di motivazione, sotto il profilo della mancanza, ovvero contraddittorietà o manifesta illogicità, in relazione al trattamento sanzionatorio. In specifico la difesa rileva che la Corte territoriale non avrebbe indicato i criteri utilizzati per la scelta della pena base e, quindi, in assenza di parametri di riferimento, non sarebbe possibile verificare il rispetto dell’art. 133 cod. pen. Solo l’applicazione di una pena prossima al minimo edittale, infatti, giustificherebbe l’uso di espressioni sintetiche ed il semplice riferimento a norme processuali. Modo di procedere, peraltro, mai giustificato nella particolare ipotesi, come quella in analisi, in cui il giudice di secondo grado pronunci una sentenza di maggior sfavore nei confronti dell’imputato. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato nei termini che seguono. 1.1 Quanto alla operatività della compensazione, le considerazioni della difesa che sostanzialmente si limita a reiterare gli argomenti contenuti nella sentenza pronunciata dal Tribunale di Massa non si confrontano con la motivazione del provvedimento impugnato la cui motivazione, di contro, immune da vizi logico -giuridici, è completa, congrua ed adeguata. Il giudice dell’appello, infatti, all’esito di un ragionamento articolato, ha motivato, anche confutando analiticamente le diverse conclusioni cui era pervenuto il giudice di primo grado. I crediti vantati dal ricorrente, come correttamente evidenziato dalla Corte territoriali, non possono essere considerati certi, liquidi ed esigibili. Sino a quando l’avv. L. non ricevette le somme liquidate dal giudice dell’esecuzione le parti non avevano concordato una cifra a titolo di onorario. La maggior parte dei clienti ebbe contezza di quanto era avvenuto, addirittura della stessa circostanza che la Banca d’Italia avesse provveduto a versare una somma loro dovuta, solo quando ricevette la lettera che conteneva la notula ed un assegno relativo ad una somma dalla quale, lo stesso L. , autonomamente, aveva già detratto la somma di cui alla citata notula . Come evidenziato nelle sentenze di merito, anche in quella di assoluzione, infatti nessuna delle attuali parti civili ha mai incontrato l’avv. L. , i mandati sono sempre stati conferiti presso le sedi di organizzazioni sindacali gli accordi intercorsi circa la quantificazione e corresponsione degli onorari non sono stati in alcun modo chiariti se non con generici riferimenti a percentuali delle somme che sarebbero state conseguite in caso di esito favorevole e, comunque, tali accordi, rimasti privi di formalizzazione, non sono mai stati evidentemente discussi dal cliente con l’avvocato con il quale non vi è mai stato un incontro ovvero alcun contatto, neanche telefonico il professionista ha posto in essere una serie di attività come ad esempio il pignoramento delle somme liquidate nel giudizio di cognizione alla totale insaputa dei clienti che, viceversa, avevano il diverso interesse ad addivenire ad un accordo transattivo con le Poste Italiane s.p.a. al fine di ottenere l’agognato contratto di lavoro a tempo indeterminato. Sul punto è addirittura emerso che alcune delle parti non hanno potuto sottoscrivere l’accordo transattivo sindacale che prevedeva la restituzione di quanto percepito. Le Poste, infatti, richiedevano che venisse versata l’intera somma liquidata dal giudice dell’esecuzione, anche quella trattenuta dalla Banca d’Italia a titolo di ritenuta Irpef sull’intero importo. Lo sviluppo dei fatti così come anche indicato nell’atto di ricorso consente di escludere l’operatività della compensazione c.d. legale. L’istituto della compensazione c.d. legale, disciplinato dagli artt. 1241 e seguenti cod. civ., opera quando tra le parti sussistono dei rapporti reciproci di debito credito. Tali rapporti, indipendenti tra loro e che possono essere sorti anche in tempi diversi, devono avere ad oggetto crediti di natura omogenea che risultino certi nel senso che deve esistere il titolo sul quale il credito si fonda e definito il quantum liquidi cioè determinati nell’ammontare in base al titolo esigibili ovvero immediatamente azionabili . Il requisito della liquidità, che evidentemente implica quello della certezza, diversamente