La completa omissione nella tenuta delle scritture contabili obbligatorie non è reato

Non può essere ricondotta al reato di cui all’art. 10 d.lgs. n. 74/2000 la condotta dell’imputato che abbia completamente omesso la tenuta delle scritture contabili obbligatorie.

Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 1441/18, depositata il 15 gennaio. Il caso. Il Tribunale di Brindisi condannava un imputato per il reato di cui all’art. 10 d.lgs. n. 74/2000 in quanto, in qualità di amministratore unico di una s.r.l., al fine di evadere le imposte, occultava le scritture contabili e i documenti obbligatori impedendo così la ricostruzione del volume d’affari della società. A seguito della conferma della condanna in seconde cure, l’imputato ricorre in Cassazione dolendosi della contradditorietà e illogicità della motivazione. In relazione alla prova della pregressa istituzione delle scritture contabili obbligatorie, la Corte aveva assunto a fondamento della decisione l’esistenza di due sole lettere di intenti riconducibili alla holding, ma in realtà il registro delle dichiarazioni d’intento non era mai stato istituito, con la conseguenza che la condotta può essere ricondotta solo al piano dell’illecito amministrativo. Tassatività della legge penale. La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso, ricostruisce l’ambito applicativo dell’art. 10 d.lgs. n. 74/2000 alla luce del principio di tassatività della legge penale, affermando che la condotta sanzionata è solo quella espressamente contemplata dalla norma e, dunque, l’occultamento o la distruzione delle scritture contabili obbligatorie ma non la loro mancata tenuta che il legislatore ha espressamente sanzionato in via amministrativa con l’art. 9, comma 1, d.lgs. n. 471/1997. Gli Ermellini escludono così la possibilità di un’interpretazione estensiva della norma applicata e accolgono il ricorso, annullando con rinvio la sentenza impugnata.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 12 luglio 2017 – 15 gennaio 2018, n. 1441 Presidente Cavallo – Relatore Andreazza Ritenuto in fatto 1. A.A. ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello di Lecce in data 30/05/2016 di conferma della sentenza del Tribunale di Brindisi quanto alla condanna per il reato di cui all’art. 10 del d.lgs. n. 74 del 2000 perché, nella sua qualità di amministratore unico e legale rappresentante della Holding s.r.l. , al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, occultava le scritture contabili ed i documenti di cui era obbligatoria la tenuta e la conservazione in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi e del volume di affari dell’impresa, che aveva effettuato attività commerciale di prodotti alcolici. 2. Con un primo motivo di ricorso lamenta la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in punto di prova della pregressa istituzione delle scritture contabili, desunta dall’esistenza di lettere di intenti, riconducibili alla Holding, nelle quali la stessa si accreditava come esportatrice abituale di alcolici per beneficiare del regime di sospensione di imposta in presunti traffici intracomunitari, esistenza ritenuta dalla sentenza come non contestata dal ricorrente nonostante la stessa Corte abbia poi dovuto argomentare per contrastare l’assunto difensivo circa la falsità materiale pervenendo a ritenere invece detta falsità come ideologica di quelle stesse lettere. 3. Con un secondo motivo lamenta l’erronea applicazione dell’art. 10 del d.lgs. n. 74 del 2000 giacché, anche a volere ritenere attribuibili all’imputato le predette dichiarazioni d’intenti, le stesse sarebbero state erroneamente ricondotte nella categoria dei documenti contabili che per legge si ha l’obbligo di formare e conservare e che consentono la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari, essendo peraltro tali dichiarazioni diverse dal registro delle dichiarazioni d’intento, nella specie non risultante istituito, per il quale si potrebbe invece pervenire a diversa conclusione peraltro solo sul piano della illiceità amministrativa. 