La conversione dell’atto di impugnazione è possibile solo in caso di erronea attribuzione del nomen iuris conferito all’atto propulsivo del gravame

Il precetto di cui all’art. 568, comma 5, c.p.p., secondo cui l’impugnazione è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione alla medesima data, deve essere inteso nel senso che solo l’erronea attribuzione del nomen iuris non può pregiudicare l’ammissibilità del mezzo di impugnazione di cui l’interessato, ad onta dell’inesatta etichetta, abbia effettivamente inteso avvalersi.

Pertanto, il giudice è investito del potere-dovere di provvedere all’esatta qualificazione del gravame, privilegiando, rispetto al mero formalismo apparente, l’effettiva volontà della parte di attivare il rimedio apprestato dall’ordinamento giuridico, senza, tuttavia, poter sostituire il mezzo di gravame inammissibile effettivamente voluto dalla parte e propriamente denominato, con quello che, invece, sarebbe stato astrattamente ammissibile. La Corte di Cassazione, con la pronuncia numero 38006, depositata il 31 luglio u.s., coglie l’occasione per esprimersi sull’applicabilità del principio di conservazione degli atti, contemplato dall’art. 568, comma 5, c.p.p., a tenore del quale è prevista la conversione ope legis ” dell'impugnazione proposta mediante un mezzo diverso da quello prescritto e la trasmissione di ufficio degli atti al giudice competente. Il fatto. La sentenza in commento trae origine dall’impugnazione proposta da un soggetto, imputato per la fattispecie criminosa contravvenzionale di cui all’art. 5 legge numero 283/1962, recante la Disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande”, condannato, a seguito di giudizio abbreviato fissato in ragione della proposta opposizione a decreto penale di condanna, alla pena di 800 euro di ammenda. Avverso siffatto provvedimento, non appellabile ex art. 593, ult. comma, c.p.p., l’imputato per mezzo del proprio difensore propone appello con un articolato motivo di impugnazione dinanzi alla Corte d’Appello di Verona in realtà inesistente . L’atto di doglianza, giunto alla Corte di Appello di Venezia, competente per territorio, veniva trasmesso, ex art. 568, comma 5, c.p.p., alla Corte di Cassazione. L’atto di impugnazione è inammissibile. I Giudici della Terza Sezione della Suprema Corte dichiarano inammissibile l’atto propulsivo del gravame. Invero, con la sentenza in commento, il Collegio di Piazza Cavour ribadisce fondamentali principi di applicabilità del contenuto normativo di cui all’art. 568, comma 5, c.p.p., osservando, in via preliminare, che il ricorrente ha qualificato l’atto di impugnazione come atto di appello e, rivolgendosi ad una Corte d’Appello inesistente, ha invocato l’assoluzione e in subordine la diminuzione del trattamento sanzionatorio. Al riguardo, rappresenta ormai principio consolidato che, in tema di impugnazioni, il precetto di cui all’art. 568, comma 5, c.p.p., secondo cui l’impugnazione è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione alla medesima data, deve essere inteso nel senso che solo l’erronea attribuzione del nomen iuris non può pregiudicare l’ammissibilità di quel mezzo di impugnazione di cui l’interessato, ad onta dell’inesatta etichetta, abbia effettivamente inteso avvalersi. Da ciò consegue che il giudice è investito del potere – dovere di provvedere all’esatta qualificazione del gravame, privilegiando, rispetto al mero formalismo apparente, l’effettiva volontà della parte di attivare il rimedio apprestato dall’ordinamento giuridico. Tuttavia, proprio in virtù della finalità salvifica di siffatta previsione, che non può collimare con la reale volontà dell’impugnante, al giudice è precluso di sostituire il mezzo di gravame effettivamente voluto dalla parte e propriamente denominato, seppur inammissibile, con quello che, invece, sarebbe stato astrattamente ammissibile. In tale evenienza, così come è avvenuto nel caso di specie, non può parlarsi di inesatta qualificazione giuridica dell’impugnazione, come tale suscettibile di conversione, ma di una infondata pretesa da sanzionare con l’inammissibilità in tal senso, SSUU numero 16/1997 . Per tali motivi, la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e dell’ammenda pari ad euro 2.000, stante l’evidenza di profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 4 aprile – 31 luglio 2017, n. 38006 Presidente Cavallo – Relatore Cerroni Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 12 novembre 2015 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Verona, in esito a giudizio svoltosi con rito abbreviato ed instaurato a seguito dell’opposizione a decreto penale di condanna, ha condannato l’opponente D.G. , nella qualità di legale rappresentante della D.G. s.n.c., alla pena di Euro 8000 di ammenda per il ritenuto reato di cui all’art. 5 lett. h della legge 30 aprile 1962, n. 283. 