Il marito uccide la moglie in stato vegetativo: è applicabile l’attenuante dei particolari motivi di valore morale o sociale?

L'attenuante non può essere riconosciuta all’omicida del coniuge affetto da grave malattia, il cui movente sia stato quello di porre fine ad una vita di strazi, in quanto dall’azione criminosa non esula la finalità egoistica di trovare rimedio alla sofferenza, consistente nella necessità di accudire un malato grave ridotto in uno stato vegetativo.

Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 7390/18, depositata il 15 febbraio. Il caso. L’imputato, nella convinzione di porre fine alle sofferenze della propria moglie, anziana e gravemente malata, la soffocava nel sonno, così mettendo in atto, di fatto, quella che era, a suo dire, la volontà della donna, di essere trovata morta nel suo letto . Tuttavia, il Giudice di primo grado e la Corte di Assise di Appello lo condannavano per il delitto di omicidio volontario in appello, infatti, veniva esclusa l’aggravante di cui all’art. 577, comma 2, c.p., ritenute prevalenti le attenuanti generiche e l’attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 6 . Non veniva, invece, riconosciuta l’attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 1 c.p. per avere l’imputato commesso il fatto per un motivo di particolare valore sociale o morale, nonostante si fosse evidenziato che mancasse nell’azione antigiuridica dell’uomo un qualunque fine egoistico. Il valore morale o sociale”. La questione posta alla Suprema Corte, come è noto, si inserisce nella più ampia problematica giuridica riguardante l’eutanasia e il fine vita. I Giudici ricordano come la circostanza attenuante richiamata ricorre quando la condotta dell’agente si fondi su elevati valori di natura etico morale e di elevato spessore, così come ritenuto dalla società civile. Il valore morale e sociale del motivo che costituisce il fondamento di una data condotta illecita, nondimeno, va valutato sotto un profilo prettamente oggettivo. Infatti, deve essere considerato tale non già da una ristretta cerchia di individui, ma dalla prevalente coscienza collettiva, espressione della comunità Cass. Pen., Sez. 6, n. 11878/03 . Cosa si richiede perché si configuri l’attenuante. In questo senso, dunque, a nulla rileva l’intima convinzione dell’agente di compiere e perseguire una finalità moralmente apprezzabile, perché ciò che è necessario per la configurabilità dell’attenuante in parola è l’obiettiva rispondenza del motivo perseguito a valori etici o sociali effettivamente apprezzabili . Tale attenuante, quindi, non può trovare applicazione se il fatto di particolare valore morale o sociale esiste soltanto nell’opinione del soggetto attivo del reato. Oltre ciò, il sentire sociale e l’approvazione collettiva che rileva in materia deve essere riferita al motivo che ha spinto all’azione il soggetto e non riguarda, in alcun modo, la condotta sanzionata. La finalità egoistica dell’azione. Inoltre, va altresì verificato se nella determinazione della condotta antigiuridica del soggetto agente sia da affiancarsi anche un interesse, per così dire, di natura egoistica. Ed infatti, l’attenuante in parola, è stata esclusa proprio in ragione del fatto che il movente dell’azione sia stato riconosciuto nella egoistica volontà di trovare un rimedio alla sofferenza derivante dall’obbligo di accudire un malato in gravissime condizioni di salute e non già nel desiderio di far cessare le angosce e strazi della malata.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 6 luglio 2017 – 15 febbraio 2018, n. 7390 Presidente Di Tomassi – Relatore Siani Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza in epigrafe, emessa il 22 febbraio - 10 maggio 2016, la Corte di assise di appello di Firenze ha confermato la sentenza resa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze in data 19 novembre 2014 17 febbraio 2015, con cui V.G. - imputato del delitto di omicidio volontario aggravato, per aver cagionato volontariamente la morte della moglie B.N., di anni 88, mediante strangolamento con una sciarpa mentre costei dormiva, fatto commesso in omissis - vistosi riconoscere le circostanze attenuanti generiche e l’attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 6, cod. pen., valutate entrambe prevalenti rispetto all’aggravante di cui all’art. 577, comma 2, cod. pen., applicata la diminuente per il