Il concorso dell’aspirante avvocato nel reato di tentato abuso d’ufficio

Cosa hanno in comune dei pubblici ufficiali che commettono un tentato abuso di ufficio ed una aspirante avvocato che concorre nel reato? Le intercettazioni del flusso di comunicazioni, afferenti a sistemi telematici ed informatici, acquisite nell’ambito di un procedimento penale inizialmente unitario, poi frazionato.

Il pubblico ufficiale fa la pentola e l’aspirante avvocato il coperchio tutti incriminati e condannati a fuoco lento. A leggere di certe vicende reali, non rinvenibili neppure sui palcoscenici dei cabaret, che, finite nelle aule di tribunale Cass. Pen. n. 10567/18, dep. l’8 marzo , frantumano il sogno di una ‘generalizzata dignità umana’, si rimane sempre in dubbio se poter ridere o dover scoppiare a piangere. Ed a sentire di pubblici ufficiali, addetti anche ad elevate cariche di responsabilità, che si coalizzano per avvantaggiare taluno in barba al principio di imparzialità nonchè di aspiranti avvocati che cavalcano l’ebbra onda dell’inganno senza neppure sapere cosa sia il senso della giustizia, viene davvero da pensare che ormai tutto è perduto. Eppure, questa sentenza dimostra il contrario. Infatti, a finire nelle maglie della giustizia umana, che non le ha lasciato scampo, è una candidata all'esame di abilitazione per la professione forense accusata di aver concorso quale extraneus , in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, alle condotte di tentato abuso di ufficio poste in essere da ben tre pubblici ufficiali che avevano realizzato atti, diretti in modo non equivoco, a procurare alla stessa un ingiusto vantaggio patrimoniale consistente nel superamento dell'esame di abilitazione alla professione forense e non riuscendo nell'intento solo per cause indipendenti dalla propria volontà, dovute al mancato superamento dell'esame. Le condotte abusive dei predetti pubblici ufficiali, che avevano agito in sinergia tra di loro, avrebbero avuto come fine quello di consentire alla imputata di presentare come proprio un elaborato che, invece, era opera di altri, nell'espletamento delle prove scritte dell'esame di abilitazione alla professione di avvocato. Dall'esame del complessivo compendio probatorio, acquisito in primo grado, era emerso come la candidata avesse goduto dell'assistenza dei tre coimputati nella redazione delle tracce di esame. In particolare, secondo l'imputazione, la donna si era avvalsa dei consigli di un cancelliere, addetto alla vigilanza per l'espletamento delle prove scritte, ed aveva ricevuto da questi un elaborato tratto da siti internet in cui, nella immediatezza della pubblicazione, era commentata la traccia d’esame. Contemporaneamente, un altro pubblico ufficiale, e precisamente un funzionario del Ministero di Giustizia in servizio presso l'ufficio informatico della Corte di Appello competente, abusando del proprio ufficio, aveva reperito - ovviamente utilizzando le risorse informatiche del proprio ufficio, navigando su internet - le tracce di esame inviandole ad un terzo soggetto. Quest'ultimo, niente di meno che avvocato funzionario in servizio presso l'ufficio legislazione, aveva confezionato l'elaborato perché venisse dato alla suddetta candidata alla professione forense. Ne seguiva la condanna della imputata che, in secondo grado, la Corte d’Appello rivedeva, rideterminandola in sei mesi di reclusione, condizionalmente sospesa, confermando però nel resto la sentenza di primo grado. Faceva sèguito il ricorso in Cassazione ove il legale della condannata impugnava il provvedimento per una serie di ragioni. Uno dei motivi di ricorso era la asserita inosservanza dell'art. 270 c.p.p. atteso che le intercettazioni telefoniche, utilizzate come prova nel procedimento penale pendente nei confronti della ‘scorretta’ candidata, erano state disposte per un procedimento penale diverso da quello afferente alla candidata alla professione forense. Ma