Compatibilità della desistenza volontaria e del tentativo compiuto

Perché possa configurarsi l’esimente della desistenza volontaria, nell’ambito del tentativo, è necessario che l’agente si attivi per interrompere il processo causale già posto in moto con la sua condotta e che, altrimenti sfocerebbe nell’evento.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 50079/17, depositata il 2 novembre. Il riferimento normativo. Come è noto, l’art. 56 c.p. disciplina l’istituto del delitto tentato, che si ha ogni qualvolta che un soggetto pone in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto e l’azione non si compie o l’evento non si verifica. Secondo la giurisprudenza di legittimità, due sono le tipologie di tentativo previste dalla norma in questione, secondo il dato letterale della disposizione di cui al primo comma appena citata. Ed invero, quando l’azione non si compie, ricorre la figura del tentativo incompiuto, mentre quando l’evento non si verifica, quella del tentativo compiuto. Ipotesi previste dall’art. 56, commi 3 e 4 c.p Nell’ambito del tentativo, la norma, ai commi 3 e 4, prevede poi due particolari ipotesi la desistenza volontaria ed il recesso attivo. Mentre la prima consiste nell’interrompere l’azione intrapresa prima che sia realizzata nei suoi estremi tipici, la seconda prevede che la condotta si sia comunque realizzata e l’agente si adoperi per impedire il verificarsi dell’evento. Ebbene, la distinzione appena operata si è resa necessaria stante che nella sentenza in commento si analizza la questione, già ampiamente dibattuta in giurisprudenza, se in caso di tentativo di furto compiuto” possa operare l’esimente della desistenza volontaria, o se, invece, possa configurarsi solamente il recesso attivo del soggetto agente. Compatibilità del tentativo compiuto e della desistenza. Come evidenziato dai Giudici di legittimità, sussistono due orientamenti sul punto. Secondo un primo orientamento di legittimità, si sostiene la compatibilità del tentativo compiuto con la desistenza volontaria. Ciò, in quanto la stessa è configurata dal legislatore quale esimente che esclude, ab extrinseco ed ex post l’antigiuridicità del fatto pertanto, la sua applicazione presuppone che l’azione sia penalmente rilevante perché pervenuta alla fase del tentativo punibile così Cass. Pen, sez. VI, n. 203/2011 . Incompatibilità tra tentativo compiuto e desistenza. In base ad un secondo orientamento, peraltro maggioritario, si esclude l’applicabilità della desistenza volontaria nelle ipotesi di tentativo compiuto. Una volta posti in essere atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, il colpevole verrà punito per il delitto tentato, con una pena eventualmente diminuita ove lo stesso abbia impedito l’evento, ai sensi di cui al comma 4 dell’art. 56 c.p Pertanto, secondo questo orientamento, il tentativo compiuto è compatibile solamente con il recesso attivo, quando il soggetto tenga una condotta attiva che valga a scongiurare l’evento . Al contrario, potrebbe aver luogo la desistenza volontaria solo nelle ipotesi di tentativo incompiuto nel caso quindi di azione incompiuta e non potrebbe essere configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento . Desistenza volontaria e tentativo differenze. La V sezione, con la pronuncia che si sta analizzando, aderisce a questo secondo orientamento, precisando, altresì che si configura il tentativo e non già la desistenza quando la condotta si sia arrestata prima del verificarsi dell’evento a causa di fattori esterni che abbiano impedito la prosecuzione dell’azione stessa o l’abbiano resa vana. Affermato, dunque, come nel caso di specie, che l’effrazione e l’introduzione in uno stabile al fine di commettere il delitto di furto in appartamento, siano atti che rientrano certamente nell’ambito del tentativo punibile, appare del tutto superfluo analizzare l’eventuale apporto esterno di altro soggetto nel decorso causale al fine di affermare la volontarietà o meno dell’allontanamento delle indagate dal luogo del delitto per la configurabilità dell’esimente in questione. In questo caso, infatti, gli atti posti in essere erano già diretti in modo non equivoco alla commissione del delitto in contestazione.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 15 maggio – 2 novembre 2017, n. 50079 Presidente Bruno – Relatore Vessichelli Ritenuto in fatto Propongono ricorso per cassazione M.L. e Ma.Me. avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano in data 17 dicembre 2015, con la quale è stata confermata quella di primo grado, di condanna in ordine al reato di tentato furto in abitazione pluriaggravato, in concorso, ai sensi degli artt. 56, 110, 624 bis comma 1 e comma 3 e 625 comma 1 nn. 2 prima parte e 5 c.p., fatto commesso in omissis . Le coimputate sono state riconosciute responsabili del tentativo di furto per essersi introdotte in uno stabile, previa effrazione della serratura del portoncino di ingresso, pur senza sottrarre alcunché. L’individuazione nelle imputate delle persone responsabili del fatto è avvenuta mediante testimoni oculari, in particolare grazie alle dichiarazioni della sig.ra T. , la quale, dopo aver sentito armeggiare sul portoncino di casa, si era affacciata dalla finestra del suo appartamento al secondo piano ed aveva visto uscire tre donne, e grazie a quelle di B.A. , nipote della p.o., che ha consentito alla polizia di intercettare l’autovettura con a bordo le tre donne, autovettura che il teste aveva notato parcheggiata davanti all’abitazione della zia nella stessa giornata. I giudici di appello hanno affermato che integra gli estremi del tentativo punibile l’aver scassinato la serratura del portoncino di entrata e l’essersi introdotte nello stabile, sebbene l’impresa non fu portata a termine in