La retrodatazione non si applica quando le ordinanze cautelari sono emesse in fasi processuali diverse

Quando sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura cautelare personale nei confronti dello stesso imputato per fatti connessi, la regola della retrodatazione della durata dei termini di custodia cautelare prevista dall’art. 297 comma 3 c.p.p. non trova applicazione se la richiesta è presentata in una fase successiva a quella delle indagini preliminari.

Questo è il principio ribadito dalla Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, con sentenza n. 12752, depositata il 16 marzo 2017, che seppur nella sua sinteticità, ha voluto chiarire un punto fondamentale in tema di retrodatazione dell’efficacia delle misure cautelari. La decisione. L’art. 297, comma 3, c.p.p., com’è noto, vuole evitare il proliferarsi di ordinanze in modo da impedire il superamento surrettizio dei termini massimi di fase. Se così è, è oltremodo evidente che l’istituto in questione presuppone che la retrodatazione miri a verificare se vi sia stato o meno il superamento dei termini massimi di custodia cautelare previsti dalla legge per ciascuna fase. Consegue da ciò, tuttavia, che nel caso in cui le ordinanze siano state emesse in fasi processuali diverse una in indagine preliminare una al dibattimento o in sede di impugnazione , non ha senso richiamare tale istituto, posto che si dovrà considerare esclusivamente il termine di fase previsto in ragione del momento dell’emissione della seconda ordinanza cautelare, posto che la sua retrodatazione in una fase antecedente non ha senso di porsi, posto che il termine relativo è stato di per sé rispettato e perché, per definizione, l’ordinanza successiva alla prima non è stata emessa nella medesima fase di quest’ultima. Quanto sopra spiega il rigetto del ricorso, poiché esso presupponeva che l’ordinanza emessa nella fase del dibattimento fosse fatta retroagire” a quella delle indagini preliminari, in modo da dimostrare il superamento del termine di fase. Se non che la Suprema corte ha correttamente osservato che ciò non può porsi, tanto più che in tal modo non si comprenderebbe a quale termine massimo far riferimento se a quello delle indagini, già trascorse, o a quelle proprie della fase dibattimentale che però dovrebbe essere fatto partire sin dalle indagini preliminari sic ! . Si è peraltro fatto osservare che tutto ciò non implica il fatto che il superamento del termine di fase debba essere eccepito esclusivamente con riferimento alla fase nella quale si assume essere stato superato il termine di legge, posto che, trattandosi di materia attinente la libertà persona e di garantire l’applicazione dei principi costituzionali, l’eccezione” può essere fatta valere anche in fasi diverse. Ed in questo senso, sempre a detta della Corte di Cassazione, dovrebbero interpretarsi tutte quelle decisioni che parrebbero di segno contrario, rispetto alla soluzione propugnata. Conclusioni. La decisione appare corretta e ben struttura e, dunque, francamente condivisibile. Molto d’altro non vi è d’aggiungere, se non che il ricorso ha avuto una sua dignità, in quanto si è correttamente inserito all’interno di massime non correttamente formulate o comunque mal sintetizzate. Peraltro è da notare come in fondo la Corte di Cassazione si sia limitata a far leva sulla disposizione normativa invocata e come una diversa interpretazione sarebbe stata impropria oltre che irragionevole. In ciò si ribadisce un principio essenziale e che è rappresentato dalla sottomissione del giudice alla legge che non si possono dire cose che la legge esclude o che implicherebbero una irragionevole applicazione della legge ma questo principio può in realtà poco rispetto alla forza espansiva della giurisprudenza iura in novit curia

