Non è incompatibile il giudice che, nel procedimento di prevenzione, dispone il sequestro dei beni di cui si discute la confisca

Che un giudice che abbia già deciso sulla res iudicanda non possa essere chiamato ulteriormente a pronunciarsi sulla stessa è indubbio, così come è indubbio – anche a seguito di numerosi interventi della Corte Costituzionale – che un giudice di una fase processuale non deve, di regola, partecipare alla fase successiva.

Tale riferimento in sé non particolarmente problematico entra in crisi quando nell’ambito della stessa fase processuale il giudice è chiamato a emettere provvedimenti accessori o comunque strumentali all’attuazione della decisione a cui è chiamato. Qui si domanda se debba o meno essere presente una incompatibilità, posto che – nei fatti – vi è una anticipazione del giudizio e, quindi, un pregiudizio”, che può giustificare la ricusazione. Incompatibilità. Il punto è stato affrontato moltissime volte in sede di giudizio ordinario e la risposta è stata tendenzialmente negativa, in quanto il giudice emette un provvedimento legittimo in una fase che ancora non si è conclusa e pertanto di per sé non può discutersi di incompatibilità”. Tale assunto è in sé corretto e, sinceramente, di per sé inattaccabile, ove si consideri che l’incompatibilità è collegata alla funzione giurisdizionale e non anche alla ricusazione in quanto tale, che presuppone un vulnus alla indipendenza o alla imparzialità del giudicante. Se così è, si comprende perché la Corte di Cassazione, nella decisione in commento, abbia ritenuto di applicare i principi del giudizio di cognizione al procedimento di prevenzione, atteso che l’oggetto del decidere della confisca è diverso da quello del sequestro e come non si possa argomentare, neppure facendo leva sugli indirizzi comunitari, ad una incompatibilità endoprocessuale. In tal modo si è dichiarato infondato il ricorso avanzato che invece sosteneva esservi incompatibilità tra l’adozione endoprocessuale” dei provvedimenti di sequestro e di confisca. Si dirà ma allora di che si discute? Si discute del fatto che assai spesso nell’adottare il provvedimento interinale il giudice viene non solo a conoscenza delle carte”, ma fondamentalmente esprime un giudizio sulle res iudicanda e quindi, volente o nolente, si esprime sulla stessa prima” del tempo dovuto. Per risolvere tale annoso problema, conviene non essere astratti l’incompatibilità, dunque, non è lo strumento adeguato poiché per definizione attiene in primo luogo alla divisione del lavoro interno alla magistratura e non anche e necessariamente alla prevenzione” di giudizi. L’alternativa più appropriata è allora considerare nel concreto l’atto, da cui si ritiene scaturisca una impropria id est illegittima anticipazione di giudizio se nel testo vi sono vere e proprie affermazioni in tal senso, la ragione della ricusazione di per sé è evidente e non può essere negata, facendo leva sulla natura formale” dell’atto, poiché ciò che interessa è quel che in concreto è stato scritto e detto. Il riferimento, quindi, è dato dal tenore letterale dell’art. 37, comma 1, lett. b , c.p.p., posto che la natura indebita” della manifestazione del convincimento si rinviene ogni qual volta tale convincimento viene manifestato al di fuori della sede opportuna o in maniera non opportuna, cioè con toni, espressioni o giudizi non richiesti o rilevanti o necessari per il compimento dell’atto. Si tenga ancora presente che il giudizio cautelare” reale è imperniato sulla regola del in dubio pro captatione ” posto che – al di là di formule di stile – si tratta di beni e non di persone e, quindi, lo standard richiesto per il fumus è nei fatti piuttosto modesto. Ciò che risulta, dunque, è che il giudice deve parlare bene” o, meglio, bene dicere ”, ma perché ciò sia è bene” che ciò avvenga nel luogo a ciò deputato e con parole non eccessive o strettamente utili allo scopo effettivo. Dopo tutto, la sintesi è una espressione della virtù della prudenza e la prudenza è alla base del rendere giustizia.