La “prassi diffusa” del comportamento contra legem non esclude il reato di peculato

In tema di peculato anche riconoscendo l’esistenza di una prassi diffusa” o di un vero e proprio sistema” che tollerasse l’attività oggetto di contestazione, deve ritenersi che si tratti di prassi o sistema contrario alla legge, a fronte del quale il pubblico dipendente doveva astenersi dal comportamento ed acquisire le informazioni necessarie circa la legittimità dell’attività svolta.

Così la Cassazione con sentenza n. 2685/18 depositata il 22 gennaio. La vicenda. Il ricorso oggetto di contestazione trae origine dalla sentenze di merito, di entrambi i gradi di giudizio, con le quali l’imputato veniva ritenuto responsabile per vari episodi di peculato. Nella specie veniva condannato per essersi appropriato, quale dipendente del Comune, di marche da bollo o del denaro necessario all’acquisto delle stesse, ricevuti da privati per il rilascio di licenze o concessioni. Nel ricorre in Cassazione contro la decisione di merito, il condannato denuncia un vizio di motivazione circa alla ritenuta responsabilità sostenendo che sussisteva nell’ufficio in cui lavorava una consolidata prassi” che giustificava il suo comportamento, pacificamente praticata da tutti i colleghi di ufficio e non contrastata né vietata da disposizione scritte o verbali. Prassi diffusa, ma contra legem. La Cassazione si è espressa sull’inammissibilità del ricorso, ritenendo che nella valutazione dei Giudici di merito è stata correttamente esclusa l’esistenza di una prassi che autorizzasse il comportamento dell’imputato, stante, piuttosto, il problema inverso circa il non operare controlli sull’operato degli impiegati da parte del Comune. In ogni caso il Supremo Collegio osserva che anche riconoscendo l’esistenza di una prassi diffusa” o di un vero e proprio sistema” che tollerasse l’attività oggetto di contestazione , deve ritenersi che si tratti di prassi o sistema contra legem , a fronte del quale il pubblico dipendente doveva astenersi dal comportamento ed acquisire le informazioni necessarie in merito alla legittimità dell’attività svolta, in modo da adempiere a quell’onere informativo che può rendere scusabile l’errore sulla legge penale . Nella fattispecie non è quindi accettabile la giustificazione del ricorrente circa il fatto che il comportamento non fosse contrastato o vietato. Per queste ragioni la Corte ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 25 ottobre 2017 – 22 gennaio 2018, n. 2685 Presidente Carcano – Relatore Calvanese Ritenuto in fatto 1. D.L.N.D. chiede l’annullamento della sentenza indicata in epigrafe che ha riformato, quanto alla pena accessoria che ha ridotto, la sentenza del Tribunale di Pesaro che lo aveva condannato per vari episodi di peculato. All’imputato era stato contestato di essersi appropriato, quale dipendente del Comune di Fano, addetto al settore attività economiche, di marche da bollo o del denaro necessario all’acquisto delle stesse, ricevuti da privati per il rilascio di licenze di commercio o concessioni di posteggio in aree pubbliche. 2. Il ricorrente, nel chiedere l’annullamento della suddetta sentenza o, in subordine alla rideterminazione della pena nei minimi edittali, con i benefici di legge, deduce i motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, disp. att. cod. proc. pen. - vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità, non avendo la Corte di appello fornito adeguata e logica risposta al rilievo contenuto nel gravame circa la sussistenza sino all’aprile 2011 nell’ufficio al quale era addetto l’imputato di una consolidata prassi, alla quale questi si era attenuto, prassi, non contrastata né vietata da disposizioni scritte o verbali, che la dirigente aveva modificato un mese prima dei fatti organizzando una apposita riunione , ovvero in un periodo in cui l’imputato era assente per infortunio, e in ordine alla circostanza che il ricorrente fosse inviso all’Ufficio a causa delle sue precarie condizioni fisiche che avevano determinato vari periodi di assenza dal lavoro la sentenza avrebbe omesso ogni valutazione circa la utilizzabilità della documentazione acquisita in assenza del ricorrente sul posto di lavoro e della attribuibilità al ricorrente delle pratiche acquisite avrebbe fondato la prova della responsabilità del ricorrente su prove prive di certezza e su dichiarazioni, neppure univoche, e comunque provenienti dai superiori e dai colleghi di questi, interessati a scaricare su di lui ogni responsabilità in ordine ad un andazzo che si era perpetrato per anni nell’ufficio - vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità, in relazione alla omessa valutazione da