Le circostanze rilevanti per dimostrare l’aggravante del metodo mafioso

Come dimostrare che un delitto è stato commesso avvalendosi della forza di intimidazione generata da un’associazione a delinquere di stampo mafioso? I Giudici capitolini giungono alla risposta valorizzando la natura materiale della circostanza prevista dall’art. 7 l. n. 203/1991 ed escludendo aspetti che costituiscono indiretta ripercussione delle modalità esecutive dei delitti, riverbero soggettivo – e, dunque, valutabile con maggior discrezionalità – del timore indotto.

Al contempo, viene criticata l’inveterata tendenza di alcuni Collegi territoriali a riprodurre la prima motivazione senza un reale e qualificante contributo interpretativo, omettendo una puntuale ri valutazione degli istituti coinvolti. Così la Corte di Cassazione con sentenza n. 14249/17 depositata il 23 marzo. Il caso. L’inchiesta riguardava una serie di minacce, poste in essere da un imprenditore reggino – stretto parente di un esponente di una delle cosche – in danno di due pubblici ufficiali, responsabili d’aver risolto il contratto ed allontanato dal cantiere la sua impresa individuale, vista la conferma, a carico della società, della c.d. interdittiva antimafia al fine di proseguire indebitamente la costruzione dell’opera, lucrando gli ulteriori pagamenti già pianificati, costui aveva sostenuto che se avessero sospeso i lavori nessun altro imprenditore avrebbe ultimato l’appalto, implicitamente evocando l’intervento mafioso. Le pressioni operate sulla P.A., tuttavia, non avevano raggiunto il risultato, per la resistenza opposta dalle persone offese. Il GIP calabrese aveva ritenuto che vi fossero gravi indizi relativi all’ipotesi, in forma tentata, di estorsione continuata pluriaggravata, con esigenze cautelari – e, in dettaglio, rischio di reiterazione di criminosa – che potevano essere affrontate solo con la custodia domiciliare. Convinzione integralmente condivisa dal competente Tribunale della Libertà, che, in parte motiva, riprendeva testualmente larga parte dell’iter logico dell’ordinanza impositiva. Avverso la conferma in seconde cure ricorre per cassazione la difesa del prevenuto, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione, rispettivamente circa l’assenza di nuova verifica della prova asseritamente mancante che l’agente avesse imposto la propria volontà facendo ricorso al suo inserimento nella c.d. locale di ‘ndrangheta in ordine all’incompleta considerazione dei documenti, prodotti dalla difesa, che avrebbero fondato le pretese dell’appaltatore e la riqualificazione del fatto in esercizio arbitrario delle proprie ragioni con riguardo alla carente giustificazione dell’aggravante specifica, posto che l’indagato era incensurato – i due procedimenti di competenza D.D.A. in cui era stato coinvolto s’erano conclusi con l’archiviazione – e non più titolare dell’azienda incriminata infine, alla luce delle predette lacune, in relazione all’insussistenza dell’esigenza di prevenzione ex art. 274, comma 1, lett. c . La sentenza. La Corte – su parere difforme del Procuratore Generale – annulla l’ordinanza, con riferimento alla configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 7, l. n. 203/1991 ed all’assenza di adeguata spiegazione della paventata necessità cautelare. Il Collegio si distacca dall’opinione dell’Inquirente, secondo chi scrive, in virtù di una più profonda comprensione della ratio della norma, che ne esalta l’essenza, legata non agli effetti delle condotte sulle vittime, quanto piuttosto alla reale maggior diffusione del potere dell’associazione sul territorio, mediante azioni che ne estendono il bacino d’azione. L’Estensore, poi, correla i profili sostanziali a quelli procedurali, avendo cura di biasimare salti logici di per sé irrituali e tanto più inammissibili in subiecta materia, ove la sussunzione dei fatti assume un valore nel rito, attivando meccanismi presuntivi del tutto peculiari. La prova del metodo mafioso. Il nodo centrale dello scrutinio di ultima istanza è costituito dall’individuazione degli elementi di prova da cui ricavare l’integrazione della circostanza, ad effetto speciale, che punisce più severamente delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416- bis C.P. