In carcere con due figlie a casa: niente detenzione domiciliare. È pericolosa e instabile

Respinta definitivamente la richiesta presentata dalla donna. Pur prendendo atto dell’interesse dei minori, i giudici ritengono impossibile consentire alla madre di usufruire della detenzione tra le mura domestiche.

Sgominata una banda che gestiva un grosso spaccio di droga. In carcere numerose persone, tra cui anche una donna, che lascia a casa due figlie. Proprio a fronte della situazione familiare, lei chiede la detenzione domiciliare. Domanda da respingere, sanciscono i giudici, alla luce del pericolo di reiterazione dei reati” e delle precarie condizioni psico-fisiche della donna Cassazione, sentenza n. 53426, sez. I Penale, depositata il 24 novembre . Condizioni. Nessuna incertezza ha mostrato il Tribunale di sorveglianza, che ha respinto in modo netto l’ipotesi della detenzione domiciliare in favore della donna, nonostante quest’ultima abbia fatto presente di dover accudire le due figlie minori . Dinanzi ai Giudici di Cassazione il legale della detenuta ribadisce la legittimità della richiesta avanzata dalla sua cliente. A tal proposito, viene sottolineato lo stato d’angoscia vissuto dalla donna per la sua condizione detentiva e per la lontananza dalle figlie di cui una risultava affetta da gravi patologie , e, allo stesso tempo, il difensore ricorda ai magistrati come sia centrale la tutela dei minori . Queste osservazioni non convincono i Giudici del ‘Palazzaccio’ a modificare la decisione del Tribunale. In premessa viene ricordato come l’ordinamento penitenziario ha avuto cura di assicurare particolare attenzioni alla maternità delle detenute e all’infanzia coinvolta nelle vicende carcerarie dei genitori . In questa vicenda, però, osservano i magistrati, sulla donna pesa il pericolo di reiterazione dei reati , alla luce del ruolo direttivo, di primo piano da lei assunto nel sodalizio criminale. Altro dato significativo è, secondo i Giudici, quello relativo alla condizione psicologica della donna, condizione che non le permette di riprendere la convivenza con la figlia minore, accudendola e curandola nel migliore dei modi . Su questo fronte viene richiamata la relazione comportamentale dell’istituto penitenziario che aveva dato conto trattarsi di soggetto affetto da disturbo delirante, e trasferito presso l’ospedale in ‘trattamento sanitario obbligatorio’, a causa di delirio di persecuzione, grave agitazione psicomotoria e rifiuto di qualsiasi approccio terapeutico . Tutti elementi, osservano i giudici, che sono ostativi al riconoscimento della detenzione domiciliare , poiché essi non permetterebbero la ripresa della convivenza della donna con le figlie .