rito, era stato condannato alla pena di anni sette e mesi otto di reclusione, oltre all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e al pagamento delle spese processuali. Il fatto veniva ricostruito sulla base di elementi sostanzialmente non controversi, dato che il V. si era costituito alla polizia poco dopo il fatto e aveva sempre ammesso la propria responsabilità negli interrogatori. Era emerso che la moglie dell’imputato soffriva ormai da tempo di alcune patologie che ne avevano alterato irrimediabilmente le facoltà mentali e la capacità di deambulazione e, pertanto, era impossibilitata a gestire la propria vita quotidiana, già alterata dalle sofferenze e dalla depressione che avevano origini antiche, verosimilmente risalenti alla perdita di un figlio per suicidio. Non corso delle ore antecedenti all’omicidio, la B. non reagiva agli ansiolitici e continuava ad agitarsi, mentre il V. , anch’egli molto malato, era sempre più provato, psicologicamente e fisicamente. Soltanto all’alba la donna era riuscita a riposare un pò ed era stato a quel punto che il V. aveva deciso di porre fine alle sofferenze della propria moglie, asserendo che ella avrebbe preferito, rispetto ad una lunga malattia, essere trovata una mattina morta nel suo letto. I giudici di merito hanno escluso che, al momento dell’azione omicida, il V. si trovasse in difetto di imputabilità, perché l’uomo si era sempre dimostrato lucido la depressione di cui effettivamente soffriva risaliva ad epoche remote e il giorno dei fatti non era accaduto nulla di nuovo. L’imputato aveva avuto un cedimento di fronte ad un quadro di gravissime sofferenze, ma lo aveva fatto in modo consapevole, scegliendo poi di non cercare in alcun modo di sfuggire alle proprie responsabilità. Assodate le due riconosciute circostanze attenuanti, i giudici di merito hanno escluso la possibilità di riconoscere al V. l’attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 1, cod. pen., che spetta a chi ha commesso un reato per un motivo di particolare valore morale o sociale. La sentenza impugnata ha anche dato conto del perché la pena non sia stata ridotta nella massima estensione per l’attenuante del risarcimento del danno, essendosi sul punto evidenziato che, nel caso di specie, ricorrevano l’estrema gravità del fatto e l’irreparabilità del danno. 2. Avverso tale decisione ha proposto ricorso il V. per il tramite dei suoi difensori di fiducia, chiedendone l’annullamento ed affidando l’impugnazione ad un unico, articolato motivo con cui lamenta violazione o erronea interpretazione dell’art. 62, comma 1, n. 1, cod. pen. Il ricorrente sostiene che i precedenti richiamati dai giudici di merito non erano, per le rispettive peculiarità, indicativi di un orientamento teso ad escludere la circostanza attenuante in questione, relativo alla morte pietosa, considerata la problematica di principio e, soprattutto, avuto riguardo al caso concreto. In alcuni casi, infatti, era stata la particolare crudezza dell’esecuzione a giustificare il diniego dell’attenuante, mentre in altre occasioni era emerso un fine egoistico nell’azione. Non sussisteva, in altri termini, alcun rigido automatismo di esclusione dell’attenuante in parola nei casi di morte inferta per porre fine alle sofferenze della persona soppressa. Quanto al fine di preservare la figlia e al fatto che l’imputato fosse in condizioni stabili, secondo il ricorrente, la non imminenza del suo peggioramento non equivaleva alla possibilità di continuare ad assistere la moglie di mano propria, in quanto egli era comunque allo stremo e, in assenza del pubblico sostegno, era inevitabile la prospettiva, inaccettabile per il V. , di trasferire il fardello di dolore alla figlia, come l’imputato aveva confermato in una sua lettera allegata agli atti. Al riguardo il ricorrente ha stigmatizzato il richiamo operato dalla Corte di appello ad un elemento non richiesto ai fini dell’applicazione dell’attenuante in discorso, ossia l’immediatezza/imminenza della necessità di sacrificare la figlia tale elemento era richiesto da altre disposizioni, come gli artt. 52 e 54 cod. pen., ma non dalla disciplina relativo all’invocata attenuante. Qualora il movente fosse stato quello costituito dal desiderio di far cessare le sofferenze della moglie nella convinzione di esaudire la volontà della stessa, non sussisteva quell’elemento di egoismo che spesso aveva