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 18 maggio – 8 giugno 2017, n. 28651 Presidente Di Tomassi – Relatore Centonze Rilevato in fatto 1. Con ordinanza emessa il 05/05/2016 la Corte di appello di Roma dichiarava inammissibile l’istanza di ricusazione presentata da S.N. nei confronti dei componenti del Tribunale di Roma, Sezione misure di prevenzione - nelle persone di M.G. , C.A. e A.F. - che lo stavano giudicando nel procedimento n. 60/2016 M.P., in corso di svolgimento. La declaratoria di inammissibilità veniva adottata dalla Corte territoriale sul presupposto che il sequestro di prevenzione dei beni dell’istante precedentemente emesso dal Tribunale di Roma, Sezione misure di prevenzione, nella medesima composizione collegiale che stava valutando la possibilità di disporre la confisca di prevenzione dei beni del prevenuto, non costituiva una causa di ricusazione rilevante ai sensi dell’art. 37 cod. proc. pen., atteso che le due delibazioni non si ponevano tra loro in rapporto di incompatibilità, risultando autonome e non costituendo l’eventuale provvedimento di confisca la conferma del giudizio di pericolosità sociale espresso in via interinale nei confronti dello S. . 2. Avverso tale ordinanza lo S. , ricorreva per cassazione, mediante il ricorso proposto dall’avv. Maurizio Giannone e i motivi nuovi depositati dall’avv. Marcello Gallo. 2.1. Il ricorso introduttivo del presente procedimento veniva proposto dall’avv. Maurizio Giannone. Con tale ricorso si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, in riferimento agli artt. 34, comma 2, 37 cod. proc. pen., 8, par. 4, della Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio Europeo n. 42/2014/CE del 3 aprile 2014, conseguente al fatto che l’identità soggettiva dei componenti del Collegio che aveva emesso il decreto di sequestro dei beni dello S. rendeva evidente come tale decisione costituiva un’anticipazione del giudizio di pericolosità sociale del prevenuto, rispetto alla quale l’eventuale provvedimento di confisca - adottato all’esito del procedimento in corso di svolgimento davanti al Tribunale di Roma, Sezione misure di prevenzione - rappresentava una conferma della delibazione precedentemente espressa, lesiva delle garanzie di imparzialità del giudice. Secondo la difesa del ricorrente, il Tribunale di Roma, Sezione misure di prevenzione, intervenendo in sede cautelare, nella medesima composizione collegiale, aveva operato una valutazione del merito della vicenda giurisdizionale sottoposta alla sua cognizione ai fini della confisca di prevenzione richiesta. Ne conseguiva che le due delibazioni, riguardando lo stesso prevenuto e il medesimo procedimento di prevenzione, risultavano lesive dei principi affermati nella sentenza della Corte costituzionale 14 luglio 2000, n. 283, in riferimento all’art. 37 cod. proc. pen Si evidenziava, al contempo, che il provvedimento impugnato non teneva conto del principio affermato dall’art. 8, par. 4, della Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio Europeo n. 42/2014/CE del 3 aprile 2014 - a tenore del quale Gli Stati membri dispongono che vi sia l’effettiva possibilità di contestare il provvedimento di congelamento in sede giurisdizionale da parte delle persone i cui beni ne sono l’oggetto, in conformità delle procedure del diritto nazionale. Tali procedure possono prevedere che il provvedimento iniziale di congelamento emesso da un’autorità competente diversa da un’autorità giudiziaria sia sottoposto alla convalida o al riesame da parte di un’autorità giudiziaria prima di poter essere impugnato dinanzi a un organo giudiziario - in materia di misure di prevenzione. Si deduceva, in tale ambito, che le garanzie di imparzialità