La diagnosi differenziale tra la tentata truffa e la tentata estorsione

Il criterio distintivo tra il reato di truffa e quello di estorsione, quando il fatto è connotato dalla minaccia di un male, è rappresentato dalla concreta efficacia coercitiva e non meramente manipolativa della condotta minacciosa rispetto alla volontà della vittima, da valutarsi con una verifica ex ante, che prescinde dalla effettiva realizzabilità del male prospettato.

Così ha sancito la Corte di Cassazione con sentenza n. 6278/17 depositata il 9 febbraio. Il caso. La vicenda portata all'attenzione della Suprema Corte riguardava la condanna dell'imputato, anche in Corte d'Appello, per il reato di tentata estorsione. Tuttavia, il ricorrente avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione deducendo lo scarso valore economico del telefonino oggetto della tentata estorsione e l'errato inquadramento del fatto come tentata estorsione piuttosto che come tentata truffa, atteso che il male minacciato sarebbe stato inidoneo a coartare la volontà delle persone offese le quali si sarebbero potute ritenere, al più, vittime di un raggiro fondato sulla rappresentazione di un pericolo non esistente. Contestava, infine, l'elemento psicologico del reato considerato che la volontà sarebbe stata, al più, diretta a consumare una truffa e non è una estorsione. Alla Cassazione non è consentito sovrapporre la propria valutazione a quella dei giudici di merito. La Cassazione ritiene il ricorso manifestamente infondato. Innanzitutto poiché, con riferimento all'asserito travisamento della prova in ordine alla valutazione del valore commerciale del telefonino, la doglianza del ricorrente si risolve nella proposta di una lettura alternativa delle emergenze processuali e non individua fratture logiche manifeste e decisive del percorso motivazionale. Secondo il costante insegnamento della Suprema Corte, esula dai poteri della stessa quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali. Nonostante la novella codicistica del 2006, che ha riconosciuto la possibilità di deduzione del vizio di motivazione anche con riferimento ad atti processuali specificamente indicati nei motivi di impugnazione, la natura del giudizio di cassazione è rimasta immutata atteso la sua natura di giudizio di legittimità, per cui gli atti eventualmente indicati, che devono essere specificamente allegati per soddisfare il requisito di autosufficienza del ricorso, devono contenere elementi processualmente acquisiti, di natura certa ed obiettivamente incontrovertibili, che possono essere considerati decisivi in rapporto esclusivo alla motivazione del provvedimento impugnato e nell'ambito di una valutazione unitaria. Pertanto, devono essere tali da inficiare la struttura logica del provvedimento stesso. Resta, comunque, esclusa la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite ed è stato ulteriormente precisato che alla Cassazione non è consentito di sovrapporre la propria valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito mentre comporta che la rispondenza delle valutazioni alle acquisizioni processuali può essere dedotto nella specie del cosiddetto travisamento della prova, sempre che siano indicati in modo specifico e puntuale gli atti rilevanti e sempre che la contraddittorietà della motivazione rispetto ad essi sia percepibile ictu oculi , dovendo il sindacato di legittimità essere limitato ai rilievi di macroscopica evidenza, senza che siano apprezzabili le minime incongruenze. Il criterio distintivo tra reato di truffa e reato di estorsione. Infine, con riferimento alla invocazione della qualifica del fatto contestato come tentata truffa piuttosto che come tentata estorsione, il Collegio ribadisce che il criterio distintivo tra il reato di truffa e quello di estorsione, quando il fatto è connotato dalla minaccia di un male, è rappresentato dalla concreta efficacia coercitiva e non meramente manipolativa della condotta minacciosa rispetto alla volontà della vittima, da valutarsi con una verifica ex ante , che prescinde dalla effettiva realizzabilità del male prospettato. La diagnosi differenziale, quindi, per il reato di truffa e quello di estorsione deve essere effettuata attraverso un'attenta indagine delle emergenze processuali volte a verificare, in primo luogo, se il male minacciato è reale oppure immaginario e se questo dipende dall’agente, cioè se da questi sia gestibile. E, in secondo luogo se la prospettazione del male produca, in concreto, una manipolazione della volontà riconducibile alla induzione in errore piuttosto che è una vera e propria colazione della volontà. Per quanto la prospettazione di un effetto negativo abbia come conseguenza una reazione di evitamento del male prospettato, quello che rileva ai fini del corretto inquadramento del fatto è se la reazione sia riconducibile ad una condotta fraudolenta, piuttosto che ad una irresistibile coartazione. Cioè, se la volontà della vittima risulti manipolata oppure irresistibilmente coartata. La valutazione della capacità di concreto ed effettiva coazione della minaccia è, ancora una volta, una indagine di merito che deve essere effettuata prendendo in esame le circostanze del caso concreto ovvero sia la violenza oggettiva della minaccia che la sua soggettiva incidenza sulla specifica vittima. Pertanto, l'inquadramento di una condotta nel reato di truffa piuttosto che in quello di estorsione deve essere effettuato valutando la concreta efficacia coercitiva della minaccia dovendosi ritenere che si verte nelle ipotesi estorsiva quando il male prospettato si presenti il resistibile e quindi condiziona la volontà della vittima. Si veste, invece, nella ipotesi della truffa quando la minaccia del pericolo irrealizzabile, per la sua intrinseca consistenza, non è capacità coercitiva ma si limita ad influire sul processo di formazione della volontà deviando lo attraverso l'induzione in errore.