Scherzi pesanti nei confronti del collega di lavoro: condannati

Vittima un uomo affetto da deficit cognitivo e da problemi di alcolismo. Due colleghi lo hanno preso di mira con scherzi pesanti, anche a sfondo sessuale. Respinta però l’ipotesi della violenza, confermata, invece, quella del reato di molestie. Consequenziale la condanna a tre mesi di reclusione.

Pesanti scherzi da bulli. A metterli in pratica, però, non stupidi ragazzini a scuola, ma due uomini di oltre 40 anni di età, in un ambiente di lavoro, e prendendo di mira un collega, affetto da deficit cognitivo e da problemi di alcolismo. Logica la condanna per il reato di molestia. Esclusa l’ipotesi della violenza sessuale, nonostante il carattere pruriginoso di alcuni scherzi messi in atto Cassazione, sentenza n. 49573/16, depositata il 22 novembre . Scherzi. Nessun dubbio sulla ricostruzione della triste vicenda per i giudici. Così, prima in Tribunale e poi in Corte d’appello, i due uomini che hanno preso di mira il collega di lavoro vengono condannati a tre mesi di arresto ciascuno . La pena non eccessivamente dura è spiegabile con un elemento alle due persone sotto accusa è stato contestato il reato di molestie e non quello di violenza sessuale . Anche se è emerso che la vittima era destinataria di gesti goliardici e di scherno pesanti e a sfondo sessuale. Grazie alle testimonianze in aula è emerso che l’uomo – da poco assunto e seguito dai ‘Servizi sociali’ a causa del suo deficit cognitivo e dei suoi problemi di alcolismo – veniva invitato a compiere atti di esibizionismo sessuale, come abbassarsi i pantaloni e mostrare le parti intime . E, peraltro, gli atti di bullismo si concretizzavano anche fuori dal contesto lavorativo, quando la vittima veniva contattata sulla sua utenza cellulare per appuntamenti a sfondo sessuale . A completare il quadro, infine, anche l’epiteto con cui l’uomo veniva apostrofato in tono denigratorio squilibrio . Fragilità. A chiudere il fronte giudiziario provvede ora la Cassazione, con la conferma della condanna decisa in appello. Definitivi, quindi, i tre mesi di reclusione decisi per i due uomini che hanno molestato, offeso, sopraffatto un collega, approfittando delle sue precarie condizioni psico-fisiche. Anche i magistrati del ‘Palazzaccio’ ritengono evidente che la loro condotta è gravissima, poiché hanno sfruttato la fragilità della persona, che avrebbe dovuto operare in tranquillità nel loro stesso contesto, per farla diventare bersaglio di insulti, ironie e vessazioni , sia sul posto di lavoro che per telefono . I loro disumani comportamenti sono emersi in maniera netta, grazie non solo alle parole della vittima ma anche di alcuni colleghi che ne avevano raccolto gli sfoghi, la rabbia e la tristezza. E a rendere ancora più grave la situazione, infine, la constatazione che proprio i due accusati avrebbero dovuto tutelare il sereno svolgimento della attività dell’uomo affetto da problemi psichici .