del giudizio e di terzietà del giudice dovevano essere assicurate, oltre che nelle ipotesi in cui l’imputato veniva processato davanti al giudice penale, anche nei casi in cui il soggetto risultava sottoposto a un procedimento avente a oggetto una misura di prevenzione. Tali parametri dovevano ritenersi violati nel caso di specie, atteso che, in sede di emissione dell’originario provvedimento cautelare, il Tribunale di Roma, Sezione misure di prevenzione, aveva espresso un giudizio sulla pericolosità sociale dello S. , incompatibile con i principi di terzietà e di indipendenza sopra richiamati, affermati dalla Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio Europeo n. 42/2014/CE del 3 aprile 2014 e ulteriormente ribaditi dalla Direttiva n. 343/2016/CE del 14 marzo 2016, adottata dal medesimo Organismo comunitario. In questo contesto, si richiamava l’art. 4, par. 1, della predetta Direttiva n. 343/2016/CE, a tenore del quale Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole. Ciò lascia impregiudicati gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o imputato e le decisioni preliminari di natura procedurale adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità . Queste ragioni processuali imponevano l’annullamento dell’ordinanza impugnata. 2.1.1. Queste argomentazioni venivano ribadite nelle memorie difensive del 10/11/2016 e del 20/04/2017, depositate dall’avv. Giannone, con cui la difesa dello S. , nel richiamare ulteriormente le ragioni che imponevano l’annullamento dell’ordinanza impugnata, chiedeva il rinvio pregiudiziale del procedimento alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, onde consentirne il vaglio di compatibilità con la Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio Europeo n. 42/2014/CE del 3 aprile 2014 e con la Direttiva n. 346/2016/CE 343/2016/CE del 14 marzo 2016, sopra richiamate. In via subordinata, si chiedeva che venisse rimessa preliminarmente la questione sollevata con riferimento alla posizione dello S. alle Sezioni unite, ponendosi la lettura delle disposizioni applicate nel caso di specie in contrasto con l’art. 8, par. 4, della Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio Europeo n. 42/2014/CE del 3 aprile 2014. 2.2. Tali doglianze difensive venivano ulteriormente ribadite con l’atto di impugnazione con i contestuali motivi nuovi presentato, nell’interesse di S.N. , dall’avv. Marcello Gallo. Con tale atto, in linea con le doglianze difensive esplicitate nel ricorso dell’avv. Giannone, su cui ci si è già soffermati, si richiamavano le ragioni che imponevano l’annullamento dell’ordinanza impugnata, come conseguenza della violazione degli artt. 36 e 37 cod. proc. pen La difesa dello S. , inoltre, chiedeva che venisse valutata l’opportunità di trasmettere gli atti del presente procedimento alla Corte costituzionale, affinché si pronunciasse sulla compatibilità delle disposizioni censurate con le previsioni degli artt. 3 e 111, comma secondo, Cost., essendo emersa nel caso in esame una situazione di incompatibilità endoprocessuale, risolubile attraverso un preventivo vaglio di costituzionalità. Queste ragioni processuali imponevano l’annullamento dell’ordinanza impugnata. Considerato in diritto 1. Il ricorso proposto nell’interesse di S.N. deve ritenersi infondato. 