indotto i giudici a negare l’attenuante. Pertanto, i giudici di merito avrebbero dovuto ritenere che fosse da considerare un valore condiviso dalla collettività quello di porre fine alle sofferenze della persona, conformemente ai suoi desideri espressi in vita, rimarcandosi, al riguardo, le differenze con l’eutanasia nel caso di specie, sussisteva l’ulteriore elemento di porre fine alle sofferenze di un soggetto amato, insieme all’ossequio della volontà di chi non era più in grado di esprimerla. Il ricorrente ha ricordato, infine, che alcuni paesi Europei hanno legalizzato l’eutanasia e il suicidio assistito, o hanno intenzione di farlo a breve, e le sentenze della Corte EDU avevano più volte ritenuto compreso nell’art. 8 il diritto di ogni individuo a decidere il modo e il momento in cui la sua vita avrebbe dovuto finire e nel caso di specie non si trattava di conferire legalità alla scelta di porre fine ad una vita, ma solo di considerare socialmente apprezzato il fine perseguito, come del resto era confermato da un recente sondaggio Eurispes da cui emergeva che la maggioranza degli italiani era favorevole all’eutanasia. Nella medesima prospettiva, l’Inghilterra aveva introdotto l’aiuto al suicidio per compassione sanzionandolo in maniera più lieve il valore condiviso era, in sostanza, la compassione. 3. Il Procuratore generale ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso, in quanto l’impugnazione, nel suo primo aspetto, ha sollecitato una diversa valutazione di fatto nella ricostruzione della vicenda e, nel suo conseguente sviluppo, ha svolto un ragionamento aderendo al quale si finirebbe per ammettere che anche l’eutanasia può evocare un motivo di particolare valore morale e sociale, prospettiva che i giudici di merito hanno escluso in modo corretto. Considerato in diritto 1. L’impugnazione non è fondata e deve essere quindi rigettata. 2. Sul delicato tema dell’evenienza della circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 1, cod. pen., la sentenza impugnata ha osservato che - per essere riconosciuta tale attenuante - avrebbe dovuto risultare che il motivo che aveva determinato il V. all’azione fosse da considerarsi espressione del comune sentire sociale e ciò non poteva dirsi essere in concreto sussistente, afferendo la questione a tematiche - quali l’eutanasia ed i trattamenti di fine vita - ancora oggetto di ampi dibattiti. Quanto alla tesi sviluppata nel gravame secondo la quale il vero movente era stata la volontà di proteggere la figlia e i nipoti, togliendo loro il fardello dell’agonia della congiunta, soprattutto nel momento in cui egli stesso, anziano e malato, fosse venuto meno, essa è stata ritenuta priva di fondamento sulla base della ricostruzione della genesi dell’omicidio. In definitiva, si è considerato che il fatto omicidiario era da ascriversi allo stato d’animo dell’imputato, che lo rendeva ormai incapace di sopportare le sofferenze e l’inarrestabile decadimento fisico e cognitivo della moglie in questa condizione psicologica, si era probabilmente radicato il suo convincimento di esaudire un desiderio della stessa. Peraltro, il V. , pur essendo malato da tempo, si trovava in condizioni stabili e non vi era alcun motivo immediato per il quale la sua salute dovesse peggiorare nel breve termine. Inoltre, il V. nelle prime spontanee dichiarazioni rese alla Polizia giudiziaria e nell’interrogatorio reso al P.m. non aveva fatto alcun riferimento alla situazione della figlia S. , se non per spiegare che egli non aveva le possibilità economiche per collocare la B. in una struttura assistenziale e che alla figlia, la quale aveva la sua famiglia, non si poteva chiedere di più . 3. Si considera, poi, in termini generali, che la circostanza attenuante in esame viene in rilievo quando la condotta dell’agente rinviene il suo movente in ragioni che siano certamente corrispondenti ad un’etica che sottolinei i valori più elevati della natura umana quanto alla sfera morale o parimenti consentanei a ragioni di elevato spessore avvertite e favorevolmente valutate società civile quanto alla sfera sociale . Non si dubita che le clausole generali a cui la disposizione ricorre per individuare i requisiti legittimanti il riconoscimento del trattamento sanzionatorio attenuato si colleghino a valutazioni che, almeno in certa misura, sono storicamente condizionate al diffondersi ed anche al