parte della Corte di appello della prassi pacificamente praticata da tutti i colleghi di ufficio del ricorrente - vizio di motivazione e violazione di legge in relazione al dolo, tenuto conto che il ricorrente aveva operato nella convinzione della legittimità del suo comportamento, stante la pacifica prassi invalsa nell’Ufficio e la finalità perseguita dal ricorrente di voler agevolare gli utenti nella presentazione delle pratiche, senza alcuna finalità di lucro, e non per arrecare un danno all’Ente - vizio di motivazione e violazione di legge in relazione alla mancata applicazione dell’ipotesi prevista dal secondo comma dell’art. 314 cod. pen., alla luce del comportamento del ricorrente, nell’essersi subito presentato all’Ufficio, restituendo le marche da bollo. Considerato in diritto 1. Il ricorso va dichiarato inammissibile per le ragioni di seguito indicate. 2. Quanto alle censure versate nel primo, secondo e terzo motivo, relative alla dedotta prassi esistente nell’ufficio del ricorrente, la Corte di appello affronta adeguatamente la questione. Va evidenziato in primo luogo che la sentenza impugnata ha escluso l’esistenza di una prassi che autorizzasse il comportamento dell’imputato le pratiche dovevano essere dotate di marca da bollo indipendentemente dal risultato e l’ufficio non prevedeva comunque la riscossione di contanti, essendo stato in ogni caso vietato da tempo in modo espresso agli impiegati di ricevere denaro. Vi era piuttosto una prassi di non operare controlli sull’operato degli impiegati e l’unica novità intervenuta un mese prima dell’episodio dell’aprile 2011 era stata la direttiva della dirigente di pretendere prima di firmare le pratiche che le stesse fossero complete di marca, il che aveva indotto il ricorrente a reperire, come dimostrato dalla marca trovata nel suo cassetto, marche già usate. Sotto altro verso, va rilevato che la stessa tesi della dedotta prassi risulta priva di rilevanza quanto alle conseguenze che vorrebbe trarne il ricorrente in punto di responsabilità, come si avrà di precisare nel paragrafo che segue. La Corte di appello risponde ampiamente anche sulla tesi del complotto e sulla buona fede dei colleghi, rivelandosi quindi le relative censure aspecifiche. In ordine alla utilizzabilità della documentazione acquisita, i rilievi non si correlano alla motivazione la Corte di appello argomenta, pratica per pratica, la attribuibilità delle stesse al ricorrente , oltre ad essere intrinsecamente generici, quanto alle modalità di acquisizione. Relativamente infine alla consistenza del compendio probatorio, le critiche sono anch’esse generiche e riprendono argomenti sui quali si è già detto. 3. Quanto al dolo, devono richiamarsi le osservazioni sopra avanzate in ordine alla dedotta esistenza di prassi. In ogni caso, anche riconoscendo l’esistenza di una prassi diffusa o, addirittura, di un vero e proprio sistema che tollerasse l’attività oggetto di contestazione, deve ritenersi che si sia trattato di una prassi e di un sistema contra legem, a fronte dei quali il pubblico dipendente, o comunque la persona addetta ad un pubblico servizio, doveva astenersi dal porre in essere comportamenti dubbi ed acquisire le necessarie informazioni ed assicurazioni circa la legittimità dell’attività svolta non essendo sufficiente, come deduce il ricorrente, che la prassi fosse non contrastata o vietata da disposizioni verbali o scritte , in modo da adempiere a quell’onere informativo che può rendere scusabile l’errore sulla legge penale Sez. 3, n. 33039 del 04/11/2015, dep. 2016, Guardigni, Rv. 268120 . Le restanti critiche versate nel motivo si diffondono in argomentazioni di precluso merito, collocandosi pertanto al di fuori del perimetro del controllo di legittimità. 4. Quanto all’ultimo motivo, anche a voler tacere dell’assoluta genericità dell’appello sul punto Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268822 , la Corte di appello ha correttamente escluso l’uso momentaneo, posto che tale tesi non trovava alcun appiglio in fatto quanto alle marche da bollo sia in diritto quanto al denaro, Sez. 6, n. 49474 del 04/12/2015, Stanca, Rv. 266242 . 5. Sono all’evidenza infine non consentite le richieste finali del ricorrente per la rideterminazione della pena nei minimi edittali, con la concessione dei benefici di legge. 6. Alla declaratoria di inammissibilità segue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento a favore della cassa delle ammende della somma a titolo di sanzione pecuniaria, che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo quantificare nella misura di Euro 2.000. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della cassa delle ammende.