2. In via preliminare, deve rilevarsi che costituisce un dato ermeneutico incontroverso quello secondo cui le norme sull’incompatibilità del giudice come causa di ricusazione traggono il proprio fondamento dal sistema di garanzie sull’imparzialità dell’autorità giudiziaria, previste per il processo di cognizione e applicabili al procedimento di prevenzione in quanto compatibili. Ne consegue che nel procedimento di prevenzione trovano applicazione tutte le disposizioni volte a garantire la terzietà e l’imparzialità del giudice previste per il processo di cognizione, in conseguenza della natura pienamente giurisdizionale del procedimento di prevenzione. Sul punto, non si può non richiamare la giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo la quale La ricusazione del giudice è ammessa anche nel procedimento di prevenzione, considerato che ad esso sono applicabili, in quanto compatibili, le norme del processo penale art. 4, ult. comma, L. n. 1423 del 1956 e, quindi, anche quelle preordinate a garantire la terzietà e l’imparzialità del giudice, avuto riguardo alla natura giurisdizionale del procedimento de quo cfr. Sez. 5, n. 3278 del 16/10/2008, dep. 2009, Nicitra, Rv. 242942 si veda, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 1, n. 43081 del 27/05/2016, Arena, Rv. 268666 . L’incontroversa natura giurisdizionale del procedimento di prevenzione, del resto, ne ha comportato la soggezione al principio di immutabilità del giudice, sancito dall’art. 525, comma 2, cod. proc. pen., che implica che la decisione sia assunta dall’autorità giudiziaria che ha provveduto alla sua istruzione e alla sua trattazione. In questo contesto, è pacifica l’applicazione al procedimento di prevenzione delle norme in materia di ricusazione, che mirano ad assicurare al prevenuto un giudice imparziale principio, questo, che costituisce il fondamento dei canoni costituzionali del giusto processo, che devono essere osservati anche nel procedimento di prevenzione cfr. Sez. 1, n. 43882 del 21/10/2005, Franzè, Rv. 232891 Sez. 5, n. 5737 del 15/01/2004, Bertin, Rv. 228072 . Né rileva, in senso contrario, la circostanza che, nell’art. 37 cod. proc. pen., si parli di sentenza, mentre il procedimento di prevenzione si conclude con un decreto, atteso che questa Corte, da tempo, ha affermato che il provvedimento applicativo di una misura di prevenzione assume la natura sostanziale di sentenza, consistendo in una decisione di merito che conclude una fase o un grado del procedimento, suscettibile di impugnazione e idonea ad acquistare autorità di giudicato cfr. Sez. 1, n. 32492 del 10/07/2015, Lampada, Rv. 264621 Sez. 6, n. 28837 del 26/06/2002, Paggiarin, Rv. 222755 . Occorre, pertanto, ribadire che la natura giurisdizionale del procedimento di prevenzione comporta l’applicazione dei principi e degli istituti tipici del processo penale, tra cui quelli della terzietà e dell’imparzialità del giudice, affermati dall’art. 111, comma secondo, Cost., dal quale discende, nelle ipotesi in esame, la rilevanza della norma sulla ricusazione, prevista dall’art. 37, comma 1, lett. b , cod. proc. pen., e risultante la Corte costituzionale cefi la sentenza n. 283 del 2000. 3. Nella cornice ermeneutica descritta nel paragrafo precedente occorre passare a considerare i singoli atti di impugnazione, proposti nell’interesse di S.N. , prendendo le mosse dal ricorso introduttivo del presente procedimento, presentato dall’avv. Maurizio Giannone. 3.1. Con l’atto di impugnazione presentato dall’avv. Giannone si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, in riferimento agli artt. 34, comma 2, 37 cod. proc. pen., 8, par. 4, della Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio Europeo n. 42/2014/CE del 3 aprile 2014, conseguente al fatto che l’identità soggettiva dei componenti del Collegio che aveva emesso il decreto di sequestro dei beni dello S. , in via provvisoria, con quelli del Collegio che avrebbe dovuto decidere sulla confisca di prevenzione richiesta dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma rendeva evidente come tale delibazione costituisse un’anticipazione del giudizio di pericolosità sociale del prevenuto. Tali doglianze difensive risultano destituite di fondamento. Osserva, in proposito, il Collegio che, nel caso in esame, non ci si riferisce a una delibazione emessa a conclusione di un procedimento di prevenzione dagli stessi giudici che, in un differente procedimento, avevano