Funzioni di controllo e non solo abilitative per l’autorizzazione all’esercizio di impianti produttivi di emissioni

Soltanto dopo aver ottenuto il provvedimento autorizzatorio può affermarsi che sono venute meno le conseguenze pericolose eliminabili dal contravventore.

Procedimento autorizzatorio. Con la sentenza n. 56281 depositata il 18 dicembre 2017, la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione interviene in tema di scarico di acque reflue industriali, affermando il principio in base al quale, considerato che l’autorizzazione all’esercizio di impianti produttivi di emissioni ha funzioni non soltanto abilitative, ma anche di controllo del rispetto della normativa di settore e presuppone, per il rilascio, un procedimento amministrativo complesso, che involge anche aspetti prettamente tecnici, deve escludersi la possibilità di provvedimenti equipollenti o sostitutivi del formale atto autorizzativo. Scarico vietato di acque reflue industriali. Nel caso di specie, il Tribunale territoriale aveva affermato la responsabilità penale del ricorrente in ordine ai reati di cui agli artt. 279, comma 1, prima parte, 269, commi 1 e 8, 103, comma 1 e 11 d.lgs. n. 152/2006 poiché, in qualità di legale rappresentante di una società a responsabilità limitata, esercitava un impianto producente emissioni di atmosfera in assenza della prescritta autorizzazione ed effettuava uno scarico vietato di acque reflue industriali con recapito sul suolo. Tra le doglianze presentate, il ricorrente lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla contravvenzione di cui all’art. 279 d.lgs. n. 152/2006, rilevando che i riferimenti normativi richiamati nell’imputazione riguarderebbero le modifiche sostanziali degli impianti e che, dal tenore della sentenza impugnata, emergerebbe nel caso di specie di trovarsi in ipotesi di impianto esistente e non di impianto nuovo, risultando inoltre l’esistenza di un titolo abilitativo, quale l’autorizzazione di compatibile ambientale. Ciò che porterebbe alla conclusione di una condanna inflitta per un reato in realtà mai commesso. Infine, il ricorrente lamenta analogamente violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla contestazione relativa allo scarico sul suolo. Autorizzazione paesaggistica. Gli Ermellini, sul punto in questione, ribadiscono la correttezza della valutazione del giudice di merito, ritenendo del tutto irrilevante un’autorizzazione paesaggistica che nulla aveva a che vedere con la disciplina dell’inquinamento atmosferico in linea con quanto stabilito nel principio di diritto enunciato e sopra riportato. In effetti, la richiamata autorizzazione di compatibilità ambientale era un’autorizzazione paesaggistica rilasciata ai sensi della legge n. 1497/1939. Al riguardo, i Giudici del Palazzaccio evidenziano che già in precedente decisione della Corte di Cassazione, si era fatto rilevare come nel settore ambientale l’autorizzazione svolga non soltanto una funzione abilitativa, cioè di rimozione di un ostacolo all’esercizio di alcune facoltà, ma assume come si legge nel corpo della sentenza in commento - anche un ruolo di controllo del rispetto della normativa e dei correlati standard e consente il cosiddetto monitoraggio ecologico, sicché la mancanza di detto provvedimento incide su alcuni interessi protetti dal precetto penale Conseguentemente – proseguono i giudici della Corte di Cassazione -, l’omessa valutazione della Pubblica Amministrazione impedisce quella conoscenza ed informazione ambientale e quel controllo sull’attività cui sono deputati il procedimento autorizzatorio e le relative sanzioni in caso di disobbedienza a questi precetti, comportando perciò una effettiva conseguenza pericolosa, in quanto conoscenza ed informazione sono strumenti indispensabili per la prevenzione. In buona sostanza, soltanto dopo aver ottenuto il provvedimento autorizzatorio può affermarsi che sono venute meno le conseguenze pericolose eliminabili dal contravventore. Da qui la necessità del procedimento autorizzatorio e la conseguente esclusione della possibilità di provvedimenti equipollenti o sostitutivi del formale atto autorizzativo. Pertanto i giudici della Corte di Cassazione dichiarano l’inammissibilità del ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 24 ottobre – 18 dicembre 2017, n. 56281 Presidente Fiale – Relatore Ramacci Ritenuto in fatto 1. La Corte di appello di Milano, con sentenza del 14/3/2016 ha confermato la decisione con la quale, in data 27/10/2015, il Tribunale di Sondrio aveva affermato la penale responsabilità di C.C. in ordine ai reati di cui agli artt. 279, comma 1, prima parte, 269, commi 1 e 8, 103, comma 1 e 11 d.lgs. 152/06 perché, quale legale rappresentante della omissis s.r.l. , esercitava un impianto producente emissioni in atmosfera in assenza della prescritta autorizzazione ed effettuava uno scarico vietato di acque reflue industriali con recapito sul suolo fatti accertati in omissis . Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione tramite i propri difensori di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen 2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione dell’art. 585, comma 4 cod. proc. pen. ed il vizio di motivazione, osservando che la Corte territoriale avrebbe erroneamente rilevato la tardività dei motivi nuovi depositati da uno dei difensori, in quanto il termine di legge sarebbe stato rispettato. Aggiunge che la Corte territoriale, pur dichiarando in parte tardivi i motivi nuovi, non avrebbe specificato quali sarebbero quelli depositati fuori termine e quelli, invece, ammissibili, né avrebbe specificato le ragioni di tale valutazione differenziata. 3. Con un secondo motivo di ricorso denuncia il vizio di motivazione, rilevando che i giudici del gravame avrebbero omesso di fornire risposta alle plurime doglianze formulate con l’atto di appello, limitandosi a richiamare i contenuti della decisione appellata. 4. Con un terzo motivo di ricorso lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla contravvenzione di cui all’art. 279 d.lgs. 152/06, rilevando che i riferimenti normativi richiamati nell’imputazione riguarderebbero le modifiche sostanziali degli impianti e che, dal tenore della sentenza impugnata, emergerebbe che, nel caso di specie, si verserebbe in ipotesi di impianto esistente e non di impianto nuovo , sicché la Corte di appello avrebbe dovuto motivare non sull’assenza di autorizzazione, che sarebbe stata conseguita, quanto, piuttosto, sull’adempimento o meno delle incombenze previste dall’art. 269, comma 8 d.lgs. 152/06. Aggiunge di essere stato condannato per un reato in realtà mai commesso, in quanto disporrebbe di un titolo abilitativo e, segnatamente, di una autorizzazione di compatibilità ambientale rilasciata dalla Regione Lombardia che la Corte territoriale ha ritenuto non valida senza specificare compiutamente le ragioni di tale decisione 5. Con un quarto motivo di ricorso deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione, rilevando che, anche per ciò che concerne la contestazione relativa allo scarico sul suolo, la Corte di appello si sarebbe riportata alle considerazioni svolte dal primo giudice e non avrebbe considerato quanto riportato nella consulenza di parte fatta effettuare dalla difesa e riferito dallo stesso consulente nel corso della sua deposizione. Insiste, pertanto, per l’accoglimento del ricorso. 6. In data 30/5/2017 ha depositato motivi nuovi, deducendo la violazione dell’art. 585, comma 4 cod. proc. pen. ed il vizio di motivazione. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. Va osservato, con riferimento al primo motivo di ricorso, che l’art. 585, comma 4 cod. proc. pen., consente, come è noto, la presentazione, nella cancelleria del giudice della impugnazione, di motivi nuovi fino a quindici giorni prima dell’udienza. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte i motivi nuovi a sostegno dell’impugnazione, previsti tanto nella disposizione di ordine generale contenuta nell’art. 585, quarto comma, cod. proc. pen., quanto nelle altre disposizioni che ne prevedono la presentazione, devono avere ad oggetto i capi o i punti della decisione impugnata che sono stati enunciati nell’originario atto di gravame ai sensi dell’art. 581, lett. a , cod. proc. pen. Sez. U, n. 4683 del 25/2/1998, Bono ed altri, Rv. 21025901 e succ. conf., da ultimo, Sez. 2, n. 53630 del 17/11/2016, Braidic, Rv. 26898001 . La Corte di appello ha, nel caso di specie, testualmente affermato, in relazione ai nuovi motivi di appello depositati il 25/2/2016 dall’ALA. Lorenzo GORLA, che tale secondo atto di impugnazione è in parte tardivo e dunque inammissibile nelle questioni nuove proposte nel merito e in relazione a quelle non rilevabili d’ufficio . Tale specificazione, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, è del tutto chiara, poiché è evidente che i giudici del gravame, i quali hanno indicato anche i temi proposti con la nuova impugnazione, nel rilevarne la tardività ed inammissibilità non si sono riferiti al mancato rispetto del termine di cui all’art. 585 comma 4 cod. proc. pen., che, infatti, non menzionano neppure, bensì ai contenuti della nuova impugnazione, laddove introducevano argomenti privi della necessaria connessione funzionale con quelli illustrati nell’impugnazione originaria, limitando così la Corte territoriale la propria cognizione alle sole questioni introdotte con l’appello principale e quelle che è consentito rilevare d’ufficio. Il motivo di ricorso è, pertanto, manifestamente infondato. 