L’intervento inquinante del pubblico ufficiale nel processo penale

La fattispecie di reato prevista dall’art. 375 c.p. e recante Frode in processo penale e depistaggio” è prevista come reato proprio dell’attività del pubblico ufficiale, o dell’incaricato del pubblico servizio, la cui qualifica preesista alle indagini e sia in rapporto di connessione funzionale con l’accertamento che si assume inquinato.

Lo ha sancito la Suprema Corte con sentenza n. 24557/17 depositata il 17 maggio. Il caso. Il Tribunale respingeva il gravame proposto dalle due ricorrenti avverso l’ordinanza del GIP che disponeva, nei confronti della prima, gli arresti domiciliari, mentre, nei confronti della seconda, il divieto di dimora nel Comune di Arenzano. Il tutto avveniva in ordina all’imputazione di cui all’art. 375 c.p. recante Frode in processo penale e depistaggio . Le ricorrenti, adita la Cassazione, lamentano, fra l’altro, la riconducibilità dei fatti a loro addebitati, quale, ad esempio, l’istigazione dei colleghi vigili urbani a dichiarare il falso nel procedimento penale a loro carico, nella fattispecie di reato contestata. Depistaggio nel processo penale. A tal proposito, il Collegio di legittimità, ritiene di dover fissare il principio di diritto secondo cui l’art. 375 c.p. si configura come reato proprio dell’attività del pubblico ufficiale, o dell’incaricato del pubblico servizio, la cui qualifica preesista alle indagini e sia in rapporto di connessione funzionale con l’accertamento che si assume inquinato . In tal senso, prosegue la Corte, la condotta illecita deve risultare finalizzata proprio all’alterazione dei dati che compongono l’indagine o il processo penale ove il pubblico ufficiale risulti posto in condizione di spiegare il proprio intervento inquinante . Pertanto, tutte le volte in cui tali condizioni non si verifichino, come nel caso in questione, la fattispecie di reato non può ritenersi configurata. La Corte annulla l’ordinanza impugnata e revoca le misura cautelari in atto.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 30 marzo – 17 maggio 2017, n. 24557 Presidente Conti – Relatore Petruzzellis Ritenuto in fatto 1. Il Tribunale di Napoli, con ordinanza del 16/11/2016, ha respinto il riesame proposto dalle attuali ricorrenti avverso l’ordinanza del 28/10/2016 del Gip presso il Tribunale di Napoli che ha disposto gli arresti domiciliari nei confronti di M.R. ed imposto il divieto di dimora nel Comune di nei confronti di D.R.S. , in relazione all’imputazione di cui all’art. 375 cod. pen. 2. La difesa di M. nel suo ricorso deduce 2.1.violazione di legge penale in relazione all’art. 375 cod. pen Si contesta la possibilità di qualificare i fatti addebitati - aver istigato dei colleghi, vigili urbani, ad offrire dichiarazioni mendaci per favorirla nell’ambito di un procedimento penale riguardante vicende personali - nella fattispecie di reato contestata, posto che la qualifica di pubblico ufficiale considerata dalla norma come essenziale per la configurazione del reato proprio, è connessa all’effettivo svolgimento di funzioni, che non vengono in rilievo, posto che con l’attività che i pretesi istigati avrebbero svolto nella situazione riferita questi non contribuivano a formare la volontà della P.A Si segnala che l’audizione dei VV.UU., tra i quali la D.R. , non è avvenuta nell’ambito di una delega di indagini ad essi attribuita dal P.m., ma è stata disposta a seguito della loro segnalazione in qualità di testi a cura della difesa M. . A conferma della lettura offerta si contrasta l’interpretazione resa dal Tribunale sul comma 7 della norma incriminatrice, che estende la punibilità anche al fatto commesso dal pubblico ufficiale in quiescenza, poiché si ritiene, in senso opposto a quanto valutato nel provvedimento impugnato, che proprio tale riserva faccia salva la punibilità di atti compiuti nel corso dell’attività, anche ove nel frattempo questa sia cessata, ed evidenzi che non è consentito includere nella fattispecie tipica attività private, consumate da persone che rivestano la qualifica di pubblico ufficiale, per la loro attività lavorativa, come avvenuto nella specie. Sulla base di tali elementi si contesta la mancata qualificazione dei fatti nel reato di cui all’art. 371-bis cod. pen., che prevede la consumazione dell’azione da parte di chiunque, posto che la qualifica professionale non interferisce nella realizzazione del fatto specifico contestato. Si ritiene che il mancato accoglimento di tale chiave interpretativa possa dar luogo ad un dubbio di costituzionalità della nuova disposizione penale, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost., eccezione che si solleva in via di subordine. 