Cane bastonato: padrone condannato a pagare 10mila euro di multa

Decisivi i racconti dei vicini di casa. Per i Giudici l’uomo ha ripetutamente maltrattato il suo quadrupede. Irrilevante il parere del veterinario.

I guaiti del cane inchiodano il padrone. Essi vengono ripetutamente percepiti dai vicini di casa, che ne fanno un resoconto dettagliato alle forze dell’ordine, allertate a seguito della segnalazione relativa a un colpo di bastone dato dall’uomo sulla testa del quadrupede. Consequenziale la condanna per maltrattamenti Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 38182/17, depositata oggi . Lesioni. A dicembre 2010 l’episodio più grave. Il cane è stato pestato con un bastone dal proprio padrone. Per i Giudici, però, violenze sull’animale erano state compiute anche precedentemente. E a sostegno di questa tesi vengono richiamate plurime testimonianze dei vicini di casa , i quali hanno raccontato di avere percepito i continui lamenti del cane . Consequenziale è la condanna dell’uomo pronunciata in appello. Egli viene ritenuto responsabile di maltrattamenti sul proprio cane e viene sanzionato con 10mila euro di multa . E la decisione assunta in secondo grado viene ora confermata dai Giudici della Cassazione. Anche per loro è evidente come abbia volontariamente cagionato lesioni al quadrupede. L’episodio del dicembre 2010 è ritenuto solo la punta dell’iceberg, e, aggiungono i Giudici, le accuse non possono essere messe in discussione alla luce della testimonianza del veterinario che ha visitato il cane e ha certificato l’assenza di dolore al capo del quadrupede .

