Convivenza sporadica: marito violento comunque condannato per maltrattamenti in famiglia

Irrilevante per i giudici il fatto che i soprusi compiuti dall’uomo sulla moglie si siano verificati a distanza l’uno dall’altro. Inutile anche il richiamo difensivo al dato della convivenza coniugale, ridotta a due mesi l’anno per le assenze del marito.

Convivenza ridotta per i coniugi. Lui è spesso all’estero per lavoro, e così condivide lo stesso tetto con la moglie per appena due mesi l’anno. Ciò nonostante, i soprusi compiuti dall’uomo ai danni della consorte sono comunque qualificabili come maltrattamenti in famiglia”. Irrilevante, secondo i Giudici, il fatto che le vessazioni, le minacce, le lesioni si siano verificate in periodi diversi, e mai in rapida successione temporale Cassazione, sentenza n. 56961/17, sez. VI Penale, depositata oggi . Violenza. Nessun dubbio hanno espresso i Giudici del Tribunale e quelli della Corte d’Appello l’uomo viene condannato a due anni e sei mesi di reclusione per avere maltrattato la moglie. In particolare, è emerso che la donna veniva colpita con continui calci, pugni e schiaffi, e, in un caso, con l’uso di un coltello da cucina, ingiuriata e minacciata di morte , e in un drammatico episodio il marito ha tentato di scaraventarla giù dal balcone, dopo averla percossa alla presenza dei figli minori . A fronte di questo quadro – poggiato sulle dichiarazioni della vittima e di alcuni testimoni –, il legale dell’uomo sostiene che non si possa parlare di maltrattamenti in famiglia , essendo mancata l’abitualità delle condotte . Su questo fronte, in particolare, viene evidenziato che sin dall’inizio il marito lavorava all’estero, facendo ritorno a casa, dopo lunghe assenze, per brevi periodo , e viene aggiunto che la coppia era vissuta separata dapprima di fatto e quindi legalmente per oltre un anno e mezzo. Seguendo questa prospettiva, il legale sottolinea che ogni atto di violenza è intervenuto a lunghissima distanza temporale dal precedente e afferma che, di conseguenza, è mancata nel suo cliente la consapevolezza di porre in essere un sistema di condotte diretto alla umiliazione della moglie . Tempo. Il castello difensivo viene però demolito dai giudici della Cassazione, che condividono, senza tentennamenti, la condanna decisa in Appello. Per il marito violento, quindi, confermata la condanna a trenta mesi di carcere. I Magistrati del Palazzaccio, rispondendo alle obiezioni proposte dal legale, chiariscono che i maltrattamenti in famiglia sono compatibili con l’esistenza tra i singoli atti di sopraffazione e violenza di un intervallo temporale che nel suo cadenzato riproporsi risulti giustificato dal peculiare atteggiarsi della relazione di convivenza, senza perciò sciogliere il legame obiettivo e soggettivo tra gli episodi . Poi i Giudici osservano che può ben verificarsi, per esigenze lavorative e di vita rispondenti alla pluralità dei modelli propri della famiglia, il rinnovato intervallarsi di convivenze alternate a periodi di allontanamento . Ciò significa, analizzando da vicino la vicenda, che, come già sancito in Appello, sono da considerare ininfluenti i lunghi periodi di permanenza del marito all’estero per ragioni di lavoro e la convivenza tra i coniugi limitata, nel complesso, a un paio di mesi l’anno resta evidente, secondo i giudici, l’abitualità delle condotte violente tenute dall’uomo e riproposte a ogni rientro in famiglia . Peraltro, viene anche rilevato che i soprusi subiti dalla donna si sono concretizzati de visu e tramite messaggi con espressioni pesanti e minacce di morte e con atteggiamenti violenti . E per quanto riguarda la successione temporale degli episodi più gravi, vengono richiamate l’aggressione del maggio 2011, quella del luglio 2013 col tentativo del marito di scaraventare la moglie giù dal balcone e quella del settembre 2013 . Legittimo, sanciscono i Giudici della Cassazione, parlare di maltrattamenti in famiglia .