da quanto sostenuto in qualche modo nel ricorso, in questo non si esaurisce il credito, che ben può essere, come in questo caso, certo quanto al diritto del professionista alla corresponsione degli onorari, può non essere liquido in quanto l’ammontare dello stesso non è stato ancora compiutamente definito o concordato tra le parti. Per liquidità, infatti, come ritenuto da Sez. Un. Civ. 13 settembre 2016 n. 17989, pure citata dalla difesa nell’atto di ricorso, si intende che l’ammontare del credito e del controcredito devono essere entrambi determinati ovvero, che la somma dovuta possa essere calcolata sulla base di semplici operazioni aritmetiche . Il credito, di contro, non può ritenersi liquido, cioè determinato nell’ammontare, qualora la quantificazione dello stesso non sia già pacificamente nota perché concordata e formalizzata ovvero a questa non possa addivenirsi applicando criteri stringenti il cui risultato dia una somma, una ed una soltanto così sempre le Sezioni Unite civili citate nell’atto di ricorso . L’ulteriore requisito della esigibilità è, in tema di compensazione legale, sostanzialmente conseguenza della liquidità che, proprio in virtù della esclusione di spazi discrezionali, consente alle parti di procedere senza fare ricorso al giudice civile. Tanto premesso il credito vantato dall’avv. L. , che pure era certo in quanto allo stesso sicuramente erano dovuti gli onorari per l’attività professionale prestata in favore dei clienti ora parti civili, non poteva e non può ritenersi liquido e, quindi, esigibile. Diversamente da quanto indicato nella sentenza di primo grado, ed ora ribadito nei motivi di ricorso, l’emissione della notula non rendeva e non poteva rendere di per sé liquido il credito poiché questo non era stato in precedenza determinato nell’ammontare. L’invio della c.d. notula, d’altro canto e come evidenziato dalla Corte d’Appello confutando la diversa conclusione cui era pervenuto il Tribunale, non ha alcun rilievo quanto alla liquidità del credito vantato dall’avv. L. . Come indicato nella sentenza impugnata, le c.d. notule sono state inviate solo in un secondo momento, cioè quando lo stesso avvocato aveva già conseguito la somma allo stesso solo genericamente dovuta. La c.d. notula, poi, in assenza di accordi pregressi e specifici sul punto, conteneva una determinazione unilaterale del compenso. Non coglie nel segno, peraltro, la considerazione secondo la quale tale aspetto sarebbe in qualche modo sanato dalla circostanza che gli onorari richiesti erano comunque contenuti tra il minimo ed il massimo del tariffario. In questo caso, infatti, la quantificazione è comunque espressione di una valutazione discrezionale e non certo, come ribadito dalle Sez. Un Civili più volte citate, mera applicazione di un criterio stringente , cioè il risultato di un semplice calcolo aritmetico al quale può seguire uno ed un solo risultato cfr Sez. Un. Civ. cit. . La possibilità che l’avvocato abbia di compensare il proprio credito professionale, d’altro canto, è anche oggetto di specifica disposizione deontologica, all’epoca dei fatti contenuta nell’art. 44, ora sostanzialmente trascritto nei medesimi termini nell’art. 31. In tale norma è indicata la condotta che il professionista deve tenere qualora riceva somme nell’interesse del cliente e come ed in quali casi si possa procedere ad una compensazione tra quanto ricevuto e quanto allo stesso dovuto. a quando vi sia il consenso della parte assistita . La regola fa riferimento ad uno specifico accordo tra avvocato e cliente circa l’opportunità di procedere ad una compensazione dei reciproci rapporti creditori. Accordo che nel caso di specie non c’era poiché nessuno dei clienti era stato interpellato in tal senso. b quando si tratta di somme liquidate giudizialmente a titolo di compenso a carico della controparte e l’avvocato non le abbia già ricevute dal cliente o dalla parte assistita . La regola si riferisce alle sole somme oggetto di specifica statuizione da parte del giudice. Nel caso di specie si tratterebbe delle sole somme che erano state effettivamente liquidate dal giudice dell’esecuzione, somme il cui ammontare era di gran lunga inferire a quelle