entrambi i giudici di merito avevano ritenute utilizzabili, nei confronti della imputata, le intercettazioni telefoniche disposte nei confronti di uno dei pubblici ufficiali, rilevando come le stesse fossero state eseguite nel contesto del medesimo procedimento. La tesi della difesa le intercettazioni acquisite in seno ad un procedimento afferente ad ipotesi di reato differenti non sono utilizzabili nel giudizio de quo. In effetti, le intercettazioni incriminatrici erano state autorizzate nell'ambito di un procedimento dal GIP al fine di accertare ipotesi di reato relative ad atti falsi, confezionati in favore di noti pregiudicati, ad abuso d'ufficio ed a rivelazione di segreto di ufficio, posti in essere proprio dai tre pubblici ufficiali suindicati. La candidata alla professione forense risultava oggettivamente estranea rispetto alle vicende di rivelazione di segreto d'ufficio addebitate e non poteva essere giudicata in virtù di prove acquisite con riferimento a questa vicenda, qualifica come autonoma e non correlata in quanto le sue condotte poste in essere nel corso dell'esame di avvocato non erano soggettivamente nè oggettivamente connesse o collegate con quelle afferenti alle rivelazioni di ufficio . La conclusione della difesa, dunque, era che difettava nei presupposti la operatività dell'art. 270 c.p.p. non essendo contemplato l'arresto obbligatorio in flagranza per il delitto di abuso di ufficio. Quando i risultati delle intercettazioni, acquisite in un giudizio differente, sono utilizzabili in un altro procedimento. Per la Suprema Corte la doglianza de qua è infondata poiché correttamente la corte di appello aveva ritenuto utilizzabili, nei confronti della candidata, le intercettazioni eseguite sulla utenza telefonica di uno dei pubblici ufficiali. Tanto in quanto le stesse erano state poste in essere nello stesso procedimento, anche in termini di genesi delle relative indagini. Infatti, nel caso di specie risulta che le intercettazioni relative alle ipotesi di tentato abuso di ufficio sono state eseguite nell'ambito del medesimo procedimento nel corso del quale erano state autorizzate le captazioni nei confronti di uno dei pubblici ufficiali. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, dal quale secondo gli Ermellini non vi è ragione di discostarsi, i risultati delle intercettazioni telefoniche legittimamente acquisite nell'ambito di un procedimento penale inizialmente unitario sono utilizzabili anche nel caso in cui il procedimento sia successivamente frazionato a causa della eterogeneità delle ipotesi di reato e dei soggetti indagati, atteso che, in tal caso, non trova applicazione l'art. 270 c.p.p., che, invece, postula l'esistenza di procedimenti ab origine tra loro distinti. Pertanto, l'applicabilità di tale norma non può essere invocata ove, nel corso delle intercettazioni legittimamente autorizzate, emergano elementi di prova relativi ad un altro reato, pur totalmente svincolato da quello per il quale l'autorizzazione è stata debitamente rilasciata. Tra le argomentazioni poste alla base di tali conclusioni giuridiche la Suprema Corte rileva che l’art. 270 c.p.p., nell'individuare i parametri per legittimare l'utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in altri procedimenti, non richiama l’elenco tassativo dell'art. 266 c.p.p. ma fa riferimento al diverso requisito della indispensabilità per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza. Pertanto, sia la lettera che il contesto sistematico in cui si collocano le norme 266 e 270 c.p.p. dimostrano che il legislatore si è posto il problema della utilizzazione dei risultati di intercettazioni - legittimamente disposte per uno dei reati indicati nell'art 266 c.p.p. - trattando esplicitamente solo il caso dell'utilizzazione extra-procedimentale e, tuttavia, riconoscendo in quel caso la possibilità di utilizzazione secondo parametri diversi da quelli indicati nell'art 266 c.p.p