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 18 marzo – 22 novembre 2016, n. 49573 Presidente Cavallo – Relatore Mazzei Ritenuto in fatto 1. M.R.e Z.L. sono stati condannati, all'esito del doppio grado del giudizio di merito, alla pena di tre mesi di arresto, ciascuno, con i doppi benefici di legge la sentenza di appello, confermativa di quella di primo grado, postula in motivazione la concessione della sola sospensione condizionale della pena, mentre nel dispositivo della prima decisione è disposta anche la non menzione della condanna , perché, in concorso tra loro, per petulanza o altro biasimevole motivo, avevano recato molestia e disturbo a F.M., all'epoca ventiquattrenne, borsista presso il vivaio forestale Predandons di T., in provincia di Udine, fino al 31 dicembre 2010, dove prestavano attività lavorativa anche gli imputati, invitandolo a compiere atti di esibizione sessuale, come abbassarsi i pantaloni e mostrare le parti intime, e contattandolo sulla utenza cellulare 349/7146149 per appuntamenti a sfondo sessuale simulando di essere una donna, apostrofandolo altresì con l'epiteto di squilibrio . Tali comportamenti, secondo l'impostazione accusatoria condivisa dai giudici di merito, erano esenti da profili di dolo di violenza sessuale e configuravano, piuttosto, gesti goliardici e di scherno, da ricondurre al contestato reato di molestia nei confronti del predetto F.M., affetto da deficit cognitivo e da problemi di alcoolismo, seguito dai servizi sociali, donde la ritenuta gravità del fatto per avere gli imputati approfittato delle note condizioni di fragilità della persona offesa, rendendola bersaglio di insulti, ironie e vessazioni di vario genere sul posto di lavoro e per telefono. 2. Avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Trieste il 3 giugno 2015, confermativa della sentenza del Tribunale di Udine del 30 settembre 2014, hanno proposto un unico ricorso per cassazione i due imputati tramite i comuni difensori per dedurre i seguenti motivi. 2.1. Con il primo motivo M. e Z. denunciano violazione dei criteri legali di valutazione della prova e di motivazione, ex artt. 192, commi 1 e 2, e 546, comma 1, lett. e , cod. proc. pen. La Corte avrebbe acriticamente accreditato la versione della persona offesa, sottolineandone la fragilità e la vulnerabilità, ben nota ai colleghi nel contesto lavorativo dove erano prevalentemente avvenute le molestie. Le persone sentite come testimoni avrebbero riferito solo quanto loro raccontato dallo stesso F La ricerca di una nuova sistemazione lavorativa da parte dei servizi sociali, che seguivano la persona offesa, non costituiva elemento sufficiente per avvalorare la versione di F.M. circa la sua esposizione alle molestie degli imputati sul posto di lavoro, determinante l'anticipazione del termine del suo incarico come borsista presso il vivaio dal 31 maggio 2011 al 31 dicembre 2010, poiché non era stata verificata l'attendibilità della persona offesa e non esistevano riscontri estrinseci delle sue dichiarazioni, in contrasto con quanto disposto dall'art. 192 cod. proc. pen. 2.2. Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano violazione di legge e vizio di motivazione, con riguardo all'art. 133, comma primo, n. 3, cod. pen., per avere la Corte di appello ingiustificatamente esaltato l'intensità del dolo del reato e irrogato una pena eccessiva. 2.3. Con il terzo motivo i ricorrenti deducono la violazione degli artt. 132 e 133 cod. pen. e il vizio di motivazione, per omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Tali attenuanti, pur richieste con i motivi di appello, non sarebbero state prese in considerazione dalla Corte territoriale e la pena non rispetterebbe i criteri di adeguatezza e proporzionalità di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen. 3. In data 4 marzo 2016 è pervenuta memoria difensiva in cui i ricorrenti deducono la compiutasi prescrizione del reato poiché la persona offesa avrebbe prestato servizio presso il vivaio, teatro dei reato, fino ai 31 dicembre 2010, data di cessazione della sua borsa lavoro, come riconosciuto dai giudici di merito. Considerato in diritto 1. L'unico ricorso proposto dai comuni difensori dei due imputati è inammissibile, perché manifestamente infondato sia nella denuncia di violazione delle regole di valutazione della prova e di vizio di motivazione della sentenza impugnata, in relazione agli artt. 192, commi 1 e 2, e 546, comma 1, lett. e , cod. proc. pen. sia nelle censure attinenti al trattamento sanzionatorio. 1.1. Le dichiarazioni della persona offesa -cui non si applicano le regole dettate dall'art. 192, comma 3, cod. proc. pen.