modificarsi dei valori morali e sociali in una determinata epoca, sempre nel binario costituito da quelli fondamentali iscritti nella Costituzione e nelle altre fonti, anche sovranazionali, alla stessa coordinate. Deriva da tale impostazione che il valore morale o sociale del motivo che ha determinato la condotta illecita va apprezzato sul piano oggettivo sia nel senso che esso deve essere considerato come tale, non da ambienti sociali circoscritti sul piano culturale, ideologico od anche territoriale, ma dalla prevalente coscienza collettiva espressione della comunità cfr. Sez. 6, n. 11878 del 20/01/2003, Vigevano, Rv. 224077 sia nel senso che non rileva il piano, puramente soggettivo, costituito dall’idea sviluppata dall’agente, fermo restando che, quando il valore morale e sociale sia obiettivamente tale per la coscienza collettiva, l’agente abbia compiuto il reato per essere stato effettivamente spinto ad agire dal motivo radicato in quel valore. Si è pertanto specificato che, ai fini dell’integrazione della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale, non basta l’intima convinzione dell’agente di perseguire un fine moralmente apprezzabile, ma è necessaria anche l’obiettiva rispondenza del motivo perseguito a valori etici o sociali effettivamente apprezzabili e, come tali, riconosciuti preminenti dalla collettività, sicché tale attenuante non può trovare applicazione se il fatto di particolare valore morale o sociale esiste soltanto nell’opinione del soggetto attivo del reato v. sull’argomento Sez. 2, Sentenza n. 197 del 07/12/2016, dep. 2017, Dolce, Rv. 268779 nonché Sez. 1, n. 20443 del 08/04/2015, Nobile, Rv. 263593, che richiama anche la disciplina prevista dall’art. 59, cod. pen. in base a cui le circostanze aggravanti ed attenuanti devono essere considerate e applicate per le loro connotazioni di oggettività . La netta distinzione logica fra il particolare valore morale o sociale del motivo che ha determinato l’azione antigiuridica e l’accertata illiceità penale dell’azione stessa rende chiaro che l’approvazione della coscienza collettiva che rende giuridicamente rilevante il primo deve inerire - sempre e soltanto - al motivo, non alla condotta, in thesi sanzionata dalla norma incriminatrice. Nella complessa valutazione da compiersi, poi, rileva verificare quale sia stato il mezzo prescelto al fine perseguito cfr. Sez. 1, n. 11236 del 27/11/2008, dep. 2009, Rv. 243220, che ne esclude la ricorrenza quando i motivi dedotti siano di scarsa rilevanza rispetto alla gravità del reato commesso , tantò più quando l’obiettivo della condotta sia identificato nel sacrificio estremo della vita della vittima. Del pari, va verificato se nel determinismo generatore della condotta antigiuridica all’addotto motivo avente valore morale o sociale si siano affiancati, anche in modo implicito, concorrenti interessi di natura lato sensu egoistica. 4. In questa cornice, con specifico riferimento all’omicidio perpetrato per pietà verso il congiunto gravemente sofferente, è da riflettere come sia stata già esclusa la riconoscibilità dell’attenuante in parola. Si è, in particolare, ritenuto che essa non può essere riconosciuta all’omicida del coniuge affetto da grave malattia, il cui movente sia stato quello di porre fine a una vita di strazi, in quanto dall’azione criminosa non esula la finalità egoistica di trovare rimedio alla sofferenza, consistente nella necessità di accudire un malato grave ridotto in uno stato vegetativo Sez. 1, n. 47039 del 11/12/2007, Mancini, Rv. 238169 . In tempi meno recenti, ma con considerazioni che non appaiono superate attesa la persistente sussistenza di opposte visioni nell’attuale coscienza sociale della comunità, si è evidenziato che, dovendo - i motivi considerati - corrispondere a finalità, principi, criteri che ricevano l’incondizionata approvazione della società in cui agisce chi tiene la condotta criminosa ed in quel determinato momento storico per il loro valore morale o sociale particolarmente elevato, in modo da sminuire, senza eliderla, l’antisocialità dell’azione criminale e da riscuotere il consenso della collettività, con riferimento all’eutanasia, le discussioni esistenti sulla condivisibilità della relativa condotta, fanno persistere la valutazione della mancanza di un suo generale attuale apprezzamento positivo, risultando anzi ampie correnti di opinione che la contrastano