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 29 novembre 2017 – 8 marzo 2018, n. 10567 Presidente Carcano – Relatore D’Arcangelo Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello dell’Aquila, in parziale riforma della sentenza emessa in data 22 maggio 2013 dal Giudice dell’Udienza Preliminare del Tribunale dell’Aquila ed appellata dalla imputata N.A., ha rideterminato in sei mesi di reclusione, condizionalmente sospesa, la pena irrogata nei confronti della stessa, confermando, nel resto la sentenza di primo grado. 2. N.A. è imputata dei delitti di cui agli artt. 110, 81, secondo comma, 56 e 323, anche in riferimento all’art. 1 della legge 19 aprile 1925, n. 475, contestati ai capi b , d ed f , per aver, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, concorso quale extraneus alle condotte di tentato abuso di ufficio rispettivamente poste in essere dai pubblici ufficiali O.L., D.B.P. e O.P. rispettivamente contestate ai capi a , c e d , che avevano posto in essere e atti inidonei, diretti in modo non equivoco, a procurare alla N. un ingiusto vantaggio patrimoniale consistente nel superamento dell’esame di abilitazione alla professione di avvocato, non riuscendo nell’intento per cause indipendenti dalla propria volontà, dovute al mancato superamento dell’esame. Le condotte abusive dei predetti pubblici ufficiali sarebbero, infatti, state finalizzate sinergicamente a consentire alla imputata, nell’espletamento delle prove scritte dell’esame all’abilitazione alla professione di avvocato, tenutosi a nei giorni omissis , di presentare come proprio un elaborato che invece era opera di altri. In particolare, secondo l’imputazione, la N., avvalendosi dei consigli di O.L., cancelliere presso il Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila ed addetta alla vigilanza per l’espletamento delle prove scritte per l’esame di abilitazione all’avvocatura svolte a in data omissis , aveva ricevuto dalla stessa un elaborato tratto da siti internet in cui, nella immediatezza della pubblicazione, era commentata la traccia, preparato da D.B.P. e O.P. capo a . D.B.P., inoltre, in qualità di funzionario del Ministero di Giustizia in servizio presso l’Ufficio Informatico della Corte di appello dell’Aquila, abusando del proprio ufficio, aveva reperito, utilizzando le risorse informatiche del proprio ufficio, navigando in Internet, le tracce d’esame, inviandole a O.P. capo c . Da ultimo, O.P., avvocato funzionario della omissis in servizio presso l’ufficio legislazione omissis , aveva confezionato l’elaborato di seguito consegnato dalla sorella L. perché venisse consegnato alla candidata N. capo e . 3. L’avv. Emilio Bafile, nell’interesse della N., ricorre per cassazione avverso la predetta sentenza e ne chiede l’annullamento, deducendo quattro motivi e, segnatamente - la inosservanza o la erronea applicazione dell’art. 11, comma 3, cod. proc. pen. in quanto la Corte di Appello, nel rigettare la eccezione di incompetenza territoriale già sollevata innanzi al Giudice dell’udienza preliminare, avrebbe dovuto individuare il Tribunale competente a conoscere della regiudicanda in quello di Campobasso, essendo parti lese delle condotte di reato poste in essere da O.L. una pluralità di magistrati appartenenti al distretto dell’Aquila - la inosservanza dell’art. 270 cod. proc. pen., atteso che le intercettazioni disposte sulla utenza telefonica di O.L. erano state utilizzate come prova in procedimento diverso da quello per cui erano state disposte e, segnatamente, nei confronti della N. - la inosservanza dell’art. 416, comma 2, cod. proc. pen., non essendo stata trasmessa la Relazione Integrativa della Guardia di Finanza del 28 maggio 2012, che, costituendo atto di indagine, avrebbe dovuto essere esaminata dal giudice dell’udienza preliminare in sede di decisione del rito abbreviato - la violazione o la erronea applicazione dell’art. 56, comma terzo, cod. pen. e dell’art. 530 cod. proc. pen Considerato in diritto 1. Il ricorso deve essere rigettato in quanto infondato. 