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 23 febbraio – 16 marzo 2017, n. 12752 Presidente Rotundo– Relatore Gianesini Ritenuto in fatto 1. Il Difensore di P.G. ha proposto ricorso per Cassazione contro l’ordinanza con la quale il Tribunale di Catanzaro aveva rigettato la richiesta di riesame proposta contro la misura cautelare della custodia in carcere emessa dal Gip per reati di estorsione aggravata capo 22/A e di violazione della disciplina delle armi capo 7 , entrambi aggravati ex art. 7 l. 203/91, dopo la pronuncia di sentenza di condanna in sede di giudizio abbreviato. 2. Il ricorrente ha dedotto violazione di legge penale sostanziale e vizi di motivazione. 2.1 In particolare, il ricorrente ha censurato l’affermazione contenuta nella motivazione del provvedimento secondo la quale l’accertamento del vincolo di connessione qualificata tra il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen. e i reati fine oggetto della misura cautelare in questione non era necessario dato che l’istituto della retrodatazione dei termini di custodia cautelare poteva operare solo nella fase delle indagini preliminari e non in quelle successive in realtà, ha proseguito il ricorrente, i reati fine di estorsione e di violazione della disciplina delle armi erano sicuramente connessi teleologicamente, in quanto appunto reati fine, con il reato associativo di cui all’art. 416 bis cod. pen 2.2 Con una seconda prospettazione, il ricorrente ha dedotto che le disposizioni di cui all’art. 294, comma 3 cod. proc. pen. erano applicabili in realtà anche in una fase diversa rispetto a quella delle indagini preliminari. Considerato in diritto 1. Il ricorso di P.G. è infondato e va quindi rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. 2. A maggior dettaglio di quanto sopra accennato, si aggiungerà ora che è stato accertato in fatto che ad una prima ordinanza emessa il 19 novembre 2014 per il solo reato di cui all’art. 416 cod. pen. ha fatto seguito una sentenza di condanna in sede di giudizio abbreviato pronunciata il 6 aprile 2016 sia per il reato di associazione mafiosa che aveva determinato l’emissione della misura cautelare suddetta che per un reato di estorsione e reati relativi alla violazione della disciplina delle armi in riferimento alla sola seconda ipotesi di reato, quella appunto di estorsione, è stata emessa, il 13 settembre 2016, una seconda misura della custodia in carcere ed è in riferimento a questa seconda che il ricorrente ha chiesto l’applicazione del meccanismo della retrodatazione al momento della emissione della prima ordinanza, trattandosi di fatti connessi con il reato di associazione mafiosa ex art. 416 bis cod. pen. oggetto della prima misura e già noti alla Autorità inquirente tanto è vero che l’originaria richiesta del Pubblico ministero di ricomprendere anche l’estorsione nel primo provvedimento di cattura era stata rigettata dal Gip per insufficienza indiziaria. Il Tribunale ha rigettato la richiesta di riesame senza prendere posizione sul punto, espressamente sollecitato dal ricorrente, del riconoscimento del nesso di connessione tra il reato di cui all’art. 416 bis oggetto della prima misura e quello di estorsione oggetto della seconda misura affermando che comunque e in ogni caso l’istanza difensiva non poteva trovare accoglimento in quanto proposta dopo la chiusura delle indagini preliminari, il tutto in adesione ad un orientamento della giurisprudenza di legittimità espresso nelle sentenze di Cass. Sez. 3 del 16/1/2015 n. 8984 e Cass. Sez. 1 del 27/11/2009, n. 50000, Carcione. Rv 245976 ed altre precedenti di identico tenore precettivo secondo le quali quando sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura cautelare personale nei confronti dello stesso imputato per fatti connessi, la regola della retrodatazione della durata dei termini di custodia cautelare prevista dall’art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., non trova applicazione se la richiesta è presentata nel corso di una fase successiva a quella delle indagini preliminari. 3. Il ricorrente ha contestato le conclusioni cui era giunto il Tribunale dí Catanzaro e ha richiamato un contrario orientamento di legittimità a mente del quale l’istanza di retrodatazione ex art. 297, comma 3 cod. proc. pen., poteva essere proposta anche oltre il momento di cessazione delle indagini preliminari e quindi anche in dibattimento, segnalando un contrasto di giurisprudenza da risolvere nel senso prospettato dal ricorrente. 