2. Avverso la predetta decisione l’imputato, tramite il proprio difensore, ha proposto appello con un articolato motivo di impugnazione. 2.1. In particolare, il ricorrente ha anzitutto eccepito la violazione del termine previsto dall’art. 459 cod. proc. pen., in quanto il decreto penale di condanna risaliva al 10 gennaio 2014, e quindi risultava emesso oltre il termine semestrale a far data dall’iscrizione dell’interessato nel registro degli indagati. Nel merito, il ricorrente ha richiamato gli esiti delle analisi condotte sul prodotto misto bosco frutti di bosco congelati, confezionati dalla s.n.c. D. e posti in vendita nel negozio OMISSIS , dove era avvenuto il controllo , laddove era stato infine rilevato dall’Istituto Superiore di Sanità che il campione inviato per le analisi non era conforme a quanto stabilito dal decreto ministeriale 23 luglio 2003, quanto al metodo di campionamento ai fini del controllo dei residui di antiparassitari nei prodotti alimentari. Tra l’altro l’uso della propargite, ossia del prodotto usato per il trattamento delle bacche e rinvenuto in misura superiore al limite consentito, come principio attivo era ammesso per particolari tipologie di frutta, ma non per i frutti di bosco. Né erano stati ipotizzati pericoli per la salute, tant’è che il prodotto non era stato ritirato dal commercio. In realtà la mancata osservanza dei protocolli nella raccolta dei campioni provocava una mancata rappresentazione del lotto, e andava verificato il pericolo concreto dell’alimento contaminato a provocare danni per la salute, aspetto trascurato nella sentenza impugnata. Oltre a ciò, veniva censurata l’eccessività della pena, che doveva senz’altro essere ridotta per la minima violazione, al limite dell’irrilevanza chimica. 3. Il Procuratore generale ha concluso nel senso dell’inammissibilità del ricorso. Considerato in diritto 4. Il ricorso è inammissibile. 4.1. La Corte anzitutto osserva che l’odierno ricorrente ha qualificato la propria impugnazione come atto di appello, proposto nei confronti della sentenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Verona e rivolto ad una inesistente Corte di Appello di Verona. Con tale atto infine qui pervenuto in esito alla trasmissione correttamente disposta dalla Corte di Appello di Venezia con ordinanza del 23 marzo 2016, trattandosi di sentenza non appellabile a norma dell’art. 593, ultimo comma, cod. proc. pen. , sono state invocate l’assoluzione dell’imputato o comunque un’ampia riduzione della pena inflitta. Ciò posto in linea di fatto, rappresenta invero principio consolidato che, in tema di impugnazioni, il precetto di cui al quinto comma dell’art. 568 cod. proc. pen., secondo cui l’impugnazione è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione a essa data dalla parte che l’ha proposta, deve essere inteso nel senso che solo l’erronea attribuzione del nomen juris non può pregiudicare l’ammissibilità di quel mezzo di impugnazione di cui l’interessato, ad onta dell’inesatta etichetta , abbia effettivamente inteso avvalersi ciò significa che il giudice ha il potere-dovere di provvedere all’appropriata qualificazione del gravame, privilegiando rispetto alla formale apparenza,, la volontà della parte di attivare il rimedio all’uopo predisposto dall’ordinamento giuridico. Ma proprio perché la disposizione indicata è finalizzata alla salvezza e non alla modifica della volontà reale dell’interessato, al giudice non è consentito sostituire il mezzo d’impugnazione effettivamente voluto e propriamente denominato ma inammissibilmente proposto dalla parte, con quello, diverso, che