2.2. violazione di legge penale e vizio della motivazione, in relazione alla mancata applicazione dell’art. 49 cod. pen Si rileva che le false dichiarazioni rilasciate da D.R. riguardano accadimenti dei primi mesi del 2015, mentre l’accusa già formulata nei confronti dell’odierna ricorrente attiene ad episodi del novembre dell’anno precedente, cosicché tali dichiarazioni, anche se ipoteticamente false, non possedevano alcuna capacità di incidere sull’accertamento dei fatti a carico della M. . 2.3. violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione all’accertamento di sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, malgrado dal complesso delle intercettazioni ambientali si ricavi la presenza di un intervento spontaneo dei colleghi in favore della donna, nell’ambito del quale risultano tutti aver riferito fatti realmente accaduti, riscontrati dalle circostanze riferite. Si contesta la mancata valutazione di tali elementi nel provvedimento impugnato, ai fini della verifica della gravità indiziaria. 2.4. violazione di legge penale e vizio di motivazione, quanto alla mancata individuazione degli elementi indiziari sul concorso morale della M. nel reato contestato, che non può esaurirsi nella conoscenza dei propositi dei pretesi concorrenti. Manca inoltre qualsiasi individuazione concreta della pretesa condotta istigatrice. 3. La difesa di D.R. nel suo ricorso illustra con il primo ed il secondo motivo i medesimi rilievi già illustrati sub 2.1. e 2.2. 3.1. Con ulteriore motivo si eccepisce violazione di legge penale e vizio di motivazione, in relazione alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, poiché si contesta che dagli elementi acquisiti possa evincersi la presenza di un accordo teso ad alterare la ricostruzione di fatti, in quanto i tre dichiaranti hanno offerto elementi ricostruttivi su circostanze autonome, riscontrate dalla verifica dei contesti descritti. Si rileva che su tale profilo, ampiamente trattato nella memoria depositata, non è stata offerta alcuna valutazione dal Tribunale, che è tenuto alla confutazione completa degli argomenti difensivi. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato quanto al primo motivo proposto da entrambe le ricorrenti, riguardante la mancanza di elementi indiziari del reato contestato, il che comporta l’assorbimento degli ulteriori profili di impugnazione. 2. Come esposto in narrativa i provvedimenti cautelari applicati trovano causa nell’accertamento di gravi indizi del reato di cui all’art. 375 cod. pen., introdotto con la l. 11/07/2016 n. 133, e ne ravvisano gli estremi nell’espressione di dati falsi al P.m. da parte di D.R. e di altri due vigili la loro audizione era stata disposta su sollecitazione della difesa di Ma. . Le dichiarazioni erano tese a ricostruire circostanze che la D.R. aveva percepito in occasione del suo lavoro di vigile urbano, ma non a causa di tale attività. In particolare tale occasionalità nasceva dalla circostanza che, secondo quanto narrato, ella aveva potuto cogliere un incontro tra la M. e il suo antagonista negli uffici comunali, in quanto era lì era presente per svolgere il suo lavoro, che non riguardava in alcun modo gli interessi dei contendenti cui ha fatto riferimento. Analoghe circostanze, estranee allo svolgimento dell’attività lavorativa, risultano essere state esposte dai terzi non raggiunti dal provvedimento oggi impugnato, a cui si attribuisce l’espressione di dati falsi. 3. Ciò doverosamente premesso in fatto, mette conto preliminarmente di occuparsi della possibilità di inquadrare l’attività indicata, e la correlativa contestazione di concorso morale in qualità di istigatrice in capo alla M. , nella fattispecie contestata. Si deve rilevare che la nuova disciplina punisce il pubblico ufficiale o l’incaricato del pubblico servizio che, mosso dal dolo di impedire, ostacolare o sviare l’indagine o un processo penale, immuta lo stato dei luoghi o formula affermazioni false o reticenti. Appare evidente dalla stessa formulazione normativa che la tipizzazione delle condotte risulta del tutto identica a quella che caratterizza gli ulteriori reati - frode processuale, false informazioni al P.m., falsa testimonianza distinguendosi da essi quanto alla richiesta del dolo specifico, e per la considerazione della qualifica soggettiva. Si è osservato altresì che tale previsione consente di includere nell’incriminazione anche le false informazioni rese alla p.g. delegata, attività in precedenza qualificata quale favoreggiamento. Si deve poi rilevare che, contrariamente agli originari intenti riformatori, la previsione incriminatrice risulta applicabile al possibile inquinamento di tutte le indagini penali e non solo a quelle inerenti ai reati più gravi che hanno fatto registrare nella storia della Repubblica inquietanti episodi di depistaggio, la cui reiterata verificazione ha dichiaratamente motivato la scelta riformatrice ciò impone di operare una rigida delimitazione dell’ambito di applicazione, ricercando, anche nei minimi elementi caratterizzanti, un rigoroso discrimine tra tale nuova fattispecie e quelle citate, vigenti in precedenza, di cui è stata confermata la coesistenza, ponendosi all’evidenza un problema di corretto coordinamento con queste. 