2. Con il primo motivo la ricorrente deduce la inosservanza dell’art. 11, comma 3, cod. proc. pen. in quanto la Corte di Appello, nel rigettare la eccezione di incompetenza territoriale già sollevata innanzi al Giudice dell’udienza preliminare, avrebbe dovuto individuare il Tribunale competente a conoscere della regiudicanda in quello di Campobasso, essendo danneggiata dalle condotte di reato poste in essere da O.L. una pluralità di magistrati appartenenti al distretto dell’Aquila. Dalla mera lettura dei capi di imputazione emergeva, peraltro, che i medesimi, per quanto posto in essere a loro discredito ed a danno dell’Ufficio, erano legittimati a costituirsi parte civile. 3. Tale doglianza si rivela infondata e, pertanto, deve essere disattesa. La speciale competenza stabilita dall’art. 11 cod. proc. pen., che ha natura funzionale, e non semplicemente territoriale, con conseguente rilevabilità, anche di ufficio, del relativo vizio in ogni stato e grado del procedimento Sez. U, n. 292 del 15/12/2004, Scabbia, Rv. 229633 , opera esclusivamente per i procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di indagato, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato ed, ai sensi del comma terzo della medesima disposizione, nei procedimenti connessi. La Corte di Appello dell’Aquila, a pagina 7 della sentenza impugnata, ha correttamente escluso la sussistenza dei presupposti per la applicazione dell’art. 11, comma 3, cod. proc. pen., rilevando che in relazione al reato di falso per induzione di cui al capo s ascritto a O.L., D.S.F. e D.S.R. in concorso tra loro e di rivelazione di segreto di ufficio di cui al capo t ascritto alla sola O.L., i magistrati indicati nel capo di imputazione quali pubblici ufficiali che, per effetto delle condotte di induzione in errore contestate come poste in essere dalla O. in concerto con i due coimputati, avrebbero emesso dei provvedimenti giudiziali sulla base di falsi presupposti non possono, ad avviso della Corte, assolutamente essere definiti come persone offese o danneggiate dal reato, nel senso tecnico inteso dalla norma penale di cui all’art. 11 cod. proc. pen., essendo detti magistrati, semmai, solo lo strumento inconsapevole attraverso il quale sarebbe stato leso il bene rappresentato dalla tutela della fede pubblica capo s e del buon funzionamento della pubblica amministrazione capo t . Non rivestendo, pertanto, i magistrati contemplati nell’imputazione di cui al capo s la qualità di persone offese o di danneggiate dal reato, viene meno ogni e qualsiasi possibilità, in ogni caso, di applicare alla presente fattispecie il disposto di cui all’art. 11, comma 1 e 3, cod. proc. pen. . Come ha correttamente rilevato la Corte di appello, nella specie i magistrati tratti in inganno non erano né le persone offese dei delitti di rivelazione di segreto di ufficio commessi, in quanto non erano i titolari del bene-interesse leso, e neppure i danneggiati dal reato. Nella sintassi del codice penale, infatti, il soggetto che commette il reato perché determinato dall’altrui inganno ai sensi dell’art. 48 cod. pen. appartiene, pur sempre, ancorché sia non punibile, al novero degli autori del reato e, pertanto, non può essere, al contempo, considerato danneggiato da una condotta posta in essere da sé medesimo. 4. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la inosservanza dell’art. 270 cod. proc. pen., atteso che le intercettazioni telefoniche erano state utilizzate come prova nel procedimento penale pendente nei confronti della N., diverso da quello per cui erano state originariamente disposte. Entrambi i giudici di merito avevano, infatti, ritenuto utilizzabili nei confronti della N. le intercettazioni telefoniche disposte nei confronti di O.L., rilevando come le stesse fossero state eseguite nel contesto del medesimo procedimento, ma avevano obliterato il contenuto precettivo dell’art. 270, comma 1, cod. proc. pen Le intercettazioni erano, infatti, state autorizzate nell’ambito del procedimento n. 2608/10 R.G.N.R. dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Avezzano, al fine di accertare ipotesi di reato relative ad atti falsi confezionati in favore di noti pregiudicati abruzzesi, abuso di ufficio e rivelazione di segreto di ufficio posti in essere da L. O., D.S.R. e F. . La N. era, pertanto, certamente estranea rispetto alle vicende di rivelazione di segreto di ufficio addebitate a O.L. . Inoltre, atteso che le condotte poste in essere nel corso dell’esame di avvocato non erano soggettivamente o oggettivamente connesse o collegate con quelle di rivelazione di segreto di ufficio, essendo due vicende autonome ed irrelate, difettavano i presupposti per la operatività dell’art. 270 cod. proc. pen., non essendo contemplato l’arresto obbligatorio in flagranza per il delitto di abuso di ufficio. Il decreto autorizzativo adottato in relazione alla O., peraltro difettava dei presupposti di cui all’art. 267 cod. proc. pen., mancando la motivazione come evidenziato con la memoria depositata in data 15 novembre 2012. 5. Anche tale doglianza si rivela infondata. La Corte di Appello ha correttamente ritenuto utilizzabili nei confronti della N. le intercettazioni eseguite sulla utenza telefonica della O. in quanto le stesse erano state poste in essere nello stesso procedimento, anche in termini di genesi delle relative indagini . Nel caso di specie, infatti, risulta che le intercettazioni relative alle ipotesi di tentato abuso di ufficio siano state eseguite nell’ambito del medesimo procedimento nel corso del quale erano state autorizzate le captazioni nei confronti di O.L. e, segnatamente, nel procedimento n. 2608/10 R.G.N.R. dal quale era sorto di seguito, per stralcio, quello n. 378/11 R.G.N.R. . Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, dal quale non vi è ragione per discostarsi, i risultati delle intercettazioni telefoniche legittimamente acquisiti nell’ambito di un procedimento penale inizialmente unitario sono utilizzabili anche nel caso in cui il procedimento sia successivamente frazionato a causa della eterogeneità delle ipotesi di reato e dei soggetti indagati, atteso che, in tal caso, non trova applicazione l’art. 270 cod. proc. pen. che postula l’esistenza di procedimenti ab origine tra loro distinti Sez. 6, n. 21740 dell’01/3/2016, Masciotta, Rv. 266921 Sez. 6, n. 6702 del 16/12/2014, dep. 2015, La Volla, Rv. 262496 Sez. 6, n. 27820 del 17/06/2015, Morena, Rv. 264087 Sez. 6, n. 41317 del 15/07/2015, Rosatelli, Rv. 265004 in motivazione, inoltre, v. Sez. 2, n. 1924 del 18/12/2015, dep. 2016, Roberti, Rv. 265989, nonché Sez. 6, n. 8934 del 10/12/2014, dep. 27/02/2015, Franzosi, Rv. 262648 . L’applicabilità dell’art. 270 cod. proc. pen. non può, pertanto, essere invocata ove, nel corso di intercettazioni legittimamente autorizzate, emergano elementi di prova relativi ad altro reato, pur totalmente svincolato da quello per il quale l’autorizzazione è stata debitamente rilasciata v., in motivazione, Sez. 6, n. 50261 del 25/11/2015, M., Rv. 265757 . La lettera stessa degli artt. 266 e 270 cod. proc. pen., non solo non presenta indicazioni opposte o incompatibili, ma anzi fornisce almeno due indicazioni con essa coerenti. In primo luogo, infatti, l’art. 266 cod. proc. pen. non esclude espressamente l’utilizzabilità delle intercettazioni nell’ipotesi del concorso di reati nel medesimo procedimento e ciò, pur essendo l’ipotesi di concorso di reati fenomeno del procedimento del tutto usuale e frequente. La locuzione nei procedimenti relativi ai seguenti reati deve, pertanto, per esigenze di intrinseca coerenza sistematica, essere interpretata nel senso della sufficienza della presenza di uno dei reati di cui all’art. 266 cod. proc. pen. all’interno del procedimento, mentre, sarebbe