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo . In proposito, la Corte di legittimità sposa un’impostazione garantista già presente tra i precedenti, stabilendo che tali elementi non possono essere desunti dalla mera reazione delle vittime alla condotta dell’imputato, ma devono concretizzarsi in un comportamento oggettivamente idoneo ad esercitare una particolare coartazione psicologica sulle persone e soggiungendo che questo tipo di metodo avrebbe potuto essere invocato soltanto ove supportato da ulteriori evidenze oggettive cfr., sul punto, Cass., Sez. III Pen., n. 47588/17, che aveva escluso la possibilità di dedurne la prova dallo strumento di intimidazione prescelto dal reo . Evidenze di cui era privo il compendio investigativo e che, dunque, comportano l’annullamento della decisione. La motivazione in sede cautelare. Sul piano procedurale, poi, gli Ermellini accolgono l’ultima doglianza difensiva, sanzionando le carenze motivazionali del provvedimento in punto di concretezza ed attualità del periculum libertatis . Nel caso di specie, peraltro, s’incideva sulla libertà di soggetto incensurato e che era ormai privo del contesto stesso in cui erano maturate le condotte, non essendo più responsabile di alcun impresa. Nel giudizio di rinvio, dunque, bisognerà appurare i requisiti di prevenzione, in rapporto alla biografia giudiziaria del ricorrente ed all’eventuale sussistenza, secondo il principio di diritto appena enunciato, della circostanza aggravante speciale, che implicherebbe l’operatività della presunzione relativa di adeguatezza della massima restrizione ex art. 275, comma 3, c.p.p. Conclusioni. La sentenza in analisi ricostruisce sinteticamente, ma in modo lineare, i punti sottoposti al vaglio di legittimità, inserendosi nel solco dell’indirizzo più tutelante, che limita a quelli aventi carattere oggettivo i parametri utili a correlare dei crimini all’attività di organizzazioni mafiose. Si tratta di un approccio che, pur acuendo l’onere probatorio gravante sull’accusa, non può che condividersi, altro non fosse che per le importanti conseguenze, non solo sanzionatorie, derivanti dalla riconduzione dei fatti nell’alveo delle norme che perseguono i reati di mafia.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 1 – 23 marzo 2017, n. 14249 Presidente Ippolito – Relatore Bassi Ritenuto in fatto 1. Con il provvedimento in epigrafe, il Tribunale di Reggio Calabria ha confermato l’ordinanza del 15 luglio 2016, con la quale il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Reggio Calabria ha applicato a B.V.C. la misura degli arresti domiciliari in relazione al reato di cui agli artt. 81, comma secondo, 56, 629, comma secondo, cod. pen. e 7 l. 12 luglio 1991, n. 203, per avere posto in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere P.V. dipendente del comune di Reggio Calabria e RUP in relazione all’esecuzione dell’appalto dei lavori per la riduzione del rischio idrogeologico del bacino della fiumara di e A.V. direttore dei lavori sul cantiere per l’esecuzione del citato appalto a non disporre, come loro dovere, la risoluzione del contratto e l’allontanamento dal cantiere dell’impresa individuale facente capo al medesimo B. , in relazione alla quale la Prefettura di Reggio Calabria aveva specificato il permanere delle informative antimafia ostative all’affidamento dell’opera, fatto non consumato per la resistenza opposta dalle persone offese con l’aggravante di aver commesso il fatto con metodo mafioso commesso nel omissis . 