nella società contemporanea situazione che impone di escludere l’evenienza della generale valutazione positiva da un punto di vista etico-morale condizionante la qualificazione del motivo come di particolare valore morale e sociale cfr. Sez. 1, n. 2501 del 07/04/1989, dep. 1990, Billo, Rv. 183422, in fattispecie in cui l’imputato aveva ucciso la moglie gravemente inferma e si doleva del mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62, primo comma, n. 1 cod. pen. asserendo di aver agito solo per porre fine alle sofferenze della moglie . Posto ciò, è, in primo luogo, da osservare che, nel caso di specie, la doglianza non riesce a scardinare in modo persuasivo l’apparato argomentativo che caratterizza la sentenza impugnata nella parte in cui esclude che il movente che ha animato il V. possa essere individuato nella sua propria grave condizione psico-fisica coniugata alla preoccupazione che, paventando come imminente la sua fine o comunque l’impossibilità di continuare ad accudire la consorte, a tanto avrebbe dovuto provvedere sua figlia S. , che aveva la sua famiglia. I giudici di appello hanno spiegato, con motivazione congrua e logicamente limpida, come tale incensurabile in sede di legittimità, perché tale prospettazione non trovi riscontro probatorio, alla luce delle stesse dichiarazioni rese dal V. nell’immediatezza del fatto, che non hanno contemplato affatto alcun accenno alla condizione in cui si sarebbe venuta a trovare la figlia. A parte quanto precede, è poi da aggiungere che, in relazione al parametro normativo come in precedenza richiamato, la preoccupazione per la situazione complessa in cui si sarebbe venuta a trovare la figlia, per dover badare contemporaneamente alla sua famiglia ed alla B. , per il fatto che il V. non aveva la possibilità di ricoverare la moglie in una struttura assistenziale e, si desume, escludesse che l’assistenza pubblica in loco potesse intervenire utilmente, integra - senza alcuna sottovalutazione della gravità delle condizioni dell’inferma e delle ripercussioni che in ambito familiare esse generavano - una situazione obiettivamente inidonea a determinare, quale motivo di particolare valore morale o sociale, la decisione di sopprimere la consorte. Appare, invero, conforme a massima di comune esperienza escludere che la dedotta consapevolezza della carenza di pubbliche strutture assistenziali idonee a coadiuvare la famiglia nell’assistenza di congiunti gravemente ammalati, pur senza possibilità di remissione del quadro patologico, commista alla preoccupazione di gravare sulla vita di altri congiunti, pure moralmente e giuridicamente obbligati verso la persona malata, possa generare - secondo la coscienza etico-sociale prevalente nella collettività - la spinta volta a sopprimere la vita dell’infermo quale motivo di particolare valore morale o sociale. Quanto, poi, alla diversa pulsione a base dell’avvenuta azione omicida, di cui pure si sono occupate in modo conforme, con diffusi e precisi argomenti, entrambe le sentenze di merito, ossia quella più francamente adesiva all’omicidio per pietà del congiunto, va premesso che il senza dubbio drammatico e disperato contegno serbato dal V. si è fondato - quanto all’opinione secondo cui la consorte avrebbe preferito essere trovata una mattina morta nel suo letto a cagione delle sofferenze che pativa - sul convincimento maturato, certo in ragione della situazione vissuta in posizione infungibile, dall’imputato, ma senza alcuna altra acquisizione probatoria idonea a confortare questo convincimento. Orbene, su tale versante, la situazione di fatto analiticamente vagliata ha condotto la Corte territoriale a ritenere, in adesione alle diffuse considerazioni svolte dal primo giudice, che nella specie non si sia avuta una condotta animata da un movente di valore morale o sociale particolarmente elevato, che fosse idoneo a sminuire l’antisocialità dell’azione omicida. Pertanto, incensurabile deve ritenersi l’approdo esposto dalla Corte di appello secondo cui la determinazione - pur difficile e disperata - assunta dal V. di sopprimere la consorte, gravemente malata, non può riconoscersi nemmeno sotto questo profilo essere stata l’esito di un motivo avente particolare valore morale o sociale. 5. Queste considerazioni impongono, in definitiva, di pervenire al rigetto dell’impugnazione. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.