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 10 ottobre – 24 novembre 2017, n. 53426 Presidente Bonito – Relatore Cairo Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza in data 10/11/2016 il Tribunale di sorveglianza di Palermo rigettava la richiesta avanzata nell'interesse di Bo. An. finalizzata ad ottenere la detenzione domiciliare cd. speciale ex art. 47-quinquies legge 26 luglio 1975, n. 354. Annotava l'adito Tribunale che, nonostante le prospettate esigenze legate alla prole di età minore della Bo., facessero nella specie difetto le condizioni strutturali di applicabilità del beneficio, giacché, nei confronti della condannata, era elevato, da un lato, il rischio di recidiva e, dall'altro, non ricorrevano le condizioni che potessero permettere all'istante di accudire i figli minori, in ragione delle sue condizioni psichiche. 2. Ricorre per cassazione Bo. An., a mezzo del suo difensore di fiducia e lamenta la illegittimità del provvedimento impugnato. 2.1. Si sarebbe dovuta, invero, concedere la misura invocata, afferma, avendo il legislatore posto nell'istituto il centro della tutela nell'interesse preminente del minore, che era prevalente su ogni altro aspetto e anche su quelli di difesa sociale. Il Tribunale territoriale non aveva, pertanto, correttamente valutato i presupposti di applicazione della misura ed era giunto attraverso un ragionamento erroneo all'impugnato rigetto. 2.2. Ancora, deduce la ricorrente, le stesse informazioni degli organi di polizia escludevano una attuale e concreta pericolosità sociale della detenuta e lo stesso tribunale dalla relazione di sintesi aveva acquisito informazioni che davano conto dello stato di angoscia vissuto dalla donna per la sua condizione detentiva e per la necessità di stare lontana dalle figlie, di cui una risultava affetta anche da gravi patologie. Osserva in diritto 1. Il ricorso è infondato e va respinto. 1.1. L'ordinamento penitenziario ha avuto cura di assicurare particolare attenzione alla maternità delle detenute ed all'infanzia coinvolta nelle vicende carcerarie dei genitori. Lo dimostrano i servizi speciali offerti alle gestanti art. 11 O.P. , la possibilità offerta alle madri di tenere presso di sé i figli fino a tre anni, l'organizzazione possibile di asili nido negli istituti di detenzione, la semilibertà offerta alle madri di prole di età inferiore a tre anni art. 50 O.P. . I principi solidaristici che alimentano il quadro indicato hanno ispirato anche l'introduzione della detenzione domiciliare art. 47 ter O.P. . In realtà la tutela dell'infanzia, nella logica del presidio costituzionale di cui all'art. 31 Cost., ha anche stimolato la legge 40/2001, protesa ad assicurare una assistenza materna continua in un ambiente familiare attraverso uno strumento specifico art. 47 quinquies legge 26 luglio 1975, n. 354, detenzione domiciliare speciale . Il fine di salvaguardia del rapporto genitore-figli e, soprattutto, di tutela dello sviluppo psicofisico del minore è indubbiamente al centro delle finalità della norma. La disciplina vigente, peraltro, impone al giudice delicate valutazioni e un contemperamento dei diversi interessi che si possono rivelare, prediligendo, sin dove possibile, le esigenze di tutela e di crescita del minore stesso. In questa logica si coglie la complessiva ricostruzione dei presupposti per la concessione del beneficio in esame. 1.2. La condannata deve essere madre di prole di età non superiore ad anni dieci e non deve sussistere un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti. Deve, altresì, ricorrere la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli e la detenuta deve aver espiato almeno un terzo della pena ovvero quindici anni nel caso di condanna all'ergastolo. Si tratta di presupposti che segnano l'ambito di operatività dell'istituto e ne tracciano lo statuto attraverso referenti indefettibili di valutazione per il riconoscimento del beneficio. Si tratta di requisiti che in positivo e in negativo devono ricorrere congiuntamente, rispetto ai quali, l'eventuale difetto di taluno di essi, renderebbe non accoglibile la domanda di misura alternativa. 2. Nel caso di specie il Tribunale di sorveglianza di Palermo con motivazione immune dai vizi denunciati ha ritenuto ricorrente il pericolo di reiterazione dei reati. Ha, in particolare, richiamato il ruolo di primo piano assunto dalla ricorrente nel sodalizio criminale e ha spiegato che si trattava di un ruolo direttivo. Questo dato aveva indotto a ritenere che non si potessero escludere legami con altri appartenenti alla criminalità organizzata e che si rendeva sussistente un profilo di pericolosità sociale, già di per sé ostativo alla concessione del beneficio invocato. Si è, poi, valorizzata, in senso negativo, la condizione psicologica della Bo., condizione che non le permetteva viepiù di riprendere la convivenza con la figlia minore, accudendola e curandola nel migliore dei modi. La conclusione si è fondata sulla relazione comportamentale dell'istituto penitenziario che aveva dato conto trattarsi di soggetto affetto da disturbo delirante e trasferito, presso l'ospedale di Agrigento, servizio psichiatrico, in TSO a causa di delirio di persecuzione, grave agitazione psicomotoria e rifiuto di qualsiasi approccio terapeutico. Ebbene si tratta di aspetti correttamente valutati come ostativi al riconoscimento del beneficio invocato e che non avrebbero permesso la ripresa della convivenza della ricorrente con le di lei figlie. Del resto, l'interesse del minore, indubbiamente centrale nella struttura della disposizione non si sottrae, comunque, ad un bilanciamento razionale con le ulteriori esigenze che nella vicenda de qua egualmente affiorano e con quella legata alle esigenze di difesa sociale in una logica che, d'altro canto, richiede una verifica comparativa complessa che tenga anche conto in concreto della effettiva possibilità, da parte dei minori di età, concessa la misura alternativa, di fruire delle cure materne. Affinché ciò accada, tuttavia, occorre che il genitore sia effettivamente nelle condizioni di poter riprendere il rapporto con i figli e di poter prestare realisticamente le cure parentali. Questo aspetto nel caso de quo risulta escluso con un giudizio di merito immune da censure. Le deduzioni contenute in ricorso finiscono - a fronte degli stessi richiami contenuti nel provvedimento impugnato alla relazione comportamentale - per rimettere alla Corte di legittimità una valutazione di fatto, diversa da quella raggiunta, invocando una lettura alternativa della vicenda correttamente scrutinata dal Tribunale di sorveglianza. Questa Corte ha del resto avuto modo di spiegare che ai fini dell'applicazione della detenzione domiciliare speciale di cui all'art. 47 quinquies legge n. 354 del 1975, il giudice, dopo aver accertato la sussistenza dei presupposti formali ed escluso il concreto pericolo di commissione di ulteriori reati, deve verificare la possibilità per la condannata sia di reinserimento sociale sia di effettivo esercizio delle cure parentali nei confronti di prole di età non superiore ai dieci anni, costituendo il primo un requisito necessario per l'ammissione al regime alternativo e la seconda la circostanza che giustifica il maggior ambito applicativo della misura alternativa Sez. 1, 38731 del 07/03/2013, Ra., Rv. 257111 . 3. Nel caso di specie il giudice a quo si è attenuto ai principi affermati da questa Corte e il ricorso va, dunque, respinto, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.