1.2. Dopo avere riportato pedissequamente il contenuto della primigenia ordinanza di custodia cautelare, il Tribunale del riesame ha evidenziato come le condotte poste in essere dal B. integrino il delitto di tentata estorsione in ragione delle reiterate minacce poste in essere dall’indagato al fine di persuadere i pubblici ufficiali ad uniformarsi al lassismo connivente del C. , grazie al quale egli aveva potuto riprendere i lavori e lucrare ulteriori quattro mesi di pagamenti degli stessi, nonostante la chiara e definitiva presa di posizione della Prefettura reggina in merito al permanere delle informative negative giusta la condizione del ricorrente di indagato nel procedimento per associazione di stampo mafioso . Il Collegio della cautela ha altresì valorizzato l’evocazione implicita della capacità di intimidazione derivante dalla collocazione del fratello del B. - D. - nello scacchiere del locale di ‘ndrangheta nonché le concrete modalità attuative della condotta, con le quali egli ventilava futuri danni ingiusti in capo alle vittime e prospettava - con un modus operandi tipicamente mafioso - che la capacità di controllo del territorio da parte dell’organizzazione avrebbe inibito qualunque altro imprenditore dall’esecuzione di quel lavoro, stato di intimidazione confermato dalle due persone offese. Il Tribunale ha evidenziato come non ricorressero i presupposti per ritenere che B. , al momento in cui profferiva le minacce, fosse titolare di un diritto a continuare l’esecuzione dei lavori, in linea con la giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo cui la validità semestrale della documentazione antimafia prevista dalla legge n. 152 del 1998 deve intendersi applicabile soltanto in caso di rilascio di documentazione negativa e non anche nel caso in cui sia intervenuta l’interdittiva antimafia come l’ente appaltante non avesse mai rappresentato l’antieconomicità di una eventuale interruzione dei lavori, ben lontani dall’essere giunti al termine come, per consolidata giurisprudenza, la minaccia di male ingiusto possa essere realizzata anche con la prospettazione di fare ricorso alle vie legali v. pagine 18 e 19 . 1.3. Sul fronte cautelare, il Collegio reggino ha stimato sussistente il pericolo di reiterazione criminosa, nonostante la condizione di incensuratezza del B. ed il fatto che egli non sia più titolare dell’azienda, in considerazione della gravità delle condotte criminose, dei suoi legami con la malavita organizzata - comprovati dal suo coinvolgimento in ben due procedimenti della Direzione Distrettuale Antimafia - e della capacità di intimidazione dimostrata, tipica della metodologia mafiosa, stimando siffatta esigenza fronteggiabile esclusivamente con la misura di carattere detentivo degli arresti domiciliari. 2. Avverso l’ordinanza ha presentato ricorso B.V.C. , a mezzo del difensore di fiducia Avv. Francesco Calabrese, e ne ha chiesto l’annullamento per i seguenti motivi. 2.1. Violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione agli artt. 629 cod. pen. e 273 cod. proc. pen., per avere il Tribunale motivato la conferma del titolo coercitivo riportando pedissequamente il contenuto della primigenia ordinanza cautelare senza svolgere l’autonoma valutazione richiesta dal codice di rito. Evidenzia il ricorrente come il procedimento si fondi sull’errore compiuto dalla Prefettura che, il 15 marzo 2015, ribadiva la persistenza della precedente interdittiva sebbene la misura fosse già stata revocata nel 2011, con restituzione dell’azienda sequestrata al medesimo B. . Ne discende che B. si limitava a far valere una pretesa giuridicamente valida ed ineccepibile, il che esclude la materialità del reato di tentata estorsione oggetto di contestazione provvisoria. Né - ad avviso del ricorrente - v’è prova che il B. abbia mai evocato il fratello D. o che comunque le conversazioni con le persone offese abbiano avuto contorni tipicamente minatori o mafiosi. 