esaminato la medesima piattaforma probatoria, ma al diverso caso in cui i giudici ricusati sono intervenuti nella fase interinale dello stesso giudizio, al solo fine di evitare la dispersione dei beni per i quali era stata richiesta la confisca di prevenzione. Ne discende che il Tribunale di Roma, Sezione misure di prevenzione, nella fase interinale del procedimento instaurato nei confronti dello S. ha emesso un decreto di sequestro dei beni del prevenuto allo stato degli atti che, in quanto tale, non costituisce un’anticipazione del giudizio di pericolosità espresso nei suoi confronti, essendo superabile dal prosieguo dell’attività istruttoria svolta nello stesso procedimento e dall’acquisizione di ulteriori elementi valutativi. Né potrebbe essere diversamente, atteso che la valutazione conclusiva espressa all’esito di un procedimento di prevenzione, nel corso del quale le parti hanno avuto modo di confrontarsi dialetticamente, non può essere assimilata sul piano delle garanzie dei principi di terzietà e imparzialità del giudice, affermati dall’art. 111, comma secondo, Cost. - alla valutazione provvisoria compiuta ai fini del sequestro dei beni, la cui finalità è soltanto quella di evitare la dispersione dei beni nei cui confronti è stato chiesto l’esercizio dei poteri ablativi propri della confisca di prevenzione. Occorre, dunque, ribadire l’autonomia funzionale dei due provvedimenti, dalla quale deriva l’insussistenza di un’incompatibilità endoprocessuale dei giudici che intervengono nella medesima fase del procedimento di prevenzione, emettendo, dapprima, il provvedimento di sequestro e, successivamente, quello di confisca degli stessi beni cfr. Sez. 3, n. 1738 dell’11/11/2014, dep. 2015, Bartolini, Rv. 261929 Sez. 2, n. 13678 del 27/03/2009, Zaccaria, Rv. 244253 . D’altra parte, nella prospettiva giurisdizionale propria del procedimento di prevenzione, la confisca rappresenta uno dei possibili sviluppi del procedimento, in ragione del fatto che l’ablazione dei beni presuppone un giudizio di pericolosità sociale che deve essere compiuto, in contraddittorio con le parti processuali, sulla base di una valutazione del compendio probatorio rispetto alla quale l’originario provvedimento di sequestro viene adottato allo stato degli atti e svolge unicamente la funzione di assicurare la non dispersione del patrimonio oggetto della possibile - ma non necessaria - ablazione cfr. Sez. 3, n. 35330 del 21/06/2016, Nardelli, Rv. 267649 Sez. 3, n. 41073 del 30/09/2015, Scogamiglio, Rv. 265028 . 3.2. Ricostruiti in questi termini il contesto ermeneutico e il rapporto funzionale esistente tra il sequestro finalizzato alla confisca e il provvedimento definitivo di ablazione del bene, deve escludersi che le disposizioni degli artt. 36 e 37 cod. proc. pen. si presentino disarmoniche rispetto alle previsioni degli artt. 111, comma secondo, Cost. e 8, par. 4, della Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio Europeo n. 42/2014/CE del 3 aprile 2014. Queste conclusioni impongono di escludere la ricorrenza delle condizioni legittimanti il rinvio pregiudiziale del procedimento alla Corte di giustizia dell’Unione Europea - nei termini esplicitati dall’avv. Maurizio Giannone nei suoi atti di impugnazione - allo scopo consentirne il vaglio di compatibilità con la Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio Europeo n. 42/2014/CE del 3 aprile 2014 e con la Direttiva n. 343/2016/CE del 14 marzo 2016, adottata dal medesimo Organismo comunitario ed entrata in vigore il 31/03/2017. Analoghe considerazioni valgono per la richiesta avanzata in via subordinata dallo stesso difensore, con la quale si chiedeva che venisse rimessa preliminarmente la questione sollevata con riferimento alla posizione dello S. alle Sezioni unite, ponendosi la lettura delle disposizioni applicate nel caso di specie in contrasto con l’art. 