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 11 aprile – 1 agosto 2017, n. 38182 Presidente Cavallo – Relatore Gai Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 5 novembre 2015, la Corte d'appello di Trieste, in accoglimento dell'appello incidentale del Procuratore generale della Corte d'appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Udine, appellata dall'imputato, dal Procuratore della Repubblica e dal Procuratore generale della Corte d'appello, ha aumentato la pena inflitta a Or. Me., a Euro 10.000 di multa, per il reato di cui all'art. 544-ter cod.pen., confermando nel resto la sentenza impugnata. 2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso Or. Me., personalmente, e ne ha chiesto l'annullamento deducendo i seguenti motivi enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ai sensi dell'art. 173 disp.att. cod.proc.pen. 2.1. Con il primo motivo deduce la violazione di cui all'art. 606 comma 1 lett. b cod.proc.pen. in relazione all'erronea applicazione dell'art. 518 cod.proc.pen. La Corte d'appello nel confermare la sentenza di primo grado non avrebbe considerato che la contestazione era relativa al solo episodio di maltrattamenti avvenuto il 2 dicembre 2010, ed avrebbe erroneamente condannato per ripetuti atti di maltrattamento non contestati e senza alcuna contestazione suppletiva dal Pubblico Ministero e, dunque, in violazione dell'art. 518 cod.proc.pen. e del diritto di difesa. 2.2. Con il secondo motivo di ricorso deduce la violazione dell'art. 606 comma 1 lett. b cod.proc.pen. in relazione all'art. 40 e 544-rer cod.pen. La Corte d'appello non avrebbero considerato la testimonianza del dott. Du. che aveva confermato l'assenza di dolore al capo del cane al momento della visita avvenuta poco dopo il presunto pestaggio, con il bastone, oggetto di contestazione. Lo stesso teste aveva certificato che l'animale versava in buone condizioni di sapute e che buono era anche lo stato di nutrizione, testimonianza che avrebbe dovuto condurre all'assoluzione dell'imputato. 2.3. Con il terzo motivo di ricorso deduce la violazione di cui all'art. 606 comma 1 lett. b cod.proc.pen. in relazione all'art. 595 cod.proc.pen. Secondo il ricorrente l'impugnazione del Procuratore della Repubblica avrebbe consumato il potere di impugnazione incidentale del Procuratore generale della Corte d'appello. La Corte d'appello nell'accoglimento del ricorso incidentale del Procuratore generale, avrebbe erroneamente ritenuto valida l'impugnazione in presenza di un ricorso del Procuratore della Repubblica che aveva consumato il potere di impugnazione della pubblica accusa. 3. Il Procuratore Generale ha chiesto, in udienza, che il ricorso sia dichiarato inammissibile. Considerato in diritto 4. Il ricorso appare inammissibile per la proposizione di motivi manifestamente infondati. 5. Manifestamente infondato è il primo motivo di ricorso con cui si deduce la violazione dell'art. 518 cod.proc.pen. E' sufficiente leggere la contestazione descritta nel capo di imputazione, ritenuta provata sulla scorta di una motivazione immune di profili di illogicità sindacabili in questa sede, per smentire l'assunto difensivo. Al Me. erano contestati ripetuti atti di maltrattamento al proprio cane, uno dei quali culminato con l'episodio del pestaggio del 2 dicembre 2010. 6. Alla stesa sorte non si sottrae il secondo motivo di ricorso. La Corte d'appello in continuità con la sentenza del Tribunale di Udine, ha fondato l'affermazione della responsabilità penale su un quadro probatorio fondato su plurime ed indifferenti testimonianze, le cui dichiarazioni convergenti dei vicini di casa che percepivano i continui lamenti del cane, sicché la testimonianza del medico che effettuò la visita di segno contrario non è tale da scardinare il ragionamento probatorio come risulta da pag. 7 della sentenza impugnata. A questo proposito va ricordato che la Corte di cassazione è giudice della motivazione del provvedimento impugnato e non giudice delle prove acquisite nel corso del procedimento, con la conseguenza che il vizio di motivazione, che risulti dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati, in tanto sussiste se ed in quanto si dimostri che il testo del provvedimento sia manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non invece quando si opponga alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205621 . 7. Infine, il terzo motivo di ricorso appare, anch'esso, manifestamente infondato. L'appello incidentale è previsto dalla legge come impugnazione antagonista rispetto a quella della parte processualmente avversa Sez. 6, n. 14818 dell'11/12/2013,Del Gaudio, Rv. 259443 . L'istituto è stato reintrodotto dal codice di rito sia per consentire al pubblico ministero di ottenere la reformatio in peius della posizione dell'appellante, sia della parte che, pur avendo fatto acquiescenza alla sentenza, facendo scadere il termine per impugnare, intende reagire al rischio di peggioramento della propria posizione, ossia alla reformatio in peius, determinato dall'intervenuta altrui impugnazione della sentenza nei suoi confronti. In definitiva, l'appello incidentale disciplinato dall'art. 595 cod.proc.pen. è uno strumento a disposizione del pubblico ministero o della parte civile per reagire all'impugnazione dell'imputato ovvero a disposizione dell'imputato che, pur avendo ritenuto di non agire contro la sentenza con un suo autonomo atto d'impugnazione, voglia reagire all'appello del Pubblico Ministero o della parte civile. Quanto ai soggetti legittimati, il potere di proporre appello incidentale spetta a chi è titolare del potere di proporre quello principale, potere che ai sensi dell'art. 570 comma 1 cod.proc.pen. spetta sia al Procuratore della Repubblica sia al Procuratore generale presso la Corte d'appello e quest'ultimo può proporre impugnazione nonostante l'impugnazione o l'acquiescenza del pubblico ministero presso il giudice che ha emesso il provvedimento , purché non abbia proposto appello principale art. 595 comma 1 cod.proc.pen. . Ne discende che, nella specie, il Procuratore generale aveva il potere di proporre appello incidentale, a seguito della proposizione dell'appello dell'imputato e nonostante l'appello proposto dal Procuratore della Repubblica che non consuma il potere, ex art. 595 comma 1 cod.proc.pen., del Procuratore generale di proporre appello incidentale. 8. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali ai sensi dell'art. 616 cod.proc.pen. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità , si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.