Rifiuta di prescriverle i farmaci spingendola fuori dallo studio, è reato di rifiuto di atti d’ufficio

Il reato di rifiuto di atti d’ufficio è un reato di pericolo. La violazione dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice ricorre tutte le volte in cui viene negato un atto non ritardabile alla luce delle esigenze protette e considerate dall’ordinamento, a prescindere dall’esito concreto dell’omissione.

Lo ribadisce la Suprema Corte con sentenza n. 35233/17 depositata il 18 luglio. Il caso. La Corte d’Appello condannava l’imputato per il tentato delitto di cui all’art. 610 c.p. Violenza privata e per quello di cui all’art. 328, comma 1, c.p. Rifiuto di atti d’ufficio in quanto riteneva accertato, sulla scorta della ricostruzione dei fatti della persona offesa, che egli, in qualità di medico di base, aveva rifiutato di prescriverle i farmaci di cui aveva bisogno, tentando, fra l’altro, di spingerla fuori dallo studio. L’imputato ricorre per cassazione deducendo, in particolare, vizio di violazione di legge e vizio di motivazione per la ritenuta sussistenza del reato di rifiuto di atti d’ufficio. Rifiuto di atti d’ufficio. Sul punto, la S.C. intende rilevare la giurisprudenza di legittimità che ha più volte avuto occasione di chiarire che il reato di rifiuto di atti d’ufficio è un reato di pericolo, pertanto, ricorre la violazione dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice tutte le volte in cui venga negato un atto non ritardabile alla luce delle esigenze protette e considerate dall’ordinamento, a prescindere dall’esito concreto dell’omissione. Inoltre, prosegue la Cassazione, il rifiuto penalmente rilevante si verifica anche quando sussiste un’urgenza sostanziale, impositiva del compimento dell’atto, tale che l’inerzia del pubblico ufficiale assuma la valenza di rifiuto dell’atto medesimo. Per tutti questi motivi, il Collegio di legittimità relativamente al caso di specie intende rigettare il ricorso proposto dal ricorrente, condannandolo al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 29 maggio – 18 luglio 2017, n. 35233 Presidente Conti – Relatore Giordano Ritenuto in fatto 1. La Corte di appello di Lecce, in riforma di quella del locale Tribunale, ha assolto D.L.L. dal reato di cui all’art. 610 cod. pen. commesso il 17 maggio 2010 e dal reato di cui all’art. 594 cod. pen. e, riqualificato come delitto tentato di cui all’art. 610 cod. pen., la condotta del 18 maggio 2010, lo ha condannato, con le circostanze attenuanti generiche, alla pena di mesi sette di reclusione per tale ultimo reato e per quello di cui all’art. 328, comma 1, cod. pen Ha confermato, inoltre, le statuizioni civili. 2. La Corte di appello, sulla scorta della ricostruzione dei fatti compiuta dalla persona offesa, ha ritenuto accertato che in più occasioni - e precisamente nei giorni 17 maggio e 18 maggio 2010 -, il D.L. , medico di base della denunciante, aveva indebitamente rifiutato di prescriverle i farmaci dei quali la stessa, che aveva subito un intervento chirurgico di neoplasia mammaria, aveva assoluto bisogno che, in occasione dei fatti occorsi il 18 maggio, aveva anche tentato di spingerla fuori dallo studio tanto che la vicina di casa aveva sentito chiaramente la denunciante dire tu le mani addosso a me non le metti . In dibattimento la persona offesa aveva anche spiegato che, ad un consolidato rapporto di frequentazione con l’abitazione dell’anziana madre del medico, alla quale essa prestava saltuariamente assistenza, era seguita una incrinatura dei rapporti con l’imputato, suo medico di base, poiché questi l’accusava di parteggiare per cognata in suo danno tanto che, attraverso un biglietto recapitatole, le aveva preannunciato che l’avrebbe ricusata come paziente. Aveva, altresì, precisato che era sua intenzione parlare con l’imputato, che la evitava, dei loro rapporti familiari ma che nei giorni 17 e 18 maggio si era recata in studio per le prescrizioni che le erano necessarie e che le venivano rifiutate. 3. Con i motivi di ricorso, sottoscritti personalmente, l’imputato denuncia 3.1 vizio di violazione di legge e vizio di motivazione per la ritenuta sussistenza del reato di cui all’art. 328, comma 1, cod. pen. in mancanza di prova della doverosità ed indifferibilità delle prescrizioni in favore della parte civile. Rileva che i giudici del merito hanno erroneamente ritenuto che la denunciante si fosse recata in ambulatorio in orario di apertura desumendo tale circostanza dal fatto che la stessa aveva potuto accedere all’ambulatorio medico, circostanza, viceversa, irrilevante poiché lo stesso viene utilizzato dal D.L. anche come abitazione tant’è che, secondo quanto riferito dalla stessa, al suo arrivo lo studio del medico era vuoto e l’imputato si trovava nello scantinato. Inoltre, e la circostanza era ben nota all’imputato, la persona offesa aveva ancora a disposizione i farmaci prescrittile in precedenza e nel pomeriggio della visita avrebbe dovuto recarsi dall’oncologo, che