2. Altrettanto deve dirsi per ciò che concerne il secondo motivo di ricorso, il quale è connotato da assoluta genericità, avendo il ricorrente lamentato il mancato esame, da parte della Corte territoriale, di tutte le questioni sottoposte alla sua attenzione con l’atto di appello, senza tuttavia indicarle, neppure attraverso un sommario riferimento. Va peraltro rilevato che la sentenza impugnata ha correttamente richiamato i principi fissati da questa Corte in tema di motivazione per relationem , dando compiutamente atto delle conclusioni del primo giudice e precisando che le censure da prendere in considerazione sono soltanto quelle specifiche formulate con l’atto di appello e non anche quelle che si risolvono nella mera riproposizione di questioni già prospettate al primo giudice e da questi compiutamente esaminate. Nel far ciò, la Corte di appello ha agito del tutto correttamente, uniformandosi ad un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato. 3. Anche l’infondatezza del terzo motivo di ricorso risulta di macroscopica evidenza. Il capo di imputazione relativo alla contravvenzione di cui all’art. 279 d.lgs. 152/06 richiama espressamente il comma 1, prima parte di tale disposizione e, a seguire, l’art. 269 commi 1 ed 8 del medesimo decreto. Nel testo è chiaramente indicato che l’impianto, produttivo di emissioni in atmosfera, era in esercizio senza la prescritta autorizzazione. Va tale proposito rilevato, in linea generale, che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, anche l’omessa indicazione degli articoli di legge nell’imputazione sarebbe irrilevante e non determinerebbe alcuna nullità, salvo che non si traduca in una compressione dell’esercizio del diritto di difesa, poiché ciò che rileva è la puntuale indicazione del fatto cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 5469 del 05/12/2013 dep.2014 , Russo, Rv. 25892001 . Nel caso di specie non manca, come si è visto, né l’indicazione del fatto né, tanto meno, quella degli articoli di legge, indicati, semmai, in eccedenza. Invero l’art. 279 d.lgs. 152/06 sanziona, nel comma 1, prima parte, la installazione o l’esercizio di uno stabilimento in assenza della prescritta autorizzazione, ovvero la continuazione di detto esercizio con autorizzazione scaduta, decaduta, sospesa o revocata. L’art. 269, comma 1 del d.lgs. 152/06 stabilisce, salvo le eccezioni espressamente indicate, l’obbligo dell’autorizzazione per tutti gli stabilimenti che producono emissioni. Si tratta, dunque, di disposizioni inequivocabilmente correlate al fatto poi descritto nell’imputazione esercizio dell’impianto senza autorizzazione , sicché risulta ultroneo, ma certamente non fuorviante, stante la precisione della complessiva contestazione, il generico richiamo al comma 8 dell’art. 269, che riguarda il regime autorizzatorio delle modifiche dello stabilimento, non verificatesi nel caso in esame. Ciò che dunque rileva e che i giudici del merito hanno compiutamente e correttamente evidenziato, è la totale assenza di autorizzazione per l’esercizio dell’impianto da parte dell’imputato. 4. Parimenti del tutto prive di pregio sono le ulteriori considerazioni sviluppate in ricorso laddove si afferma che l’impianto sarebbe stato autorizzato in forza di una autorizzazione di compatibilità ambientale rilasciata dalla Regione Lombardia, che, si apprende poi dallo stesso ricorso, essere un’autorizzazione paesaggistica rilasciata ai sensi della legge 1497/39. Vale la pena ricordare, a tale proposito, quanto osservato in una risalente decisione di questa Sezione ove, con argomentazioni tuttora valide, si è fatto rilevare come nel settore ambientale, l’autorizzazione svolga non soltanto una funzione abilitativa, cioè di rimozione di un ostacolo all’esercizio di alcune facoltà, ma assume anche un ruolo di controllo del rispetto della normativa e dei correlati standards e consente il cosiddetto monitoraggio ecologico, sicché la mancanza di detto provvedimento incide su alcuni interessi protetti dal precetto penale. Conseguentemente, l’omessa valutazione della P.A. impedisce quella conoscenza ed informazione ambientale e quel controllo sull’attività cui sono deputati il procedimento autorizzatorio e le relative sanzioni in caso di