sarebbe stato astrattamente ammissibile in tale ipotesi, infatti, non può parlarsi di inesatta qualificazione giuridica del gravame, come tale suscettibile di rettifica ope iudicis, ma di una infondata pretesa da sanzionare con l’inammissibilità Sez. U, n. 16 del 26/11/1997, dep. 1998, Nexhi, Rv. 209336 . Anche più recentemente, è stato così ribadito che è inammissibile l’impugnazione proposta con mezzo di gravame diverso da quello prescritto, quando dall’esame dell’atto si tragga la conclusione che la parte impugnante abbia effettivamente voluto ed esattamente denominato il mezzo di gravame non consentito dalla legge ad es. Sez. 2, n. 47051 del 25/09/2013, Ercolano, Rv. 257481 Sez. 6, n. 7182 del 02/02/2011, Beltrami, Rv. 249452 . 4.2. Fatta questa premessa, in specie l’odierno ricorrente aveva appunto presentato impugnazione avanti alla Corte di Appello di Verona e quindi Venezia , in forza della quale aveva richiesto l’assoluzione per insussistenza del fatto, e comunque una congrua riduzione della sanzione inflittagli. A seguito della proposizione del gravame, correttamente la Corte veneta ha invece disposto la trasmissione degli atti a questo Giudice di legittimità, atteso che il principio contenuto nell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen. secondo cui l’impugnazione è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione attribuitale dalla parte, per cui, ove sia stata proposta a giudice incompetente, lo stesso trasmette gli atti a quello competente non consente, infatti, al giudice incompetente, investito del gravame erroneamente proposto, di emettere pronuncia dichiarativa della inammissibilità della impugnazione, non rientrando tale pronuncia nella sfera dei poteri attribuiti dalla menzionata norma alla cognizione di detto giudice, dovendosi il medesimo limitare a procedere alla esatta qualificazione del mezzo di impugnazione proposto ed alla conseguente trasmissione degli atti al giudice competente ad es. Sez. 3, n. 19980 del 24/03/2009, Passannante, Rv. 243655 . Atteso ciò, questa Corte, chiamata a valutare ammissibilità e fondatezza dell’atto di impugnazione, non può non rilevare che la censura stessa non reca solo un errato nomen iuris, ma manifesta anche la volontà di proporre appello. Ciò è reso evidente anche e soprattutto dal petitum contenuto nelle conclusioni, che non ha ad oggetto l’annullamento della sentenza impugnata unico provvedimento consentito in sede di legittimità , bensì l’emissione di statuizioni squisitamente di merito, quali la pronuncia di assoluzione con la formula che verrà ritenuta di giustizia , per non avere commesso il fatto o per sua insussistenza, mentre è altresì avanzata istanza di riduzione della pena inflitta. 4.3. In ogni caso, peraltro, anche volendo enucleare ragioni di impugnazione scrutinabili in sede di legittimità sebbene la stessa struttura dell’atto, per le ragioni già richiamate, non rispetti le articolazioni richieste in questa sede , non appare possibile superare il vaglio di ammissibilità. 4.3.1. In primo luogo, infatti, è del tutto pacifica la natura ordinatoria del termine di cui all’art. 459 cod. proc. pen. cfr. Sez. 5, n. 41146 del 22/04/2005, Lorello, Rv. 232541 Sez. 7, n. 5942 del 09/12/2004, dep. 2005, La Marra, Rv. 231105 , per cui il decreto penale ben poteva essere comunque emesso. 4.3.2. Quanto alla residua censura, in realtà l’odierno ricorrente non ha tenuto in alcun conto le ragioni in forza delle quali il Tribunale di Verona è pervenuto all’affermazione di responsabilità. In proposito, infatti, ed avuto riguardo al reato contravvenzionale ritenuto in sentenza Art. 5 legge 283/62 È vietato impiegare nella preparazione di alimenti o bevande, vendere, detenere per vendere o somministrare come mercede ai propri dipendenti, o comunque distribuire per il consumo sostanze alimentari h che contengano residui di prodotti, usati in agricoltura per la protezione delle piante e a difesa delle sostanze alimentari immagazzinate, tossici per l’uomo. Il Ministro per la sanità, con propria ordinanza, stabilisce per ciascun prodotto, autorizzato all’impiego per tali scopi, i limiti di tolleranza e l’intervallo per tali scopi, i limiti di tolleranza e l’intervallo minimo che deve intercorrere