ragione della presenza e dell’intervento della sig.ra T. . Le ricorrenti deducono, con ricorsi personali distinti ma sostanzialmente sovrapponibili, i seguenti motivi 1 violazione di legge per erronea e/o falsa applicazione dell’art. 56, comma 3, c.p. posto che la desistenza deve essere volontaria, non necessariamente spontanea e neppure determinata da motivi ideologici o da autentico pentimento dell’agente, potendo piuttosto essere determinata da motivi pratici - purché non dovuta all’intervento di cause esterne indipendenti dalla volontà dell’agente - l’essersi la persona offesa, nel caso di specie, affacciata alla finestra e rivolta alle imputate non può che essere riconosciuto come fatto successivo alla scelta di quest’ultime di uscire dallo stabile e, così, di desistere in altri termini, non condizionante 2 violazione di legge per mancanza di motivazione in punto di sussistenza della desistenza volontaria, per avere i giudici di appello affermato, senza darne spiegazione, che l’intervento della T. rappresenta quel fattore esterno suscettibile di escludere, per giurisprudenza consolidata, la configurabilità della desistenza. Considerato in diritto 1. I ricorsi sono entrambi inammissibili, ciò comportando la condanna anche al versamento di somma a titolo di sanzione, in favore della cassa delle ammende. 2. Il vaglio della censura relativa alla configurabilità o meno della desistenza volontaria è qui precluso dall’avvenuto accertamento di un tentativo di furto compiuto , rispetto al quale non può operare l’esimente in parola, quanto, eventualmente, il recesso attivo, comunque non evocato dalla difesa. Il Collegio ritiene, al riguardo, di aderire all’orientamento giurisprudenziale, nettamente maggioritario, che esclude l’applicabilità dell’istituto di cui all’art. 56, comma 3, c.p. nelle ipotesi di tentativo compiuto una volta posti in essere gli atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, il colpevole soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, eventualmente diminuita da un terzo alla metà ove si sia adoperato per impedire l’evento di reato, ai sensi dell’art. 56, comma 4, c.p In particolare, nei reati di danno a forma libera la desistenza può aver luogo solo nella fase del tentativo incompiuto e non è configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento, rispetto ai quali può, al più, operare la diminuente per il c.d. recesso attivo, qualora il soggetto tenga una condotta attiva che valga a scongiurare l’evento Sez. 2, n. 24551 del 08/05/2015, Supino e altro, Rv. 264226 Sez. 1, n. 11746 del 28/02/2012, Price, Rv. 252259 . In tal senso si è espressa anche Sez. 1, Sentenza n. 6141 del 10/12/1979 Ud. dep. 15/05/1980 Rv. 145301, secondo cui, appunto, la desistenza volontaria dall’azione presuppone un tentativo incompiuto”. Essa deve, perciò, intervenire quando l’attività esecutiva non e ancora esaurita, altrimenti può configurarsi solo l’ipotesi del recesso attivo, mediante impedimento dell’evento. Sulla stessa linea può citarsi Sez. 2, Sentenza n. 51514 del 05/12/2013 Ud. dep. 20/12/2013 Rv. 258076 secondo cui è configurabile il tentativo e non la desistenza volontaria nel caso in cui la condotta delittuosa si sia arrestata prima del verificarsi dell’evento non per volontaria iniziativa dell’agente ma per fattori esterni come il mancato rinvenimento di denaro nella cassa oggetto di rapina che impediscano comunque la prosecuzione dell’azione o la rendano vana. Conforme Sez. 5, Sentenza n. 36919 del 11/07/2008 Ud. dep. 26/09/2008 Rv. 241595. Anche secondo la dottrina, per desistere, all’agente basta non continuare nel proprio comportamento, possibile, in quanto il comportamento tenuto o non integra ancora la condotta tipica o, comunque, non esaurisce quanto egli può compiere per perfezionare il reato con altri atti tipici contestuali. Per recedere, all’agente occorre attivarsi per interrompere il processo causale già posto in moto dalla condotta e che, altrimenti, sfocerebbe verosimilmente nell’evento. Non era, quindi, necessario inquadrare e definire la rilevanza dell’intervento della persona offesa nel decorso causale, quale fattore esterno suscettibile di escludere la desistenza, al fine di affermare la volontarietà o meno della condotta di allontanamento delle odierne ricorrenti dal domicilio altrui, posto che i giudici di merito hanno entrambi ritenuto e logicamente spiegato come l’effrazione e l’introduzione nello stabile in cui la signora T. abitava, costituissero di per sé furto tentato punibile. La giurisprudenza di segno contrario, che qui non si condivide, sostiene invece la compatibilità della desistenza col tentativo compiuto, in quanto configurata dal legislatore proprio come un’esimente che esclude ab extrinseco ed ex post l’antigiuridicità del fatto, sicché la sua applicazione presuppone che l’azione sia penalmente rilevante perché pervenuta nella fase del tentativo punibile Sez. 6, n. 203 del 20/12/2011, Rv. 251571 Sez. 2, n. 42688 del 24/09/2008, Rv. 24417 Sez. 6, n. 24711 del 21/04/2006 Sez. 2, n. 2226 del 24/10/1983, Teodoro, Rv. 163093 Sez. 2, n. 5669 del 02/02/1972, Angeli, Rv. 121834 . Invero, il fondamento di tale orientamento appare meramente assertivo le sentenze in parola si limitano infatti a valorizzare la collocazione della desistenza nell’ambito dell’articolo sul delitto tentato e la qualificazione della stessa quale esimente, avente nel fatto punibile il presupposto, senza scendere ad analizzare l’operatività della stessa, in primis rispetto all’attenuante, logicamente oltre che letteralmente successiva, del pentimento operoso. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna le ricorrenti, singolarmente, al pagamento delle spese del procedimento ed a versare la somma di Euro 2000 alla cassa delle ammende.