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Risponde del reato di truffa colui che trattenendo la caparra ricevuta dall’acquirente, non adempia all’obbligo di vendere assunto sulla base di un contratto preliminare di compravendita stipulato nella consapevolezza di non poter o volere adempiere .

Così ha deciso la Cassazione con la sentenza n. 32699/17 depositata il 5 luglio. IL caso. La Corte d’Appello di Bari confermava la sentenza del Tribunale condannando gli imputati per i reati di truffa aggravata avente ad oggetto un contratto preliminare di vendita immobiliare effettuata sulla falsa prospettazione che il permesso a costruire fosse pressoché ottenuto. Avverso tale pronuncia i soccombenti ricorrevano in Cassazione lamentando l’erroneità e illogicità della motivazione per l’integrazione del reato di truffa. I ricorrenti affermavano, infatti, che il giudice non avesse adeguatamente indagato il profilo del profitto, in ordine al reato di truffa, dal quale sarebbe emerso che le somme erano state accantonate in previsione di un’eventuale restituzione delle stesse. Il raggiro. La Cassazione afferma che per integrare il raggiro, nella configurazione del reato in esame, elemento idoneo ad influire sulla volontà negoziale del soggetto passivo, è anche il silenzio maliziosamente serbato su circostanze rilevanti a fini delle valutazioni delle reciproche prestazioni da parte di colui che avrebbe dovuto farle conoscere. Tuttavia, nel ricorso non c’è stata alcuna contestazione su tale elemento. Il profitto. Nel caso di specie, l’assegno versato ai ricorrenti una volta entrato nella loro sfera giuridica, non era mai stato restituito, per cui l’imputazione a bilancio che ne avevano poi fatto le parti risulta un elemento del tutto estraneo alla sfera giuridica dei truffati. Risponde, infatti, del reato di truffa colui che trattenendo la caparra ricevuta dall’acquirente, non adempia all’obbligo di vendere assunto sulla base di un contratto preliminare di compravendita stipulato nella consapevolezza di non poter o volere adempiere . I ricorrenti sono, quindi, obbligati a versare alle parti offese il doppio della caparra ricevuta secondo quanto disposto ex art. 1385 c.c Per questi motivi la Corte rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione sez. II Penale, sentenza 6 aprile – 5 luglio 2017, n. 32699 Presidennte Davigo – Relatore Titinelli Ritenuto in fatto 1. Con il provvedimento in questa sede impugnato, la Corte di appello di Bari ha confermato la sentenza del Tribunale di Foggia-sezione distaccata di Manfredonia - del 12 giugno 2013 di condanna degli odierni ricorrenti per una fattispecie di truffa aggravata avente ad oggetto la stipula di un contratto preliminare di vendita immobiliare effettuata sulla falsa prospettazione che la pratica di rilascio del permesso a costruire l’immobile promesso fosse pressoché terminata attestando che la società per cui i due imputati agivano aveva stipulato un contratto di permuta con i proprietari del terreno. 2. Propongono ricorso per cassazione gli imputati articolando i seguenti motivi. 2.1. Violazione dell’articolo 640 cod. pen. nonché nullità della sentenza per erroneità ed illogicità della motivazione nella ritenuta integrazione del reato di truffa. Afferma il ricorrente che il giudice di secondo grado si sarebbe limitato a trattare esaustivamente solo il profilo attinente agli artifizi e raggiri nulla avendo statuito in ordine al profitto. Invece, con riferimento a tale elemento, avrebbe dovuto considerare che le somme sono state accantonate proprio in previsione di una eventuale restituzione e risultano inserite nella contabilità della società tra le passività, nel contro di mastro clienti c/ caparra e ivi si trovano a tutt’oggi. Da tale circostanza i giudici del merito avrebbero dovuto desumere che nessuno ha mai tratto profitto dall’incasso di quelle somme versate a titolo di caparra e che nel caso di ispecie dovrebbe ritenersi sussistente la buona fede degli imputati che anzi avevano avanzato un’offerta di restituzione delle somme versate