Pedinamenti e minacce alla moglie: condannato per stalking

Irrilevante il fatto che i due coniugi avessero avviato le pratiche per la separazione. I comportamenti tenuti dal marito sono stati ossessivi e caratterizzati anche da minacce di morte.

12 mesi da incubo per una donna. A perseguitarla il marito da cui si è separata da tempo. Impossibile, nonostante le considerazioni proposte dall’uomo, considerare i suoi comportamenti oppressivi come tipici di una separazione coniugale. Molto più logico parlare di stalking Cassazione, sentenza n. 8362/2017, Sezione Quinta Penale, depositata oggi . Condotta. Ricostruite nei dettagli le azioni compiute dall’uomo. A inchiodarlo non solo le parole della moglie e di alcuni testimoni, ma anche il resoconto fatto dalle forze dell’ordine, a seguito di un’operazione che aveva portato all’ arresto dell’uomo e all’applicazione nei suoi confronti del divieto di avvicinamento alla consorte. Nessun dubbio per i giudici sul fatto che ciò che ha dovuto subire la donna sia catalogabile come stalking a tutti gli effetti. Ella è stata oggetto di pedinamenti, appostamenti e minacce di morte , rivolte peraltro non solo a lei ma anche a un suo amico, reo solo di frequentarla. Impossibile pensare che questa situazione, protrattasi per un anno, non abbia avuto ripercussioni psico-fisiche sulla donna. Impossibile non considerare opprimente, invasiva e persecutoria la condotta tenuta dall’uomo. Logica, quindi, conferma anche la Cassazione, la condanna per stalking. Irrilevante, checché ne dica lo stalker, il fatto che la vittima abbia trovato la forza di continuare ad uscire da sola .

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 12 gennaio – 21 febbraio 2017, n. 8362 Presidente Bruno – Relatore Lapalorcia Ritenuto in fatto 1. F. R. risponde, per effetto di doppia conforme di condanna in secondo grado gli è stata concessa la sospensione condizionale della pena e revocata la misura di sicurezza , del reato di atti persecutori in danno della ex moglie separata N. M 2. La responsabilità è stata affermata sulla base delle dichiarazioni di quest'ultima e di una serie di testi oculari oltre che di una operazione di PG che aveva portato all'arresto in flagranza dell'imputato e all'applicazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento. 3. L'imputato ha proposto ricorso tramite il difensore in base a due motivi. 4. Con il primo deduce errata applicazione della legge penale in ordine alla qualificazione del fatto -e correlato vizio di motivazione che sarebbe riconducibile alla previsione di cui all'art. 660 cod. pen. per non essersi verificata alterazione delle abitudini di vita ciò secondo le stesse dichiarazioni della p.o., risultanti dal verbale allegato al ricorso da cui risulta che la predetta aveva continuato ad uscire da sola che non può essere integrata da un generico stato d'ansia, mentre sarebbero state poste in essere condotte moleste tipiche di uno scenario di separazione personale. 5. Con il secondo motivo violazione di legge e vizio di motivazione sono dedotti quanto al diniego di attenuanti generiche nonostante il riconosciuto stato d'incensuratezza sia stato valorizzato ai fini della sospensione condizionale della pena, e nonostante il comportamento tenuto successivamente. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. 2. Il primo motivo è la riedizione di doglianza già formulata e motivatamente disattesa dalla corte territoriale osservando che la 'terribile' ricostruzione delle minacce e vessazioni subite dalla p.o. per circa un anno, come evidenziato dal primo giudice la cui motivazione integra quella della sentenza impugnata, si erano susseguiti pedinamenti, appostamenti nei pressi del luogo di lavoro, reiterate minacce alla donna di taglio della testa e di sbudellarla come un cane e ad un amico della stessa di morte se non l'avesse lasciata stare perché 'roba sua' , fonte di continuo stato d'ansia e di timore per l'incolumità propria e dei familiari, era stata confermata da numerosi testi oculari, non essendo quindi essenziale, ai fini della configurabilità del reato, anche il mutamento delle abitudini di vita peraltro risultante dalla sentenza di primo grado , che è poi l'unico evento del reato sul quale il ricorso si sofferma allegando tra l'altro il verbale delle dichiarazioni della M. privo delle pagine da 24 a 28 senza confrontarsi con gli altri ritenuti in sentenza, pur riconoscendo che la relativa previsione è alternativa e tra l'altro confondendo il mutamento delle abitudini con lo stato d'ansia, che costituiscono appunto eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice. 3. Quanto al diniego di attenuanti generiche, la corte siciliana ha opportunamente valorizzato, con conseguente incensurabilità della relativa statuizione, il carattere opprimente ed invasivo della condotta persecutoria protrattasi per oltre un anno senza alcuna dimostrazione di resipiscenza, tale da aver determinato perfino l'applicazione di una misura cautelare. 4. In tal modo è stato adeguatamente assolto l'obbligo di motivazione di tale diniego, avendo il giudice di merito giustificato l'uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l'indicazione delle ragioni ostative alla concessione senza essere tenuto ad esaminare tutte le circostanze prospettate o prospettabili dalla difesa. 5. Del tutto fuori fuoco, poi, il richiamo alla sentenza della Corte Costituzionale 183/2011 che si riferisce al caso del recidivo reiterato, senza contare che neppure è indicato il comportamento successivo al reato positivamente valorizzabile. 6. Seguono le statuizioni di cui all'art. 616 cod. proc. pen. determinandosi in Euro 2000 la somma che il ricorrente, essendo la causa di inammissibilità ascrivibile a sua colpa Corte Cost. 186/2000 , deve corrispondere alla cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000 in favore della Cassa delle Ammende. Dispone l'oscuramento dei dati identificativi.