4. Con un terzo motivo lamenta la violazione dell’art. 10 del d.lgs. n. 74 del 2000 nonché vizio di motivazione in punto di sussistenza del dolo specifico. Deduce che la sentenza impugnata avrebbe utilizzato a tal fine dichiarazioni, già valorizzate dalla Corte di cassazione nell’ambito del relativo procedimento cautelare, in realtà non utilizzabili perché mai acquisite al fascicolo per il dibattimento e avrebbe poi desunto la esistenza della contabilità da un volume di affari in realtà valutato dalla stessa sentenza come mai accertato nel processo e, infine avrebbe desunto l’elemento del dolo specifico dalla sola circostanza oggettiva della mancata consegna divenuta occultamento dei documenti ai funzionari della Dogana. Considerato in diritto 1. Il primo e pregiudiziale motivo di ricorso è fondato. Va anzitutto ribadito, in adesione al più recente e prevalente orientamento di questa Corte, la cui forza cogente deriva dalla necessaria conformazione della interpretazione del dettato dell’art. 10 del d.lgs. n. 74 del 2000 al principio di tassatività della legge penale, che la condotta sanzionata dall’art. 10 del d.lgs. n. 74 del 2000 è solo quella, espressamente contemplata appunto dalla norma, di occultamento o distruzione delle scritture contabili obbligatorie e non anche quella della loro mancata tenuta, espressamente sanzionata in via meramente amministrativa dall’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997 vedi, in conformità a Sez. 3, n. 38224 del 07/10/2010, dep. 28/10/2010, P.M. in proc. Di Venti, Rv. 248571 nonché a Sez. 3, n. 28581 del 03/06/2015, dep. 06/07/2015, Ranedda, non massimata, le successive Sez. 3, n. 19106 del 02/03/2016, dep. 09/05/2016, Chianese e altro, Rv. 267102 e Sez. 3, n. 28048 del 17/02/2017, dep. 07/06/2017, Maniaci, non massimata contra, isolatamente, Sez. 3, n. 28656 del 04/06/2009, dep. 14/07/2009, Pacifico, Rv. 244583 . Consegue a quanto appena detto che in tanto può essere configurata la fattispecie delittuosa di cui all’art. 10 cit. in quanto la documentazione contabile, di cui si assume l’occultamento o la distruzione, sia stata previamente istituita non potendo occultarsi o distruggersi ciò che evidentemente neppure esiste . Ciò posto, nella specie, al fine di ritenere sussistente tale necessario presupposto la sentenza, che peraltro, menzionando espressamente l’isolato precedente di questa Corte appena sopra ricordato, parrebbe propendere per la lettura estensiva della norma1 tuttavia da ripudiarsi per le ragioni sopra rammentate, ha fornito, da un lato, una spiegazione manifestamente illogica e, dall’altro, ha utilizzato elementi che, formati nelle indagini preliminari, non potevano, in mancanza di spiegazioni ulteriori, essere poste alla base dell’affermazione di responsabilità, come correttamente denunciato in ricorso. Infatti, mentre la puntualizzazione effettuata dalla sentenza in ordine al fatto che la società avesse un volume d’affari nulla può evidentemente dire sulla avvenuta istituzione della contabilità a tacere della sua desumibilità da lettere d’intenti che la stessa sentenza pare qualificare, a pag. 7, come ideologicamente false , non si comprende in che modo le dichiarazioni rese all’Agenzia delle entrate dall’indagato, che, peraltro, dapprima affermò avere istituito regolarmente la contabilità e successivamente, ritrattando, ebbe a dichiarare il contrario, potessero, in mancanza del transito delle stesse, anche per il tramite di dichiarazioni testimoniali sul punto, di cui nulla viene detto in sentenza, al fascicolo del dibattimento, essere legittimamente utilizzate. Né, evidentemente, il fatto che tali dichiarazioni siano state a suo tempo poste in rilievo da questa Corte nell’ambito della trattazione di ricorso cautelare personale dell’odierno ricorrente nel quale nessuna questione poteva porsi circa la legittima utilizzazione in giudizio delle stesse poteva esimere la Corte territoriale che non ha neppure spiegato perché, a fronte della divergenza interna, dovesse privilegiarsi la ritrattazione delle prime dichiarazioni dalla necessità di verificare il corretto iter di formazione della prova nel dibattimento. In definitiva, dunque, fondato il primo motivo, in esso assorbiti i restanti, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo esame alla Sezione promiscua della Corte d’appello di Lecce. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Sezione promiscua della Corte d’Appello di Lecce.