tra l’ultimo trattamento e la raccolta e, per le sostanze alimentari immagazzinate tra l’ultimo trattamento e l’immissione al consumo , il Giudice per le indagini preliminari adito ha osservato che le analisi chimiche, anche in sede di revisione ed anche quindi facendo uso della confezione spedita dall’interessato, avevano confermato la presenza di propargite in quantità superiore al limite consentito, dando altresì conto della metodologia seguita, illustrando la procedura ed il confezionamento delle buste nove predisposte per le analisi. In proposito, quindi, il Giudice del merito da un lato, ha osservato che già entrambe le buste effettivamente utilizzate contenevano il prodotto in quantità non consentite sì che poteva presumersi che anche le altre buste, parimenti confezionate a caso, presentassero le medesime caratteristiche , e dall’altro ha osservato che la scelta del giudizio abbreviato, operata dall’imputato, aveva comportato la positiva verifica della fondatezza dell’accusa in base agli atti di indagine svolti e quindi facendo uso dei convergenti risultati delle due analisi, laddove nell’ambito di un giudizio con rito ordinario l’eventuale svolgimento di perizia avrebbe potuto portare all’utilizzo anche delle ulteriori sette buste,ancora teoricamente fruibili. Ciò posto, il superamento della soglia doveva ritenersi penalmente rilevante, come da scelta operata dal legislatore. 4.3.3. Il Tribunale ha quindi applicato in primo luogo il principio in forza del quale la richiesta di rito abbreviato formulata dall’imputato comporta l’accettazione del giudizio allo stato degli atti e rappresenta il limite oltre il quale il quadro probatorio già esistente non è suscettibile di modificazioni, ferme restando le possibilità di integrazione istruttoria dell’interrogatorio dell’imputato e del ricorso ai poteri d’ufficio del giudice ai sensi dell’art. 441, comma 5, cod. proc. pen. Sez. 6, n. 45806 del 08/10/2008, Alagna e altri, Rv. 241766 cfr. altresì, quanto ad es. all’utilizzabilità dei contenuti della proposta querela, Sez. 5, n. 46473 del 22/04/2014, D’Amico, Rv. 261006, in quanto la scelta dell’imputato di procedere con tale rito alternativo rende utilizzabili tutti gli atti, legalmente compiuti o formati, che siano stati acquisiti al fascicolo del pubblico ministero . In secondo luogo, è principio ripetuto che la fattispecie di cui all’art. 5 lett. h della legge n. 283 del 1962 è norma penale in bianco, giacché rinvia, al fine di adeguare gli obblighi di legge all’evoluzione anche scientifica del contesto cui la legge stessa intende riferirsi, a disposizione proveniente da fonte diversa da quella penale sì che dal carattere eccezionale e dall’efficacia temporanea di tali disposizioni consegue ad es. che la punibilità della condotta non dipende dal momento in cui viene emessa la decisione, ma dal momento in cui avviene l’accertamento, con esclusione dell’applicabilità del principio di retroattività della legge più favorevole, cfr. Sez. 3, n. 43829 del 16/10/2007, Idri, Rv. 238262 . Il modificarsi dei limiti di tolleranza della presenza di prodotti potenzialmente nocivi negli alimenti non risponde solo all’evoluzione dei parametri di valutazione del rischio, ma da una pluralità di fattori fra cui va compresa l’evoluzione dei medesimi prodotti, con la conseguenza che l’innalzamento o l’abbassamento dei livelli di tolleranza può rispondere non solo alla migliore qualità degli accertamenti, ma anche al mutare nel tempo degli stessi parametri di rischio per l’uomo con riferimento al medesimo prodotto così, in motivazione, Sez. 3 n. 43829 cit. . Né vi era questione di nocività del prodotto, nocività neppure contestata in specie ed in esito alla quale tutt’altra vicenda si sarebbe verificata. 4.3.4. Allo stesso tempo, l’apprezzamento discrezionale che ha condotto alla determinazione della pena appare adeguatamente motivato e non puntualmente censurato, senza l’indicazione dei vizi da cui in tesi avrebbe dovuto essere affetto. 5. Le plurime ragioni evidenziate conducono senz’altro ad una valutazione di inammissibilità dell’impugnazione. Tenuto infine conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità , alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.