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 26 gennaio 2016 – 9 febbraio 2017, n. 6278 Presidente Davigo – Relatore Recchione Ritenuto in fatto e considerato in diritto - ritenuto che i Difensori di B.S. , C.A. , CH.St. e CO.Ag. hanno proposto ricorso per Cassazione contro la sentenza di applicazione pena su richiesta delle parti pronunciata ex art. 444 cod. proc. pen. dal Giudice dell’Udienza preliminare di VELLETRI - ritenuto che gli imputati sono accusati a vario titolo del reato di turbata libertà degli incanti ex artt. 353, primo e secondo comma cod. pen., e del reato di corruzione propria attiva antecedente ex artt. 321 cod. pen. in relazione all’art. 319 e 319- bis cod. pen. - ritenuto che il Gip ha quantificato le pene principali come da accordo delle parti, ha applicato ad C.A. la pena accessoria della incapacità di contrattare con la Pubblica amministrazione, senza indicazione espressa della durata temporale della stessa, e ha infine disposto la confisca per equivalente ex art. 322- ter , secondo comma cod. pen. nella entità specificamente individuata per ogni imputato e corrispondente a quello del profitto ottenuto da ognuno di essi - ritenuto che il Difensore di B.S. ha dedotto che il Gip di Velletri avesse disposto la confisca per equivalente della somma di oltre 8.000,00 Euro ritenuta profitto del reato anche se in realtà nessun profitto si era realizzato dato che la predetta somma di denaro era stata solo promessa ma non consegnata e che il contratto di appalto per il quale vi era stata l’aggiudicazione oggetto della corruzione non era mai stato stipulato - ritenuto che il Difensore di C.A. ha dedotto che tre motivi di ricorso e ha lamentato che il Gip di VELLETRI avesse omesso di valutare la possibilità della pronuncia di una sentenza ex art. 129 cod. proc. pen., non avesse quantificato la durata temporale della pena accessoria della incapacità di contrattare con la Pubblica amministrazione e non avesse infine distinto il profitto confiscabile dall’intero valore del rapporto instaurato con la Pubblica amministrazione - ritenuto che il Difensore di CH.St. ha dedotto due motivi di ricorso in termini sostanzialmente identici a quelli dedotti nel primo e terzo motivo di ricorso dell’imputato C.A. - ritenuto che il Difensore di CO.Ag. ha dedotto un unico motivo di ricorso e ha lamentato che il Gip avesse confiscato non il profitto ma il prezzo del reato e non avesse valutato che nel caso in esame non era profilabile alcun profitto perché la gara non era sfociata nella conclusione di alcun contratto con la Pubblica amministrazione - ritenuto che il Procuratore generale ha condiviso le osservazioni difensive relative ai motivi riferiti alla disposta confisca per equivalente e ha chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata - considerato, quanto al primo motivo di ricorso di C.A. e di CH.St. , che il Gip ha adeguatamente motivato, pur nei limiti di rilevanza tipici della sentenza di applicazione pena ex art. 444 cod. proc. pen., sulle ragioni della insussistenza di ragioni che potessero portare ad una pronuncia ex art. 129, comma 2 cod. proc. pen., tanto più che le prospettazioni svolte con il ricorso si presentano in termini di mera ipoteticità e che il C. ha sostanzialmente ammesso quanto contestatogli - considerato, quanto al secondo motivo di ricorso di C.A. , che non è in realtà denunciata alcuna violazione di legge nella quantificazione della durata della pena accessoria, dato che il Gip si è limitato alla dichiarazione di incapacità degli imputati di contrattare con la pubblica amministrazione senza indicarne la durata - considerato, quanto all’unico motivo di ricorso di B.S. e di CO.Ag. , che effettivamente gli imputati non hanno conseguito alcun profitto, dato che, per il B. , il contratto di appalto per il quale vi era stata la aggiudicazione oggetto della corruzione non era mai stato stipulato come espressamente risulta dallo stesso capo di imputazione di cui al n. 9 e, per il CO. , la gara di appalto non è stata seguita da nessuna assegnazione di lavori pag. 4 della sentenza impugnata , il tutto a fronte della necessità che la confisca abbia ad oggetto un profitto effettivamente conseguito Cass. Sez. 6 del 13/2/2014 n. 9929, Giancone, Rv 259593 che fa seguito negli stessi termini a Cass. Sez. 6 del 10/1/2013, n. 4297, Orsi, Rv 254484 - considerato, quanto al terzo motivo di ricorso del C. e del CH. che, anche applicando in ipotesi al caso in esame il principio di diritto richiamato dai ricorrenti ed enunciato da Cass. Sez. Unite 26/6/ 2015 n. 31617, Lucci, Rv 264436 circa il fatto che il profitto del reato si identifica con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito, resta insuperata l’osservazione che l’entità del profitto confiscabile non può mai essere inferiore alle somme date o promesse, come dispone l’art. 322- ter , secondo comma cod. pen., somme che hanno effettivamente costituito oggetto della confisca disposta dal Gup di VELLETRI - considerato conclusivamente che la sentenza impugnata va annullata senza rinvio nei confronti di B.S. e CO.Ag. sul punto specifico della confisca disposta mentre i ricorsi di C.A. e CH.St. , proposti per motivi manifestamente infondati, vanno dichiarati inammissibili, con le conseguenze di cui all’art. 616 cod. proc. pen P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di B.S. e CO.Ag. limitatamente alla disposta confisca dichiara inammissibili i ricorsi di C.A. e CH.St. che condanna al pagamento delle spese processuali e, ciascuno, della somma di 1.500,00 Euro a favore della cassa delle ammende.