8, par. 4, della Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio Europeo sopra citata. Occorre, dunque, ribadire - in linea con quanto affermato nel paragrafo 2, cui si deve rinviare - che nessuna violazione dei principi di imparzialità e di terzietà del giudice può ravvisarsi nelle ipotesi assimilabili al caso in esame, che non si caratterizzano per l’identità dei presupposti valutativi sui quali si fonda il giudizio espresso dall’autorità giudiziaria, ma su una piattaforma probatoria differente, che è il portato della diversità degli scopi perseguiti, nell’ambito della stessa fase del procedimento di prevenzione, dal sequestro finalizzato alla confisca e dal successivo e solo eventuale provvedimento ablativo cfr. Sez. 3, n. 1738 dell’11/11/2014, dep. 2015, Bartolini, cit. Sez. 2, n. 13678 del 27/03/2009, Zaccaria, cit. . Non è, pertanto, dubitabile l’inapplicabilità al caso in esame delle disposizioni invocate dalla difesa del ricorrente, atteso che tale previsioni, all’evidenza, riguardano ipotesi in cui il provvedimento ablativo viene esercitato sulla base della medesima piattaforma valutativa e in differenti ambiti procedimentali, rappresentati da fasi diverse dello stesso procedimento ovvero da differenti procedimenti presupposti, questi, pacificamente non ricorrenti nel caso in esame, dove il Tribunale di Roma, Sezione misure di prevenzione, interveniva nella fase cautelare del procedimento di prevenzione instaurato nei confronti dello S. e non era ancora intervenuto a conclusione del procedimento medesimo. Queste considerazioni impongono di ritenere infondato il ricorso proposto dall’avv. Maurizio Giannone. Per le medesime ragioni, deve escludersi che sussistano i presupposti per il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di giustizia dell’Unione Europea e per la rimessione della questione sollevata dallo S. alle Sezioni unite di questa Corte, nei termini prospettati dallo stesso avv. Giannone in via subordinata all’accoglimento della doglianza principale. 4. Le considerazioni che si sono espresse nei paragrafi precedenti impongono di escludere ulteriormente la sussistenza di contrasti tra le previsioni degli artt. 36 e 37 cod. proc. pen. e le norme degli artt. 3 e 111, comma secondo, Cost., nei termini enunciati con l’atto di impugnazione con i contestuali motivi nuovi presentato dall’avv. Marcello Gallo. 4.1. Tale atto di impugnazione prendeva le mosse dalla disamina della previsione dell’art. 111, comma secondo, Cost. che, secondo la difesa dello S. , il provvedimento impugnato aveva disatteso, trascurando di considerare che tale disposizione mira ad assicurare l’imparzialità del giudice anche nella fase cautelare del procedimento penale, così come affermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 283 del 2000. Le garanzie di imparzialità del giudice, secondo la difesa del ricorrente, imponevano di escludere che il giudice chiamato a svolgere funzioni di giudizio potesse essere - o anche solo apparire - condizionato da precedenti valutazioni, espresse sulla stessa res judicanda , tali da esporlo alla forza della prevenzione derivante dalle attività giudiziarie precedentemente svolte . Osserva, innanzitutto, il Collegio che la questione dell’imparzialità del giudice, relativamente alle sue delibazioni endoprocessuali, da almeno un ventennio, è stata vagliata dalla Corte costituzionale che ha precisato i confini di eventuali pregiudizi delle garanzie giurisdizionali in numerose pronunzie, tra cui, ai presenti fini, si ritiene di richiamare soprattutto le sentenze 17 aprile 1996, n. 131 e 18 giugno 1997, n. 308, che occorre ripercorrere sinteticamente in questa sede, attesa la loro pertinenza alla vicenda in esame. Tali pronunzie del Giudice delle leggi, infatti, ci consentono di escludere la fondatezza delle censure di costituzionalità degli artt. 36 e 37 cod. proc. pen., proposte dall’avv. Gallo, sulle quali la Corte costituzionale interveniva con argomentazioni esportabili alla vicenda in esame. 