2.2. Violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione agli artt. 309, comma 9, e 292 comma 2 - ter , cod. proc. pen., per avere il Tribunale omesso di valutare i documenti prodotti dalla difesa in sede di riesame a sostegno della ritenuta legittimità dell’affidamento dei lavori al B. e, pertanto, dei presupposti per la riqualificazione del fatto quale esercizio arbitrario delle proprie ragioni. 2.3. Violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione all’art. 7 l. 12 luglio 1991, n. 203, per avere il Tribunale omesso di motivare in modo adeguato in merito alla sussistenza del metodo mafioso, trattandosi di soggetto incensurato che è rimasto coinvolto in due procedimenti di DDA ormai archiviati. 2.4. Violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione all’art. 274, comma 1 lett. c ultimo periodo, cod. proc. pen., per avere il Tribunale erroneamente ritenuto sussistente il pericolo di reiterazione criminosa sebbene si tratti di soggetto incensurato, non più titolare dell’azienda. Considerato in diritto 1. Sono destituiti di fondamento i primi due motivi con i quali il ricorrente ripropone, sotto diverse declinazioni, la questione concernente la qualificazione giuridica del fatto quale estorsione tentata anziché quale esercizio arbitrario delle proprie ragioni, già sottoposta al vaglio del Tribunale calabrese. 1.1. Ed invero, il Tribunale ha evidenziato - con argomentazioni fedeli alle emergenze fattuali e scevre da illogicità manifeste, anche prendendo in considerazioni le deduzioni difensive al riguardo - come, al momento in cui profferiva le minacce, B. non fosse titolare di alcun diritto giuridicamente azionabile a continuare i lavori e, di conseguenza, ha correttamente escluso la sussistenza dei presupposti per ravvisare l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni v. pagina 19 . 1.2. Le censure del ricorrente si traducono, allora, in una non consentita sollecitazione ad una rivisitazione meramente fattuale delle risultanze processuali e, dunque, ad una valutazione alternativa delle fonti di prova, piuttosto che nella denuncia di vizi riconducibili al disposto dell’art. 606, comma 1 lett. e , cod. proc. pen., promuovendo uno scrutinio non espletabile in questa Sede ex plurimis Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074 . 2. È di contro fondato il terzo motivo di doglianza concernente la circostanza aggravante di cui all’art. 7 l. 12 luglio 1991, n. 203. 2.1. Secondo i principi più volte espressi da questa Corte, la circostanza aggravante del cosiddetto metodo mafioso è configurabile anche a carico di soggetto che non faccia parte di un’associazione di tipo mafioso, ma ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento minaccioso tale da richiamare alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga ad un sodalizio del genere anzidetto Sez. 2, n. 38094 del 05/06/2013, P.M. in proc. De Paola, Rv. 257065 Sez. 2, n. 16053 del 25/03/2015, Campanella, Rv. 263525 . La circostanza aggravante in parola ricorre allorquando l’agente, pur senza essere partecipe o concorrere in reati associativi, delinqua con metodo mafioso e, cioè, ponga in essere una condotta idonea ad esercitare una particolare coartazione psicologica con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale Sez. 1, n. 2667 del 30/01/1997, Barcella ed altro, Rv. 207178 . Si è, inoltre, precisato che i caratteri mafiosi del metodo utilizzato per commettere un delitto non possono essere desunti dalla mera reazione delle vittime alla condotta tenuta dall’imputato, ma devono concretizzarsi in un comportamento oggettivamente idoneo ad esercitare una particolare coartazione psicologica sulle persone, con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale evocata Sez. 6, n. 21342 del 02/04/2007, Mauro, Rv. 236628 Sez. 6, n. 28917 del 26/05/2011, Mitidieri, Rv. 250541 Sez. 2, n. 45321 del 14/10/2015, Capuozzo, Rv. 264900 . 