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 19 ottobre – 20 dicembre 2017, n. 56961 Presidente Conti – Relatore Scalia Ritenuto in fatto 1. La Corte di appello di Napoli, con la sentenza in epigrafe indicata, ha confermato quella con cui il locale Tribunale aveva condannato l'imputato, Da. Fo., alla pena di due anni e sei mesi di reclusione, per i reati di maltrattamenti in famiglia e lesioni aggravate, commessi in danno della moglie, colpita con continui calci, pugni e schiaffi, ed in un caso con l'uso di un coltello da cucina, ingiuriata e minacciata di morte e che il marito, in un contestato episodio, tentava di scaraventare giù dal balcone dopo averla percossa alla presenza dei figli minori. 2. Ricorre in cassazione avverso l'indicata sentenza, il difensore di fiducia dell'imputato che chiama la Corte di legittimità ad annullare l'impugnata sentenza, articolando quattro motivi. 2.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione, fino all'apparenza, per avere la Corte di appello riconosciuto piena attendibilità alla persona offesa, costituita parte civile, nel contrasto tra dichiarazioni rese in dibattimento, come comprovato dai verbali allegati al ricorso art. 606, comma 1, lett. e , cod. proc. pen., in relazione agli artt. 192, cod. proc. pen. e 125, comma 3, cod. proc. pen. . Sarebbe mancato il controllo di attendibilità della teste nelle penetranti forme richieste dalla giurisprudenza di legittimità, esigenza ancora più pressante ove si tratti di moglie separata e come tale portatrice di rancori e desideri di vendetta maturati in quell'unicità di contesto che l'aveva determinata a richiedere la separazione personale. 2.2. Con il secondo motivo si deduce ancora vizio di motivazione per mancato ed erroneo inquadramento delle condotte ritenute nella fattispecie dei maltrattamenti in famiglia art. 606, comma 1, lett. e , cod. proc. pen., in relazione agli artt. 125, comma 3, cod. proc. pen. e 572 cod. pen. . Poiché sin dall'inizio della vita coniugale l'imputato lavorava all'estero, facendo ritorno a casa, dopo lunghe assenze, per brevi periodi e poiché la coppia era vissuta separata, dapprima di fatto e quindi legalmente, tra il maggio del 2011 ed il 31 dicembre 2012, sarebbe mancata l'abitualità delle condotte, estremo integrativo del reato di maltrattamenti in famiglia. La breve riconciliazione tra i coniugi intervenuta tra la fine del 2012 ed il luglio del 2013 e gli episodi occorsi alla moglie, ed enfatizzati in sentenza, nel periodo, non sarebbero valsi a dare conto della configurabilità del reato. 2.3. Con il terzo motivo di ricorso si fa valere la nullità per difetto di motivazione relativamente al dolo di maltrattamenti art. 606, comma 1, lett. e , cod. proc. pen., in relazione agli artt. 572 e 42 cod. pen. . Sarebbe mancato l'apprezzamento del necessario dolo programmatico a sostegno della pluralità degli atti lesivi della personalità della vittima, nella consapevolezza dell'agente, in ragione della reiterazione delle condotte, di porre in essere un'attività oppressiva e prevaricatrice. L'evidenza che ogni atto di violenza intervenisse a lunghissima distanza temporale dal precedente avrebbe invece sostenuto la non consapevolezza dell'imputato di porre in essere un sistema di condotte diretto alla umiliazione della moglie, valendo piuttosto il comportamento del primo quale mera reazione a provocazioni della persona offesa, donna che si sarebbe rivelata tutt'altro che succube all'interno di un sistema di reciproche vessazioni tra i coniugi, determinate dall'ossessiva gelosia della moglie. 2.4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la nullità della sentenza per omessa motivazione sulla richiesta di sostituzione della pena detentiva con la misura della semidentenzione art. 606, comma 1, lett. e , cod. proc. pen., in relazione all'art. 125, comma 3, cod. proc. pen. ed all'art. 53 legge n. 689 del 1981 . Considerato in diritto 1. I motivi proposti non sono fondati ed il ricorso deve essere rigettato. 