4.2. Con la prima di tali pronunzie, la Corte costituzionale evidenziava che il presupposto di ogni incompatibilità endoprocessuale - pacificamente non ricorrente nel caso in esame secondo la giurisprudenza di legittimità, cui ci si è riferiti nel paragrafo 3, al quale si rinvia cfr. Sez. 3, n. 35330 del 21/06/2016, Nardelli, cit. Sez. 3, n. 41073 del 30/09/2015, Scogamiglio, cit. - è la preesistenza di valutazioni che ricadono sulla medesima res judicanda , condizionando l’imparzialità del giudice. Ne consegue che ciò che rileva ai fini dell’eventuale incompatibilità del giudice non è la semplice conoscenza di atti anteriormente compiuti, ma l’identità del giudizio, che rileva quando le valutazioni rilevanti ai fini dell’insorgere dell’incompatibilità, appartengono a fasi diverse del processo, essendo più che ragionevole che, in ciascuna di esse, sia preservata l’esigenza di continuità e di globalità cfr. C. cost. 17 aprile 1996, n. 131 . Né potrebbe essere diversamente, atteso che l’imparzialità del giudice non può dirsi, in via generale, intaccata da una qualsiasi valutazione compiuta nello stesso procedimento penale, intesa quale ordinata sequenza di atti, ciascuno dei quali legittima, prepara e condiziona quello successivo. Invero, tenuto conto del fatto che ogni provvedimento ordinatorio o istruttorio implica o può implicare una delibazione del merito, laddove si dovesse ritenere altrimenti, ne deriverebbe un’irragionevole frammentazione del procedimento, con l’attribuzione di ciascun segmento di esso a un giudice diverso soluzione, questa, che, inevitabilmente, finirebbe per paralizzare l’attività giurisdizionale, come ripetutamente affermato da questa Corte cfr. Sez. 6, n. 16453 del 10/02/2015, Celotto, Rv. 263576 Sez. 6, n. 42975 del 22/09/2003, Neziri Bashkim Rv. 227619 . In altri termini, come evidenziato dalla Corte costituzionale, il divieto di cumulo di decisioni diverse sulla stessa materia, nello stesso soggetto investito del compito di giudicare, è la conseguenza delle connotazioni necessariamente originarie della decisione che definisce il procedimento, in opposizione a ogni confluenza in tale delibazione in opinioni precostituite in altre fasi processuali dalla stessa persona fisica. Ne consegue che l’incompatibilità endoprocessuale opera esclusivamente a quello scopo, per esonerare l’esito del processo dall’eccessivo carico delle qualità e delle propensioni, inevitabilmente personali, dei giudici che vi partecipano nella loro funzione giurisdizionale cfr. C. cost. 17 aprile 1996, cit. . Ne discende che l’imparzialità della funzione giudicante deve ritenersi pregiudicata dalla precedente assunzione di decisioni, laddove queste vengano adottate in un’altra fase del procedimento, ma non può rilevare nell’ambito della stessa fase processuale, a maggior ragione quando - come nel caso di specie ci si trova di fronte a delibazioni giurisdizionali che vengono adottate allo stato degli atti. Tali conclusioni, del resto, discendono dai principi consolidati nell’ambito della giurisprudenza costituzionale, che, nella stessa sentenza n. 131 del 1996, hanno fatto affermare alla Corte costituzionale che le incompatibilità dei giudici determinate da ragioni interne allo svolgimento del processo sono finalizzate a evitare che condizionamenti, o apparenze di condizionamenti, derivanti da precedenti valutazioni cui il giudice sia stato chiamato nell’ambito del medesimo procedimento, possano pregiudicare o far apparire pregiudicata l’attività di giudizio non anche altre attività processuali anteriori o propedeutiche al giudizio ordinanza n. 24 del 1996, sentenza n. 401 del 1991 . cfr. C. cost. 17 aprile 1996, cit. . Né rilevano, sotto questo profilo, le deduzioni espresse dalla difesa