avrebbe potuto cambiarle la terapia, circostanze, queste, idonee a scriminarne la condotta, anche solo putativamente ai sensi dell’art. 59, comma 4, cod. pen. 3.2 violazione di legge e vizio di motivazione per la ritenuta sussistenza del reato di cui all’art. 56-610 cod. pen Il ricorrente rileva che era stata la parte civile, invitata ad allontanarsi dallo studio poiché l’ambulatorio era chiuso, a dare una spinta alla porta dello studio per ottenere di parlare con il medico, anche contro la volontà di questi, con la conseguenza che la condotta dell’imputato, finalizzata ad impedire la prosecuzione del reato di violenza privata ovvero violazione di domicilio che la denunciante aveva in corso, è scriminata ai sensi degli artt. 51 e 54 cod. pen. o, al più, è sussumibile nell’ipotesi di cui all’art. 393 cod. pen., poiché l’imputato, non potendo adire il giudice ed ottenere una efficace tutela per ottenere la cessazione della condotta offensiva, era animato dal fine di esercitare un proprio diritto. 4. L’udienza del 25 maggio 2017, fissata per la trattazione del ricorso, veniva differita alla data odierna a seguito di istanza di rinvio del difensore che dichiarava di aderire all’astensione indetta dall’Unione Camere Penali. Considerato in diritto 1. Il ricorso deve essere rigettato. 2. Sono, invero, generiche e manifestamente infondate le censure difensive, svolte al punto 3.2 del ricorso che tendono, mediante la estrapolazione di singoli passaggi delle dichiarazioni rese dalla parte civile, ad accreditare una diversa lettura delle emergenze processuali, in assenza di contraddizioni o evidenti illogicità nella motivazione della sentenza impugnata e di quella di primo grado che, viceversa, hanno compiuto una puntuale ricostruzione dei fatti sulla scorta della dichiarazioni rese dalla persona offesa, dei riscontri documentali da questa offerti e delle dichiarazioni rese dalla vicina, signora R.A. . 2.1 Rileva il Collegio, che i giudici del merito hanno esaminato con particolare prudenza le dichiarazioni rese dalla parte civile in ragione del pregresso rapporto tra la stessa e l’imputato, e della circostanza, per nulla taciuta ovvero negata dalla dichiarante, secondo la quale le visite nello studio del medico di base erano dettate, oltre che dalla necessità di ottenere la prescrizione dei farmaci per la prosecuzione della terapia antitumorale in corso, anche dall’intento di chiarirne l’atteggiamento di chiusura nei suoi confronti, atteggiamento da ultimo palesatogli mediante l’invio del biglietto con il quale il D.L. le anticipava la intenzione di ricusarla come paziente, biglietto il cui contenuto costituiva oggetto della contestazione di cui all’art. 594 cod. pen. per la quale si è pervenuti al proscioglimento dell’imputato per abrogazione del reato. La parte civile ha anche precisato che le sue visite avvenivano in orario di apertura dello studio al pubblico per le visite e, del tutto logicamente, la Corte territoriale ha disatteso la contraria versione dell’imputato, oggi proposta come motivo di ricorso, secondo la quale la parte civile si recava in studio ad orario di visita ormai terminato, sul rilievo che, in entrambe le circostanze, la persona offesa si trovava certamente nell’ambulatorio medico il ché rende del tutto logico presumere che essa vi avesse acceduto in orario di apertura al pubblico non essendo verosimile che l’accesso all’ambulatorio fosse possibile anche in orario di chiusura, tanto più che l’imputato aveva, a suo dire, l’abitazione nei medesimi locali. Ne consegue la manifesta infondatezza della prospettazione difensiva del D.L. , secondo la quale la condotta violenta tenuta, sospingendo fuori dallo studio la paziente riscontrata dalle dichiarazioni della vicina di casa che poteva udire le rimostranze della denunciante , sia da ritenere scriminata, ai sensi degli artt. 51 ovvero 54 cod. pen., perché finalizzata a far cessare la prosecuzione dei reati di violazione di domicilio ovvero violenza privata che la paziente stava ponendo in essere nei suoi confronti, poiché lo studio del medico di base, anche se privato, è destinato a un pubblico servizio negli orari di apertura al pubblico e, pertanto, legittimamente la paziente vi si tratteneva in attesa di essere ricevuta dal medico e per ragioni sanitarie. Neppure è ravvisabile nella condotta del 18 maggio 2010 per la quale è intervenuta condanna, il reato di cui all’art. 393 cod. pen., in presenza di una pretesa illegittima dell’imputato e rispetto alla quale era oggettivamente impossibile il ricorso al giudice. Come noto, il delitto di cui all’art. 393 cod. pen. si traduce nella indebita attribuzione a se stesso, da parte del privato, di poteri e facoltà spettanti esclusivamente al giudice in presenza di una pretesa che sia effettivamente e giuridicamente azionabile, requisiti insussistenti nel caso in esame alla stregua della ricostruzione in fatto compiuta dai giudici di appello, e rispetto ai quali sono penalmente irrilevanti l’ignoranza o l’errore dell’agente che si risolvono in ignoranza o errore di diritto. 