2. Vanno congiuntamente trattati il primo, il secondo ed il terzo motivo di ricorso, diretti a contestare della sentenza impugnata il formulato giudizio di sussistenza degli estremi, obiettivi e soggettivi, del reato di maltrattamenti in famiglia in ragione dei raccolti esiti di prova. 3. Il reato di maltrattamenti in famiglia è un reato abituale essendo costituito da una pluralità di fatti commessi reiteratamente dall'agente con l'intenzione di sottoporre il soggetto passivo a sofferenze fisiche e morali, per una serialità minima in cui ogni condotta successiva si riallaccia alla precedente dando vita ad un illecito strutturalmente unitario Sez. 6, n. 2359 del 09/12/1969, dep. 1970, Fl., Rv. 113944 Sez. 6, n. 52900 del 04/11/2016, P., Rv. 268559 . La serie minima integrativa dell'abitualità della condotta non è incompatibile con l'esistenza tra i singoli atti di sopraffazione e violenza di un intervallo temporale che nel suo cadenzato riproporsi risulti giustificato dal peculiare atteggiarsi della relazione di convivenza senza, per ciò stesso, sciogliere il legame obiettivo e soggettivo tra i singoli episodi. Può ben verificarsi, per esigenze lavorative e di vita rispondenti alla pluralità dei modelli propri della famiglia, il rinnovato intervallarsi di convivenze alternate a periodi di allontanamento, dovendo in tal caso scrutinarsi, ai fini dell'integrazione dei maltrattamenti, la configurabilità della serie integrativa del reato nei periodi di convivenza. La Corte territoriale di Napoli ha fatto buon governo dell'indicato principio. Con motivazione rispettosa dei canoni di logica, che non tradisce contraddizioni o manifeste illogicità, i giudici di appello hanno ritenuto la non influenza dei lunghi periodi di permanenza all'estero dell'imputato per ragioni di lavoro - la convivenza tra i coniugi era limitata, nel complesso, ad un paio di mesi l'anno - ad escludere la serie minima dell'abitualità del reato, nell'apprezzato rinnovato riproporsi delle condotte ad ogni rientro in famiglia del prevenuto. In siffatto quadro la dedotta separazione tra i coniugi dal maggio 2011 al 31 dicembre 2012, intervallata da una breve riconciliazione, è stata poi congruamente ritenuta come non idonea a definire l'insussistenza dell'abitualità della condotta già ravvisata negli episodi antecedenti e successivi alla separazione. Là dove la pluralità dei fatti, in sé idonea ad integrare la struttura del reato di maltrattamenti, si esaurisca per poi manifestarsi di nuovo, la consistenza dello iato temporale intercorrente tra le due serie di condotte non ha rilievo al fine di escludere, di ciascuna, la prescritta abitualità. L'interruzione può valere, al più, infatti, ove risulti notevolmente dilatata nel tempo, a far ritenere, delle distinte serie, la natura di due autonomi reati di maltrattamenti in famiglia, eventualmente uniti dal vincolo della continuazione nella sussistenza del medesimo disegno criminoso in termini, al fine di scrutinare l'applicabilità al reato dell'istituto della prescrizione, Sez. 6, n. 2359 del 09/12/1969, dep. 1970, Fl., Rv. 113944 e, ancora, sulla struttura in genere del reato, Sez. 6, n. 4636 del 28/02/1995, Ca., Rv. 201148 . Dell'indicato principio la Corte di appello ha fatto efficace applicazione, valorizzando, come idonee ai fini dell'abitualità, tanto le condotte antecedenti all'interruzione della convivenza che quelle successive alla sua ripresa, relegando a dato irrilevante il periodo intermedio. Poiché la difesa ha, dal suo canto, mancato di contrastare fondatamente l'affermazione di sussistenza, nelle condotte ritenute, dei minima integrativi dell'abitualità di cui al reato di maltrattamenti in famiglia, l'interruzione della convivenza, sia pure per il dedotto consistente lasso temporale, diviene dato non conducente ai fini voluti. 