disobbedienza a questi precetti, comportando perciò una effettiva conseguenza pericolosa, in quanto conoscenza ed informazione sono strumenti necessari per la prevenzione. Pertanto solo dopo aver ottenuto il provvedimento autorizzatorio può affermarsi che sono venute meno le conseguenze pericolose eliminabili dal contravventore Sez. 3, n. 3589 del 13/3/1996, Sacerdote, Rv. 20578101 . Tali considerazioni, espresse, in tema di inquinamento atmosferico, sotto la vigenza dell’ormai abrogato d.P.R. 203/1988, sono condivise dal Collegio e vanno qui ribadite, perché indicano in modo inequivocabile le finalità della procedura autorizzatoria, finalità che risultano di immediata evidenza anche dalla mera lettura delle disposizioni attualmente vigenti. L’articolo 269 d.lgs. 152/06 dispone, infatti, come si è già detto, che per tutti gli stabilimenti che producono emissioni deve essere richiesta un’autorizzazione ed indica, dettagliatamente, i contenuti della domanda, la procedura conseguente, la messa in esercizio e la messa a regime dell’impianto ed il regime delle modifiche degli impianti autorizzati. Precisa, inoltre, che l’autorizzazione deve stabilire, per le emissioni tecnicamente convogliabili, le modalità di captazione e convogliamento e, per le emissioni convogliate, appositi valori limite di emissione e prescrizioni per le emissioni diffuse non tecnicamente convogliabili, l’autorizzazione deve stabilire apposite prescrizioni volte ad assicurarne il contenimento. La complessità del procedimento amministrativo finalizzato al rilascio del titolo abilitativo, disciplinato dall’art. 269, emerge anch’essa dalla mera lettura della disposizione e porta immediatamente ad escludere, se solo si considerano gli aspetti tecnici la cui valutazione precede l’emissione dell’autorizzazione, la validità di atti diversi. 5. Va conseguentemente affermato il principio secondo il quale, considerato che l’autorizzazione all’esercizio di impianti produttivi di emissioni ha funzioni non soltanto abilitative, ma anche di controllo del rispetto della normativa di settore e presuppone, per il rilascio, un procedimento amministrativo complesso, che involge anche aspetti prettamente tecnici, deve escludersi la possibilità di provvedimenti equipollenti o sostitutivi del formale atto autorizzativo. 6. Nel caso di specie, dunque, bene ha fatto la Corte di appello a ritenere del tutto irrilevante un’autorizzazione paesaggistica, che nulla aveva a che vedere con la disciplina dell’inquinamento atmosferico. Risulta inoltre ancor più chiaramente dalla sentenza del Tribunale che nessuna autorizzazione era stata rilasciata, che quelle esibite in giudizio riguardavano tutt’altro impianto e che solo nel 2009 vi era stato un tentativo, da parte del ricorrente, di ottenere un’autorizzazione che, però, gli fu negata. 7. Tali considerazioni valgono anche per ciò che concerne lo scarico di cui tratta il quinto motivo di ricorso, pure manifestamente infondato. I giudici del merito hanno accertato in fatto, attraverso le dichiarazioni degli operanti e le fotografie scattate dagli stessi, la presenza di uno scarico con recapito in una fossa non impermeabilizzata a perdere, effettuato mediante il convogliamento di reflui provenienti dall’impianto di betonaggio che la riempivano per metà. A fronte di ciò la Corte di appello ha correttamente escluso la validità delle allegazioni difensive, che sostenevano l’effettuazione di una lavorazione a ciclo chiuso, chiaramente smentita dall’evidenza dei fatti documentati, dando anche atto delle ragioni per le quali hanno ritenuto non rilevanti le conclusioni del consulente di parte, il quale aveva redatto un breve elaborato sulla base di allegati non prodotti, aveva dichiarato di non aver visto personalmente la fossa ove recapitava lo scarico aggiungendo che, all’atto del suo sopralluogo, effettuato nel febbraio o marzo 2015, l’impianto non era in funzione. La Corte territoriale ha rilevato anche come, a fronte delle dichiarazioni del consulente di parte, il giudice del primo grado abbia nuovamente sentito il funzionario ARPA che aveva effettuato i controlli, il quale era stato contro interrogato anche dalla difesa che, però, non chiedeva confronti o sollevava eccezioni si sorta. La sentenza impugnata risulta, pertanto, del tutto immune da censure. 8. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di Euro 2.000,00. Ai sensi dell’art. 585, comma 4 cod. proc. pen. l’inammissibilità dell’impugnazione si estende ai motivi nuovi. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2.000,00 duemila in favore della Cassa delle ammende.