paradossale dover invece pervenire alla conclusione che l’art. 266 cod. proc. pen. disciplini solo i casi in cui il singolo procedimento tratta uno solo, o più, dei reati che espressamente indica. D’altro lato, l’art. 270 cod. proc. pen., nell’individuare i parametri per legittimare l’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in altri procedimenti, non richiama l’elencazione tassativa dell’art. 266, ma fa riferimento al diverso requisito della indispensabilità per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza. Pertanto, sia la lettera che il contesto sistematico in cui si collocano gli artt. 266 e 270 cod. proc. pen. dimostrano che il legislatore si è posto il problema della utilizzazione dei risultati di intercettazioni legittimamente disposte per uno dei reati indicati nell’art. 266 cod. proc. pen., trattando esplicitamente solo il caso dell’utilizzazione extra-procedimentale e, tuttavia, riconoscendo in quel caso la possibilità di utilizzazione secondo parametri diversi da quelli indicati nell’art. 266 cod. proc. pen Inammissibile in quanto aspecifica si rivela, da ultimo, la censura rivolta avverso la asserita carenza di motivazione di cui all’art. 267 cod. proc. pen. dei decreti autorizzatori delle intercettazioni delle utenze di O.L., in quanto il ricorrente, limitandosi a richiamare una propria memoria depositata in una distinta fase processuale, non si è confrontato con il testo della decisione impugnata, contestandola specificamente, e non ha chiarito in termini autonomi il significato dei propri rilievi critici in relazione alle cadenze ed al sindacato proprio del giudizio di cassazione. 6. Con il terzo motivo la ricorrente si duole della violazione dell’art. 416, comma 2, cod. proc. pen., non essendo stata trasmessa la Relazione integrativa della Guardia di Finanza, Nucleo Polizia Tributaria L’Aquila, Gruppo Tutela Economica, depositata in data 28 maggio 2012, che, costituendo atto di indagine, avrebbe dovuto essere esaminata dal giudice dell’udienza preliminare in sede di decisione del rito abbreviato. L’art. 416 cod. proc. pen. fonda una presunzione di trasmissione di ogni atto presente nel fascicolo del Pubblico Ministero, atteso che il medesimo, ai sensi del secondo comma della medesima disposizione, ha l’obbligo di trasmettere al giudice dell’udienza preliminare l’intera documentazione raccolta nel corso delle indagini. La ingiustificata pretermissione di tale atto, secondo la ricorrente, aveva, pertanto, influito in modo determinante sull’esito del giudizio e, segnatamente, aveva impedito al giudice dell’udienza preliminare di comprendere che la imputata non aveva postato alcuna traccia di esame su internet. Solo per un equivoco, pertanto, il messaggio partito da tale A. era stato attribuito originariamente alla N. . Pur essendo tale annotazione stata acquisita dalla Corte di Appello, era, pertanto, necessario nuovamente celebrare il primo grado di giudizio, pregiudicato nell’esito a causa di tale omissione. 7. Anche tale censura deve essere disattesa in quanto infondata. Non è configurabile la inosservanza da parte del Pubblico Ministero dell’obbligo di cui all’art. 416, comma 2, cod. proc. pen., di depositare, con la richiesta di rinvio a giudizio, tutta la documentazione relativa alle indagini espletate, allorché, pur difettando l’immediata disponibilità di parte del materiale probatorio, esso risulti, in base gli atti, trasmesso sicché la difesa è in condizione di chiederne l’acquisizione al fine di prenderne visione ed estrarne copia ex plurimis Sez. 2, n. 6950 del 12/03/1998, D’Auria, Rv. 211102 . La Corte di Appello dell’Aquila ha, peraltro, acquisito, nel contraddittorio delle parti, la predetta relazione di indagine alla udienza del 19 febbraio 2015 ed ha rilevato, non certo illogicamente, come non potesse annettersi alla stessa il significato decisivo attribuito dalla difesa. La circostanza che non vi fosse prova che la