4. La Corte di appello di Napoli, nel dare pieno governo agli esiti di prova, in cui trovano equilibrata composizione le dichiarazioni dell'offesa, quelle degli altri testi e prove documentali, ha evidenziato, secondo un percorso di crescente rilievo, le continue angherie psicologiche, lesive della dignità di donna, sofferte dalla moglie dell'imputato, Ba. Pi., destinataria de visu e tramite sms di espressioni di pesante contenuto, e quindi le minacce di morte e gli atteggiamenti violenti avuti dal coniuge anche nei confronti dei figli, minori. Per argomentazioni dirette a segnalare un climax di violenze, sono stati indicate dai giudici di appello l'aggressione del maggio 2011, come descritta nella sentenza di primo grado e che portò all'intervento dei carabinieri, quella dell'8 settembre 2013, all'esito della quale la donna subì una contusione cranica minore, per passare attraverso l'episodio, congruamente qualificato nell'impugnata sentenza come drammatico ed allarmante, dell'I 1 luglio 2013 in cui il prevenuto aveva tentato di scaraventare la moglie giù dal balcone, dopo averla malmenata e percossa alla presenza dei bambini terrorizzati. Nell'impugnata sentenza di quelle condotte vengono incisivamente individuate, al fine di segnalare l'integrazione del necessario estremo della sistematicità o abitualità della condotta di maltrattamenti, gli esiti prodotti sui minori. Siffatti esiti, tradottisi nell'angoscia e nei traumi rappresentati nelle relazioni del 'Centro anti-violenze' per l'ivi operato collegamento tra la prostrazione dei figli e la percezione delle condotte aggressive del padre verso la madre e verso gli stessi minori, sono stati congruamente ed ulteriormente riscontrati sulle dichiarazioni testimoniali di terzi e, quindi, sulla riferita diretta visione così il teste Es. , di lividi e morsi sul corpo della donna, e, in una occasione, della paura manifestata dai bambini, mentre la loro madre, chiusa a chiave dentro casa non poteva uscirne. Ogni ulteriore argomento difensivo resta portatore di una alternativa ed implausibile lettura che, ora sostenuta dalla gelosia della donna ora da una reciproca conflittualità di coppia ora comunque da una volontà di minimizzare l'accaduto, viene correttamente indicata in sentenza come manifestamente illogica nel suo autonomo rilievo - tanto valga per l'episodio del balcone e l'asserita volontà, sul punto espressa in ricorso, dell'uomo di cercare in balcone un luogo in cui litigare con la moglie, gelosa, sottraendosi alla presenza dei figli minori ed impedendo ai vicini di essere raggiunti dalle urla - e risulta, comunque, recessiva nel raffronto con la concludenza dei contrari argomenti portati in sentenza. La consapevolezza in capo all'agente di essere portatore di un sistema diretto ad umiliare e sopraffare la vittima, svilita nella sua dignità di persona, è altresì univocamente e congruamente tracciata nell'impugnata sentenza, nella ricostruita obiettività delle condotte, risultando, come tale, infondata ogni altra ricostruzione difensiva che di quella consapevolezza nega la sussistenza. 5. Il quarto motivo di ricorso, con cui si denuncia la nullità della sentenza per mancanza assoluta di motivazione in punto di diniego della sanzione sostitutiva della semidetenzione, è manifestamente infondato. L'art. 53, comma 1, della legge n. 689 del 1981 prevede la misura della semidetenzione nel caso in cui la pena detentiva irrogata non sia superiore ai due anni poiché la pena applicata in primo grado e confermata in appello è pari a due anni e sei mesi, il beneficio non era per legge applicabile. Sull'indicata premessa, vale il principio per il quale il giudice non ha l'obbligo di motivare il diniego di un beneficio quando esso non sia concedibile per difetto dei presupposti di legge in termini, sulla sospensione condizionale della pena Sez. 3, n. 6573 del 22/06/2016, dep. 2017, Ca., Rv. 268947 . 6. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute, nel grado, dalla costituita parte civile, ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, Pi. Ba., con liquidazione e pagamento nei termini indicati in dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, Pi. Ba., ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà separatamente liquidata, disponendo il pagamento di tali spese in favore dello Stato.