4. Bisogna preliminarmente interrogarsi, alla luce delle scarne indicazioni normative, se sia possibile che la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio costituisca un elemento essenziale del reato in via di fatto, a prescindere dalla connessione tra tale qualità e le attività a cui si correla l’illecito attribuito, e possa considerarsi rientrante negli elementi tipici della fattispecie, anche in situazioni di totale accidentalità della stessa rispetto all’oggetto dell’indagine. L’interrogativo assume effetto dirimente nel caso concreto posto che, come evidenziato, la qualità rivestita dalla dichiarante non ha alcuna correlazione causale con la percezione dei fatti, ma la sua fisica presenza nell’ufficio ha costituito solo l’occasione per apprendere le circostanze su cui la D.R. ha poi riferito. 5. Si ritiene che la risposta a tale interrogativo non possa essere che nel senso della rilevanza della connessione tra qualità ed attività caratterizzante la stessa, per un duplice ordine di ragioni. Sotto un primo profilo deve evidenziarsi che, malgrado la mancata specificazione delle ipotesi di reato in relazione alle quali potrebbe assumere rilievo penale l’attività di false dichiarazioni, l’elevata previsione sanzionatoria guida nel connettere l’obbligo di dire la verità ad un dovere inerente specificamente alla funzione, il cui svolgimento implica una fisiologica convergenza di interessi tra pubblica amministrazione rappresentata e dipendente chiamato a svolgerne le funzioni. Si deve inoltre rilevare che l’ulteriore elemento caratterizzante della disciplina è costituito dal dolo specifico, elemento psicologico incompatibile con il dolo eventuale, cosicché l’esclusiva, o quanto meno preminente e diretta necessità di sviare le indagini non può che essere logicamente connessa a specifici compiti inerenti allo svolgimento di tale attività in caso contrario, atteggiandosi solitamente la finalità dell’intervento inquinatorio in favore di una persona, la conseguenza ricaduta sulla deviazione delle indagini non emergerebbe come necessariamente costitutiva del proposito di agire, e pertanto, pur realizzando formalmente l’elemento caratterizzante del reato, tale estremo risulterebbe di difficile dimostrazione. Un ulteriore profilo testuale sostiene tale chiave di lettura il mancato ampliamento nella novella normativa delle cause di non punibilità inerenti alla necessità di essere costretti di salvare sé o altri dal pericolo ai sensi dell’art. 384 cod. pen. L’indifferenza rispetto ai diritti personali o della considerazione dei vincoli familiari che emerge da tale scelta legislativa evidenzia la necessità di un riconoscimento di preminenza del dovere di collaborazione che discende dal rapporto professionale, che ulteriormente impone la preesistenza, rispetto al fatto, della qualità di pubblico ufficiale - e ciò esclude dall’applicazione della fattispecie il testimone che acquisisce tale qualifica con l’assunzione della funzione - e la maggiore valenza del vincolo funzionale con lo Stato, rispetto agli interessi personali, considerati pertanto inesorabilmente recessivi rispetto ai doveri derivanti dalla funzione. Solo tale vincolo riesce a caratterizzare, in maniera riconoscibile, il dolo specifico richiesto, cosicché deve individuarsi l’elemento tipico del reato nella violazione del dovere di fedeltà connesso alla preesistenza della qualifica rispetto al reato, in ragione della quale si richiede il più pregnante rispetto dell’obbligo di agire nell’interesse comune, preminente su ogni altro concorrente valore, cui deve attribuirsi, per l’effetto, considerazione subvalente. 6. Le conclusioni raggiunte non risultano contraddette dalla previsione, richiamata dal giudice di merito, attinente alla rilevanza attribuita alla qualità richiesta, anche nell’ipotesi di sopraggiunta cessazione dal servizio. Tale previsione non è nuova nel nostro sistema, posto che l’art. 360 cod. pen., nel dettare i principi generali in tema di reati contro la pubblica amministrazione, già chiarisce che la cessazione della qualità di pubblico ufficiale o esercente un pubblico servizio, ove tale qualità realizzi un elemento costitutivo del reato, non esclude quest’ultimo se il fatto si riferisce all’ufficio o al servizio esercitato il testo richiamato appare più ampio della previsione novellatrice, nella parte in cui non si limita a far riferimento all’applicazione della pena, come l’art. 375 comma 7 cod. pen., ma sottolinea la persistenza degli elementi costitutivi del reato, pur nel caso di sopravvenienza di cessazione del