ovvero l’acquisto di altro appartamento già disponibile offerta a fronte della quale le parti offese hanno invece insistito per la restituzione del doppio della somma versata ricevendo un rifiuto dalla società immobiliare. Considerato in diritto 1. Il motivo di ricorso è manifestamente infondato. Va infatti rilevato che l’iter argomentativo del provvedimento impugnato appare esente da vizi, fondandosi esso su di una compiuta e logica analisi critica degli elementi di prova e sulla loro coordinazione in un organico quadro interpretativo, alla luce del quale appare dotata di adeguata plausibilità logica e giuridica l’attribuzione a detti elementi del requisito della univocità, in quanto conducenti all’affermazione di responsabilità al di là di ogni ragionevole dubbio. Il ricorso - articolato in fatto - non incide sulla logicità, congruenza o coerenza intrinseca o estrinseca della motivazione, limitandosi a proporre una interpretazione alternativa delle emergenze processuali. In particolare, risulta la prova della falsa rappresentazione ingenerata nel contraente al fine di indurlo a stipulare il contratto preliminare. Nel ricorso, nemmeno vi è contestazione in ordine a tale elemento. È per altro verso indubbio che, in tema di truffa contrattuale, anche il silenzio, maliziosamente serbato su circostanze rilevanti ai fini della valutazione delle reciproche prestazioni da parte di colui che abbia il dovere di farle conoscere, integra l’elemento del raggiro, idoneo ad influire sulla volontà negoziale del soggetto passivo, con la conseguenza che integra gli estremi del reato di truffa a condotta del costruttore di un immobile, il quale, nella fase delle trattative per la vendita dello stesso, ed anche successivamente alla stipula del preliminare, ometta di riferire all’altro contraente vincoli o altri oneri o ostacoli gravanti sul bene ovvero la mancata disponibilità dello stesso Sez. 2, Sentenza n. 28791 del 18/06/2015 Rv. 264400 . Risulta inoltre provato che l’assegno consegnato è entrato nella sfera giuridica del destinatario e che non è mai stato restituito. Sotto questo aspetto, l’imputazione a bilancio effettuata dalla società che ha riscosso l’assegno costituisce un aspetto del tutto estraneo alla posizione del truffato e che non assume alcuna rilevanza in ordine alla avvenuta acquisizione delle somme. Infatti, risponde del reato di truffa colui che, trattenendo la caparra ricevuta dall’acquirente, non adempia all’obbligo di vendere assunto sulla base di un contratto preliminare di compravendita stipulato nella consapevolezza di non potere o volere adempiere Sez. 2, Sentenza n. 14674 del 26/02/2010 Rv. 246921 Sez. 3, Sentenza n. 563 del 14/11/2006 - dep. 15/01/2007 - Rv. 235868 . L’erroneità della prospettazione dei ricorrenti risulta peraltro dal fatto che la richiesta del doppio della caparra da parte delle parti offese costituisce una condotta contrattuale ordinaria. Dimentica il ricorrente che, ai sensi dell’articolo 1385 del codice civile, se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra può recedere dal contratto, trattenendo la somma consegnata a tale titolo se inadempiente è invece la parte che l’ha ricevuta, l’altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra. Il rifiuto opposto a tale richiesta, unitamente al rifiuto di risolvere il contratto costituisce elemento che concretizza il requisito del danno a carico del truffato, fermo restando che, in questo caso, il profitto era già stato incamerato tramite la riscossione dell’assegno. Ne consegue la manifesta infondatezza del ricorso. Alle suesposte considerazioni consegue la dichiarazione di inammissibilità del ricorso e, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.500,00. L’inammissibilità del ricorso preclude il rilievo della eventuale prescrizione maturata successivamente alla sentenza impugnata Sez. Un., n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266 . P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro millecinquecento ciascuno a favore della Cassa delle ammende. Sentenza a motivazione semplificata.