dello S. , secondo cui le garanzie processuali prefigurate dal legislatore in tema di imparzialità del giudice si propongono di apprestare la necessaria tutela del giusto processo, in tutti quei casi in cui può risultare compromessa l’imparzialità del decidente, in conseguenza del fatto che l’organo giurisdizionale ha manifestato il proprio convincimento all’interno del medesimo procedimento mediante un atto o l’esercizio di una funzione a cui si attribuisce un effetto pregiudicante per il soggetto giudicato. Da questo punto di vista, alla luce dei principi affermati nella sentenza della Corte costituzionale n. 131 del 1996, non appaiono pertinenti i riferimenti alle sentenze della stessa Consulta nn. 306, 307 e 308 del 26 luglio 1998, compiuti dalla difesa dello S. , atteso che tali richiami non tengono conto della cornice ermeneutica nella quale occorre inserire l’incompatibilità endoprocessuale, così come prefigurata dalla stessa decisione n. 131 del 1996. 4.3. Sul tema dell’incompatibilità endoprocessuale la Corte costituzionale interveniva anche con la sentenza n. 308 del 1997, le cui conclusioni appaiono parimenti esportabili al caso in esame. Secondo la Corte costituzionale, l’imparzialità del giudice non può dirsi, in via generale, pregiudicata da una qualsiasi valutazione giurisdizionale compiuta nello stesso procedimento, anche quando la decisione interviene nella medesima fase del procedimento, ma solo da quelle delibazioni che ricadono su un’identica res judicanda cfr. C. cost. 18 giugno 1997, n. 308 . Diverso, invece, è il caso in cui ci si trovi di fronte a una manifestazione indebita del convincimento del giudice sui fatti oggetto dell’imputazione, avvenuta senza alcuna necessità e senza alcun collegamento con l’attività giurisdizionale ovvero fuori della sede processuale e dei compiti che gli sono propri cfr. C. cost. 18 giugno 1997, cit. . In ipotesi di questo genere, le ragioni del pregiudizio, proprio per la loro evidenza, appaiono oggettive e rilevano sia nel caso in cui il giudice abbia manifestato il suo convincimento come soggetto privato, sia nel caso in cui il convincimento sia stato manifestato nell’ambito di funzioni svolte in un procedimento penale, operando egualmente, in entrambi i casi, la cosiddetta forza della prevenzione cfr. C. cost. 18 giugno 1997, cit. . A questi principi si sono conformate le Sezioni unite che, sin dal 2005, hanno precisato i connotati dell’indebita manifestazione del pensiero del giudice, affermando L’indebita manifestazione del convincimento da parte del giudice espressa con la delibazione incidentale di una questione procedurale, anche nell’ambito di un diverso procedimento, rileva come causa di ricusazione solo se il giudice abbia anticipato la valutazione sul merito della res iudicanda , ovvero sulla colpevolezza dell’imputato, senza che tale valutazione sia imposta o giustificata dalle sequenze procedimentali, nonché quando essa anticipi in tutto o in parte gli esiti della decisione di merito, senza che vi sia necessità e nesso funzionale con il provvedimento incidentale adottato cfr. Sez. U, n. 41263 del 27/09/2005, Falzone, Rv. 232067 . Si tratta, tuttavia, di una situazione estrema, difficilmente riscontrabile nell’esperienza concreta, che non risulta neppure dedotta nel caso in esame dai difensori dello S. . Queste ragioni impongono di ritenere infondato l’atto di impugnazione con i contestuali motivi nuovi presentato dall’avv. Marcello Gallo. Per le medesime ragioni, deve escludersi che sussistano i presupposti per la rimessione della questione sollevata dallo S. alla Corte costituzionale, nei termini prospettati dallo stesso avv. Gallo in via subordinata all’accoglimento della doglianza principale. 5. Ne discende conclusivamente il rigetto del ricorso proposto nell’interesse di S.N. , con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.