4. In realtà, l’esame delle motivazioni delle decisioni che enuncerebbero il principio di diritto cui si è richiamato il ricorrente dimostra che la situazione processuale che aveva costituito l’occasione per dette pronunce è sostanzialmente diversa rispetto a quella oggetto dell’odierno esame e che, quindi, un vero e proprio contrasto di giurisprudenza non si è realmente mai determinato. 4.1 Così, la sentenza Cass. Sez. 2 del 11/2/2014 n. 20962, Di Marino, Rv 259688 e quella Cass. Sez. 6 del 25/9/2013 n. 43235, Silanos, Rv 257459, entrambe massimate nel senso che la regola della retrodatazione dei termini di custodia cautelare in relazione alla pluralità di ordinanze che dispongono la medesima misura cautelare nei confronti dello stesso imputato per fatti connessi deve essere applicata anche se la richiesta è presentata nel corso di una fase successiva a quella delle indagini preliminari e anche a conclusione del giudizio di cognizione, si riferiscono in realtà ad una pluralità di ordinanze cautelari tutte emesse nel corso delle indagini preliminari, riconoscendo solo la mera possibilità di richiedere, ora per allora , appunto in fase dibattimentale, l’applicazione della retrodatazione anche in fase dibattimentale e successiva alla chiusura delle indagini preliminari le stesse, per contro, non hanno mai sostenuto che lo stesso principio vale in riferimento alla ben diversa situazione processuale come quella, oggi all’esame della Corte, in cui le due diverse ordinanze sono state pronunciate in fasi processuali distinte e successive, la prima nel corso delle indagini preliminari, la seconda in fase dibattimentale ed anzi addirittura dopo la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado. 5. Il Tribunale, quindi, del tutto correttamente e in applicazione dei principi di diritto enunciati nella stessa motivazione dell’ordinanza impugnata, ha negato l’applicabilità del regime della retrodatazione di cui all’art. 297, comma 3 cod. proc. pen., non solo e non tanto perché l’istanza è stata proposta dopo la chiusura delle indagini preliminari e dopo una sentenza di condanna quanto piuttosto perché il meccanismo di retrodatazione non poteva comunque operare in presenza di una ordinanza pronunciata nel corso delle indagini preliminari e di una seconda pronunciata in fase post dibattimentale di giudizio abbreviato altrettanto correttamente, quindi, il Tribunale si è astenuto dall’esaminare se tra il reato di cui all’art. 416 bis oggetto della prima ordinanza e quello di estorsione oggetto della seconda esistesse o meno un vincolo di connessione, dato che, in ogni caso, il tema era superato dalla inammissibilità della istanza. 6. Rimangono intatte, quindi, nel loro pieno vigore argomentativo le considerazioni svolte nelle decisioni di legittimità richiamate nel testo della ordinanza impugnata che escludono l’applicabilità della retrodatazione sulla base della duplice considerazione che, per un verso, manca una specifica disposizione che ne autorizzi l’operatività anche in fase dibattimentale e, per l’altro, che l’art. 303 cod. proc. pen. stabilisce i termini massimi di durata della custodia cautelare per ogni singola fase del giudizio, con la conseguenza che, in fase dibattimentale, la retrodatazione non potrebbe mai collocarsi ad una data anteriore a quella dalla quale viene fatto decorrere il termine di fase e cioè, nel caso in esame, dalla pronuncia della sentenza di condanna di primo grado o comunque dalla sopravvenuta esecuzione della custodia ex art. 303, comma 1 lett. c cod. proc. pen. alle considerazioni ora svolte si aggiunge poi la pratica impossibilità, nel caso si dovesse ritenere ammissibile l’istanza di retrodatazione nei termini sollecitati dal ricorrente, di individuare il termine massimo di durata della custodia cautelare in riferimento alla seconda ordinanza, dato che si porrebbe una ipotetica alternativa, praticamente non risolvibile, tra il termine di un anno proprio delle indagini preliminari ex art. 303, comma 1 lett. a n. 3, ormai non più operativo a causa della chiusura delle stesse, e i successivi, diversi termini previsti dall’art. 303 cod. proc. pen., in particolare quello di un anno e sei mesi di cui al citato art. 303, comma 1 lett. c n. 3 cod. proc. pen P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1/ter disp, att. cod. proc. pen