3. Prive di fondamento sono le censure in diritto svolte con il primo motivo di ricorso. La giurisprudenza di legittimità ha più volte chiarito che il reato di rifiuto di atti di ufficio è un reato di pericolo pertanto ricorre la violazione dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice al corretto svolgimento della funzione pubblica ogniqualvolta venga denegato un atto non ritardabile alla luce di esigenze prese in considerazione e protette dall’ordinamento, prescindendosi dal concreto esito dell’omissione Sez. 6, n. 3599 del 23/03/1997, Maioni, Rv. 207545 . E, a prescindere dalla richiesta o da un ordine, il rifiuto penalmente rilevante si verifica anche quando sussista un’urgenza sostanziale, impositiva del compimento dell’atto, in modo tale che l’inerzia del pubblico ufficiale assuma la valenza di rifiuto dell’atto medesimo Sez. 6, n. 17570 del 16/03/2006, Lanzara, Rv. 233858 . 4. Nella fattispecie in esame, la parte civile ha escluso che al momento in cui si era recata presso lo studio dell’imputato per le prescrizioni avesse ancora la disponibilità di farmaci, pur avendo confermato che lo stesso giorno si sarebbe dovuta recare dall’oncologo per un controllo con la conseguente possibilità che le venisse cambiata la terapia e, in fatto, è stato accertato che, una volta che la parte civile ebbe richiesto l’intervento dei Carabinieri, a seguito del rifiuto oppostole anche il giorno 18 maggio 2010, l’imputato rilasciò la prescrizione relativa ai farmaci che la denunciante gli richiedeva così, evidentemente, confermando la legittimità e la non pretestuosità della richiesta della paziente. 4.1 Ritiene il Collegio che i giudici del gravame hanno correttamente esaminato e valutato le emergenze processuali pervenendo alla conferma del giudizio di colpevolezza dell’imputato con puntuale e adeguato apparato argomentativo che si sottrae a censure nel giudizio di legittimità. Nella ricostruzione della sentenza impugnata, assume rilievo, ai fini della sussistenza del reato, non già la doverosità della prescrizione richiesta al medico di base, in ragione dell’orario di apertura al pubblico dell’ambulatorio e della circostanza che la ricusazione della paziente avrebbe avuto effetto solo a partire dal sedicesimo giorno della comunicazione, eseguita il precedente 17 maggio 2010, bensì la valutazione della doverosità e della indifferibilità della prescrizione terapeutica richiesta all’imputato perché relativa ad una terapia oncologica in corso, a lui ben nota, che non poteva subire interruzioni, necessaria per la cura della grave patologia dalla quale la persona offesa era affetta, terapia già prescritta dal medico specialista che seguiva la denunciante, assunto questo non smentito dall’imputato che, al fine di giustificare la condotta omissiva, non ha mai neppure addotto contrarie indicazioni di carattere terapeutico. Le circostanze di fatto illustrate nella sentenza impugnata connotano, pertanto, una situazione di urgenza sostanziale, impositiva del compimento dell’atto, in modo tale che l’inerzia del pubblico ufficiale assume la valenza del consapevole rifiuto dell’atto medesimo, in linea con l’interpretazione tracciata al punto 4, in presenza di una situazione di indifferibilità dell’atto richiesto, rapportata alla sussistenza di un effettivo pericolo di conseguenze dannose alla salute della persona, indifferibilità che va correlata al potere demandato al sanitario di decidere sulla necessità della terapia ma che, nelle circostanze illustrate in concreto, non integra una valutazione discrezionale del medico e che si è risolta in un indebito comportamento omissivo giustificato dall’imputato sulla base dei generici richiami, rivelatisi del tutto infondati, al rispetto dell’orario di visita e alla copertura farmacologica delle precedenti prescrizioni rispetto alle necessità della paziente di non interrompere la terapia in corso. 5.La conclusione cui è pervenuta la sentenza impugnata riposa, in definitiva, su un quadro probatorio linearmente rappresentato come completo ed univoco a riguardo dei requisiti di doverosità e indifferibilità della prestazione richiesta all’imputato, e come tale non censurabile sotto il profilo della congruità e della correttezza logico - argomentativa, anche con riguardo all’elemento psicologico del reato, integrato dalla consapevolezza del contegno omissivo e per nulla inciso dalla allegazione - del tutto indimostrata - della disponibilità di farmaci da parte della paziente ovvero dalla circostanza - puramente eventuale - che a seguito della visita di controllo potesse essere modificata la terapia in corso. Conseguente alla descritta natura del reato è anche l’affermazione secondo la quale l’intervenuto rilascio della prescrizione, connotandosi come post factum, non rileva ai fini della consumazione del reato. 6. Dal rigetto del ricorso discende la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.