- possono essere legittimamente poste, da sole, a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone e corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto ex multis Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, Manzini, Rv. 265104 e la valutazione di attendibilità della persona offesa dal reato è una questione di fatto, la quale ha la sua chiave di lettura nell'insieme di una motivazione logica, che non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni ex multis Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, Cammarota, Rv. 262575 . Nel caso in esame, non solo è stata correttamente vagliata l'intrinseca affidabilità della versione della persona offesa, nella pur documentata fragilità delle sue condizioni psico-fisiche, ma sono stati rilevati e apprezzati anche altri elementi di prova che ne hanno confermato l'attendibilità. Essi sono stati ravvisati nella testimonianza di M.A., responsabile del vivaio di T. dal lontano 1982 fino all'aprile/maggio 2010, quando fu sostituito nella carica da M., già in servizio presso il medesimo vivaio insieme a Z., e nella testimonianza di E.L., collega di lavoro degli imputati e della persona offesa. A M. ed alla E., come spiegato in sentenza, F. confidò i sorprusi e le molestie subiti, trattandosi delle sole persone dalle quali si aspettava di poter ricevere attenzione e protezione M., infatti, lo aveva bene accolto al momento dei suo ingresso nel vivaio come borsista e con lui F. aveva mantenuto buoni rapporti anche dopo il trasferimento dello stesso a Tarvisio l'E., poi, nata il 22 marzo 1959, donna adulta e comprensiva, avrebbe potuto essere madre di F.M., il quale riponeva in lei giustificata fiducia. Ulteriore avallo della versione della persona offesa è stato ragionevolmente tratto dalla testimonianza dell'assistente sociale, D.G.C., intervenuta a tutela di F., dopo aver raccolto la denuncia dell'informato M. su quanto accadeva, all'interno del vivaio, a scapito del giovane borsista con problemi psichici. La Corte di appello neppure ha trascurato le testimonianze ritenute dalla difesa a favore degli imputati, come quella di A.M., rilevandone, con motivazione esente da illogicità e contraddizioni, la inidoneità a contraddire la prova a carico, siccome proveniente da persona che, sebbene addetta al medesimo vivaio e consapevole delle condizioni di vulnerabilità di F. che ne imponevano la protezione, non ne aveva ricevuto, come gli altri lavoratori nel vivaio, le confidenze e non aveva assistito agli episodi di molestia avvenuti prevalentemente nell'ufficio del responsabile, M., e alla presenza attiva dei solo Z Risulta, dunque, completa, corretta e coerente la motivazione della sentenza impugnata, pienamente rispettosa della dialettica tra accusa e difesa, e conseguentemente manifestamente infondati sono i motivi proposti in punto di viziato esame delle prove apprezzate come idonee alla conferma dei giudizio di responsabilità. 1.2. Le censure attinenti ai trattamento sanzionatorio per negata concessione delle circostanze attenuanti generiche ed eccessiva misura della pena inflitta, dì cui al secondo e terzo motivo di ricorso, possono essere esaminate congiuntamente. Esse sono manifestamente infondate, poiché, ritenute provate le reiterate molestie arrecate a F., specialmente sul posto di lavoro, da coloro che avrebbero, invece, dovuto tutelare il sereno svolgimento della sua attività, con deplorevole approfittamento delle note condizioni di fragilità psichica della persona offesa, la Corte territoriale, con motivazione dei tutto coerente con l'accertata intensità del dolo, ha escluso la concessione delle circostanze attenuanti generiche agli imputati e, alla luce dei criteri indicati nell'art. 133 cod. pen., ha confermato la pena detentiva in misura media tra il minimo ed il massimo previsti per il contestato reato di cui all'art. 660 cod. pen. 2. Alla dichiarazione di inammissibilità, che preclude la rilevanza della prescrizione del reato, compiutasi il 31/12/2015 c.f.r. memoria difensiva dopo la pronuncia della sentenza impugnata resa il 3/06/2015 conforme Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, dep. 21/12/2000, De Luca, Rv. 217266 , consegue, a norma dell'art. 616, comma 1, cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità Corte Cost., sent. n. 186 del 2000 , anche la condanna di ciascuno al versamento a favore della cassa delle ammende di una sanzione pecuniaria che si stima equo determinare, tra il minimo e il massimo previsti, in euro mille. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, ciascuno, al versamento della somma di mille euro alla cassa delle ammende.