servizio. A ciò consegue che dall’indicazione contenuta nella nuova disposizione non possa desumersi alcuna conclusione in punto di amplificazione della fattispecie di reato, al di là di quanto emerga dall’analisi sistematica sopra svolta, nel senso di attribuire a quest’ultima la funzione di reato di posizione, consumabile al di là di ogni rapporto funzionale del fatto con tale ruolo, e quindi riproponibile anche alla cessazione di esso, ma debba considerarsi una precisazione ultronea rispetto ai principi generali in materia. Tale conclusione emerge dalla circostanza che la formulazione testuale della nuova previsione non opera alcun riferimento all’esercizio della funzione al momento della commissione del reato, contrariamente a quanto previsto dalla norma generale, ma richiama solo l’applicazione della pena anche nell’ipotesi in cui sia sopraggiunta la cessazione dal servizio, condizione che evidentemente non svincola dal richiamato dovere di lealtà, e ne conferma la sopravvivenza rispetto a fatti o circostanze conosciute o a cui si è avuto accesso in correlazione con l’esercizio della funzione e rispetto ai quali si conserva un obbligo accentuato di rispetto della verità. 7. La lettura sistematica della nuova disposizione impone di escludere la fondatezza dell’interpretazione posta a base della decisone oggi impugnata. Come già illustrato, nel caso concreto l’elemento tipico della fattispecie del reato proprio contestato è stato individuato nella qualità di pubblico ufficiale che la dichiarante possedeva per la sua qualifica professionale, pur in mancanza di un nesso di funzionalità tra lo stesso ed i fatti che era stata chiamata a riferire. Tale condizione rifluisce sulla configurabilità del reato, caratterizzato da dolo specifico posto che nella specie, pacifica, in tesi di accusa, la volontà di favorire la M. , la prospettata possibilità di sviamento delle indagini non poteva che essere percepita quale una conseguenza, voluta come naturale effetto della prima finalità, non quale determinazione principale, essenziale al fine della configurazione della fattispecie. 8. La richiesta della preesistenza della qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, e la sua correlazione funzionale con l’attività di indagine, e dunque con la finalità della condotta, non lascia scoperti ambiti di tutela ritenuti essenziali in sede di novellazione, posto che, nell’ipotesi di mancata ricorrenza di tale condizioni, e di un’incidenza di false dichiarazioni al P.m. - per limitarsi alla considerazione della fattispecie considerata nel provvedimento in esame - sull’accertamento dei più gravi delitti di terrorismo o di criminalità organizzata considerati nel comma 3 della fattispecie in esame, è stata prevista la specifica aggravante del reato comune, all’art. 384-ter cod. pen. richiamo che costituisce ulteriore causa di sostegno della delimitazione nell’applicazione del delitto contestato, nel senso qui considerato. 9. Sulla base delle considerazioni esposte deve quindi fissarsi il seguente principio di diritto L’art. 375 cod. pen. si configura come reato proprio dell’attività del pubblico ufficiale, o dell’incaricato del pubblico servizio, la cui qualifica preesista alle indagini e sia in rapporto di connessione funzionale con l’accertamento che si assume inquinato, cosicché la condotta illecita deve risultare finalizzata proprio all’alterazione dei dati che compongono l’indagine o il processo penale, che gli è stato demandato di acquisire o dei quali sia venuto a conoscenza nell’esercizio della sua funzione, e risulti quindi posto in condizione di spiegare il proprio intervento inquinante . Qualora non ricorrano tali condizioni di fatto potranno configurarsi fattispecie giuridiche diverse, come, nella specie, il delitto di false comunicazioni al P.m., i cui presupposti ed effettiva gravità risultano del tutto diversi ed esigono una autonoma analisi in ordine alla sussistenza di esigenze cautelari, circostanza che impone di ritenere prive di sostegno le misure in atto. 10. Alla luce di tali principi non può che disporsi l’annullamento senza rinvio dei provvedimenti cautelari impugnati, per mancanza di indizi del reato contestato tale accertamento assorbe tutte le ulteriori censure in fatto formulate, volte a contestare gli ulteriori elementi caratterizzanti il reato, in forza della contestazione degli elementi di fatto. Per l’effetto, devono essere revocate le misure cautelari applicate, e disposta la liberazione di M.R. , se non detenuta per altra causa. La Cancelleria è tenuta agli adempimenti di cui all’art. 626 cod. proc. pen P.Q.M. Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata revoca le misure cautelari in atto ed ordina l’immediata liberazione di M.R. se non detenuta per altro titolo. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 626 cod. proc. pen