2.2. A tali parametri ermeneutici non si è conformato il Collegio della cautela là dove, secondo le argomentazioni svolte in risposta alla deduzione mossa nel ricorso ex art. 309 cod. proc. pen. a pagina 19 , la sussistenza della circostanza aggravante del metodo mafioso è stata evinta dall’”utilizzo di metodologie mafiose nei confronti degli impiegati comunali ed, in particolare, dal contenuto della minaccia stu lavuru si mu cacciati a mia non facciu cchiù nuddu cioè, se mi cacciate questo lavoro non lo fa più nessuno . Espressione che, pur connotata da un’indubbia valenza intimidatoria, non può di per sé sola dirsi oggettivamente idonea ad esercitare una coartazione psicologica sulle persone avente i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale, nella specie evocata solo in via solo mediata, potendo - in ipotesi - costituire il frutto di una - certamente deprecabile - esplosione d’ira, non supportata da alcuna intenzione di conferire colorazione mafiosa alla minaccia. Metodo mafioso che il Collegio calabrese avrebbe potuto stimare sussistente soltanto ove supportato da ulteriori evidenze oggettive, quali - sempre ragionando in via ipotetica ed esemplificando - eventuali ulteriori espressioni minacciose spese in danno delle persone offese, il contesto e le modalità della condotta ed, in particolare, l’atteggiamento e la gestualità dell’agente al momento dei fatti, il suo coinvolgimento in un procedimento per criminalità organizzata, i suoi rapporti intimi con esponenti della consorteria criminale e, dunque, l’eventuale conoscenza da parte delle vittime della vicinanza del prevenuto rispetto ai locali clan mafiosi, il contesto ambientale nel quale avvenivano i fatti e le infiltrazioni mafiose nel tessuto economico sociale e qualunque ulteriore elemento atto a conferire al comportamento l’idoneità ad evocare, con efficienza causale, l’esistenza di un sodalizio ed incutere un timore aggiuntivo di una ritorsione mafiosa, così da giustificare l’applicazione dell’elemento circostanziale suscettibile di comportare un significativo aumento di pena e, sul piano cautelare, l’applicazione della presunzione di pericolosità sociale e di adeguatezza della misura carceraria - seppure non assoluta - di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. 4. È fondato anche l’ultimo motivo concernente le esigenze cautelari. 4.1. Ed invero, nel ritenere sussistente il pericolo di reiterazione criminosa, il Collegio reggino non ha tenuto in debito conto del precetto normativo codificato all’art. 274, comma 1 lett. c , cod. proc. pen. alla stregua del quale al giudice della cautela è fatto obbligo di argomentare in modo puntuale in ordine alla concretezza ed alla attualità del periculum libertatis. Concretezza ed all’attualità del rischio di reiterazione criminosa che il Tribunale avrebbe dovuto verificare alla luce della condizione d’incensuratezza del ricorrente e della circostanza che lo stesso non è più titolare di alcuna impresa mediante la quale creare l’occasione per commettere condotte antigiuridiche al fine di ottenere/mantenere l’aggiudicazione di lavori pubblici. 4.2. È ovvio che, nel rivalutare l’attualità e la concretezza del pericolo di reiterazione criminosa, il Tribunale dovrà tenere conto del decisione che assumerà in ordine alla circostanza aggravante del metodo mafioso, in relazione alla quale opera la presunzione di pericolosità sociale e di adeguatezza della sola misura della custodia in carcere seppure di carattere non assoluto ai sensi dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. v. da ultimo Sez. 2, n. 6574 del 02/02/2016, Cuozzo, Rv. 266236 . 4.3. Il Giudice di rinvio dovrà, comunque, calibrare la risposta cautelare all’effettiva intensità dei pericula libertatis stimati sussistenti nella specie, confermando la misura detentiva soltanto qualora ritenga inidonea in concreto una misura di minor rigore. P.Q.M. annulla l’ordinanza impugnata limitatamente all’aggravante di cui all’art. 7 l. n. 203/1991 ed alle esigenze cautelari e rinvia al Tribunale di Reggio Calabria per nuovo esame su tali punti. Rigetta nel resto il ricorso.