complessivamente trattenute dall’avv. L. . c quando abbia già formulato una richiesta di pagamento del proprio compenso espressamente accettata dal cliente . Da ultimo il codice deontologico consente di procedere alla compensazione quando gli onorari sono stati oggetto di una anteriore e chiara richiesta di pagamento in relazione alla quale il cliente abbia aderito espressamente. Nel caso di specie la richiesta di compenso è stata formalizzata, in qualche modo e non certo in termini chiari quanto ai criteri utilizzati, solo con la notula inviata contestualmente all’assegno, a mezzo del quale veniva inviata la somma da cui erano già stati detratti gli onorari. La richiesta, quindi, a tutto voler concedere, non può considerarsi anteriore alla compensazione e non era certo stata oggetto di alcuna accettazione del cliente, che avrebbe dovuto espressamente acconsentire a tale specifica modalità di pagamento. La illiquidità del credito, certo solo circa l’an ma non in relazione al quantum, esclude che possa ritenersi operante, come correttamente ritenuto dalla Corte d’Appello, l’istituto della compensazione e, quindi, determina la sussistenza dell’elemento materiale del reato di appropriazione indebita in questo senso Sez. 2, n. 293 del 04/12/2013, dep. 2014, Rv. 257317 . 1.2 A diverse conclusioni deve addivenirsi in merito al dedotto vizio di motivazione quanto all’elemento psicologico. Non tutte le condotte irregolari, illegittime, illecite o, come quelle in analisi, deontologicamente scorrette, assumono rilevanza penale e possono essere solo per tale motivo qualificate nei termini di appropriazione indebita. Il giudice di merito, pertanto, una volta accertata la materiale ed impropria interversione del possesso, deve valutare la riferibilità del dolo al paradigma normativo di cui all’art. 646 cod. pen L’elemento psicologico del reato oggetto del processo è costituito dal dolo specifico. Il soggetto agente, quindi, oltre alla condotta, deve rappresentarsi l’ingiustizia del profitto che intende in tal modo conseguire L’elemento soggettivo del reato di appropriazione indebita consiste nella coscienza e volontà di appropriarsi del denaro o come nella specie .della cosa mobile altrui, posseduta a qualsiasi titolo, sapendo di agire senza averne diritto, ed allo scopo di trarre per sé o per altri una qualsiasi illegittima utilità Cass. pen., sez. 2^, n. 4996 del 25 marzo 1974, Draghi, rv. 128040 , Sez. 2, n. 27023 del 27/03/2012, Rv. 253411 . La verifica sul punto deve essere particolarmente attenta, ed essere oggetto di specifica motivazione, qualora emergano ovvero siano stati rilevati e dedotti elementi dai quali sia possibile inferire la sostanziale buona fede dell’imputato. Nel caso di specie la Corte d’Appello, peraltro riformando una sentenza assolutoria del giudice di primo grado, si è limitata ad evidenziare che l’opacità del comportamento dell’imputato è sintomatica del dolo del reato in esame . Tale considerazione, che a ben vedere si riferisce alla coscienza e volontà della sola condotta materiale, non è esaustiva. La Corte, infatti, preso atto che l’avv. L. vantava nei confronti delle persone offese un credito professionale, sicuramente certo quanto all’an, avrebbe dovuto valutare se la somma oggetto dell’appropriazione era qualificabile nei termini del profitto ingiusto e se questa era stata o meno la rappresentazione psicologica che l’imputato aveva avuto. Accertamento questo evidentemente da compiersi sulla base di elementi sintomatici direttamente riferibili a tale specifico aspetto e non in generale alla condotta appropriativa che non risulta essere stato compiuto dal giudice di merito e di cui, comunque, non vi è traccia in motivazione. Per gli esposti motivi la decisione impugnata deve essere annullata e rinviata alla Corte territoriale affinché, verificato se il profitto dell’appropriazione possa o meno ritenersi ingiusto e se tale elemento sia stato oggetto di rappresentazione da parte dell’imputato, motivi in merito alla sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 646 cod. pen 1.2 Il secondo motivo è allo stato da ritenersi assorbito. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Genova per nuovo giudizio.