A. che aveva postato un messaggio sul forum dedicato in Internet all’esame di avvocato alle ore 10.42 del 14 dicembre 2010 fosse stata la imputata, non era rilevante ai fini della definizione della posizione della N. . La responsabilità penale della imputata è, infatti, stata congruamente dimostrata dalla valutazione sinergica delle intercettazioni telefoniche intercorse tra i coimputati nei giorni delle prove di esame, dall’esito della acquisizione delle mail scambiate tra le O. ed il D.B. nel corso delle predette prove e dalla attività di pedinamento di L. O. posta in essere dalla Polizia Giudiziaria in tali giorni. Dall’esame di tale complessivo compendio probatorio era emerso come la N. avesse goduto della assistenza dei coimputati nella redazione delle tracce d’esame. 8. Con il quarto motivo, la ricorrente lamenta la inosservanza o la erronea applicazione dell’art. 56, terzo comma, cod. pen. e dell’art. 530 cod. proc. pen La imputata, infatti, non aveva ricevuto dall’esterno gli elaborati della prova di esame ed aveva consegnato compiti genuini non aveva, inoltre, introdotto alcun cellulare all’interno dell’aula di svolgimento della prova di esame. La conoscenza della N. con O.L. era stata puramente casuale, l’imputata nei giorni di esame aveva fatto a meno del cellulare e non aveva postato le tracce di esame, come chiarito dalla predetta annotazione della Guardia di Finanza. L’imputata, peraltro, aveva riportato una votazione più alta 28 rispetto ai voti delle residue prove 21 e 22 proprio il terzo giorno nel quale era stato alla O. inibito l’ingresso ai locali ove si svolgeva la prova di esame. Errata era, inoltre, la valutazione effettuata dal Giudice dell’Udienza Preliminare in ordine alla corrispondenza degli elaborati della imputata con le mail inviate dal D.B. alle sorelle O. . La circostanza che la N., nei giorni precedenti le prove di esame, avesse conversato con la O. circa le possibili modalità di comunicazione con l’esterno durante le prove era, inoltre, inidonea a fondare un giudizio di colpevolezza, neppure in termini di tentativo punibile. La imputata doveva, pertanto, essere assolta e, comunque, atteso che dalle intercettazioni, pur inutilizzabili, era emerso che la N., durante le prove, aveva il cellulare spento, la condotta doveva, al più, essere qualificata ai sensi dell’art. 56, comma terzo, cod. pen., venendo in rilievo una ipotesi di desistenza volontaria nella quale l’agente aveva abbandonato l’azione criminosa prima che questa fosse portata a compimento. La presunzione di avvenuta consegna dei compiti alla N. era, infatti, priva di oggettivi riscontri. 9. Il motivo si rivela inammissibile in quanto si risolve nella sollecitazione a pervenire, attraverso una incursione del merito della presente regiudicanda, ad una diversa, e più favorevole lettura, delle risultanze probatorie poste a fondamento della sentenza impugnata. Nella sentenza impugnata si rileva, peraltro, congruamente che non vi fu alcuna desistenza volontaria da parte della N. . La Corte di Appello, infatti, con motivazione tutt’altro che illogica, ha ritenuto irrilevante la circostanza valorizzata dalla difesa relativa al mancato utilizzo da parte della N. del telefono cellulare, pur abusivamente portato all’interno dei locali ove venivano svolte le prove di esame, in quanto il previo ed organizzato accordo di assistenza, ad ampio spettro tra la N. e L. O., contemplava il ricorso al cellulare solo quale ipotesi residuale. Per quanto accertato dalle sentenze di merito, infatti, la consegna dell’elaborato confezionato da O.P. alla N. era avvenuta nel bagno dei locali destinati alle prova da parte di O.L. . Nel giudizio di cassazione sono, peraltro, precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482 . 10. Alla stregua di tali rilievi, pertanto, il ricorso deve essere disatteso e la ricorrente deve essere condannata, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.