Irrilevante il fatto che l’appartamento fosse disabitato all’epoca dei fatti

La circostanza per cui l'appartamento della persona offesa era disabitato all'epoca dei fatti, non è sufficiente, in questi termini, ad escludere la configurabilità del contestato reato di violazione di domicilio nell'accesso non consentito ad una pertinenza dell'appartamento in esame.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 43499/16, depositata il 14 ottobre. Il caso. In parziale riforma della sentenza dei Tribunale di Padova, veniva confermata l'affermazione di responsabilità dell’imputato per il reato di violazione di domicilio commesso introducendosi in una soffitta non di sua proprietà, dopo aver forzato le porte dell'ingresso condominiale e del locale di cui sopra. La sentenza di primo grado era riformata con il riconoscimento di attenuanti generiche, equivalenti alla contestata aggravante, e la rideterminazione della pena. Ricorre l’imputato deducendo violazione di legge e vizio motivazionale sull'affermazione di responsabilità poiché non si sarebbe tenuto conto della pertinenza della soffitta, in cui l'imputato si introduceva, ad un appartamento che nella sentenza di primo grado si dava atto essere all'epoca disabitato, e quindi non costituente domicilio effettivo della persona offesa e violazione di legge sulla determinazione della pena la stessa sarebbe infatti eccessiva rispetto alle circostanze indicate al punto precedente. Affermazione di responsabilità dell'imputato. Per la Suprema Corte i motivi dedotti sull'affermazione di responsabilità dell'imputato sono infondati. Nella sentenza impugnata, infatti, si dava effettivamente atto della circostanza per cui l'appartamento della persona offesa era disabitato all'epoca dei fatti. A detta della Suprema Corte, la stessa non è tuttavia sufficiente, in questi termini, ad escludere la configurabilità del contestato reato di violazione di domicilio nell'accesso non consentito ad una pertinenza dell'appartamento in esame . Tale configurabilità richiede indubbiamente l'attualità dell'uso dell'abitazione da parte di chi ne abbia la legittima disponibilità. Ma la ricorrenza di siffatta condizione di attualità non presuppone, tuttavia, la necessaria continuità dell'uso e non viene pertanto meno per la sola circostanza dell'assenza più o meno prolungata dell'avente diritto, in mancanza di indici rivelatori della volontà di questi di abbandonare definitivamente l'abitazione. Ravvisabilità nel fatto del diverso reato. Essendo consequenziale a quanto detto l'infondatezza dei motivo sulla ravvisabilità nel fatto del diverso reato di cui all'art. 633 c.p., ipotizzata dal ricorrente come alternativa rispetto a quella del reato di violazione di domicilio, l'ulteriore censura sui disconoscimento della scriminante dello stato di necessità è generica nella mera riproposizione del riferimento alla mancanza di fissa dimora e permesso di soggiorno in capo all'imputato, elementi già valutati e ritenuti dalla Corte territoriale irrilevanti a fronte dei dato decisivo della mancanza di un danno grave per la persona dell'imputato, sul quale nessuna ulteriore deduzione è proposta con il ricorso . Sono invece inammissibili i motivi dedotti sulla determinazione della pena. Pertanto la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 12 luglio – 14 ottobre 2016, n. 43499 Presidente Sabeone – Relatore Zaza Ritenuto in fatto Con la sentenza impugnata, in parziale riforma della sentenza dei Tribunale di Padova del 19/07/2013, veniva confermata l'affermazione di responsabilità di B.H.A. per il reato di violazione di domicilio commesso il 27/03/2009 introducendosi in una soffitta di proprietà di L.P. dopo aver forzato le porte dell'ingresso condominiale e del locale di cui sopra. La sentenza di primo grado era riformata con il riconoscimento di attenuanti generiche, equivalenti alla contestata aggravante, e la rideterminazione della pena. L'imputato ricorrente deduce 1. violazione di legge e vizio motivazionale sull'affermazione di responsabilità non si sarebbe tenuto conto della pertinenza della soffitta, in cui l'imputato si introduceva, ad un appartamento che nella sentenza di primo grado si dava atto essere all'epoca disabitato, e quindi non costituente domicilio effettivo della persona offesa sarebbe stata erroneamente esclusa la sussistenza della scriminante dello stato di necessità nella condotta dell'imputato, privo di fissa dimora e di permesso di soggiorno si sarebbe dovuto correttamente qualificare il fatto come violazione dell'art. 633 cod. pen. 2. violazione di legge sulla determinazione della pena la stessa sarebbe eccessiva rispetto alle circostanze indicate al punto precedente. Considerato in diritto 1. I motivi dedotti sull'affermazione di responsabilità dell'imputato sono infondati. Nella sentenza impugnata, riportando in premessa quanto già esposto nella decisione di primo grado, per cui l'appartamento della persona offesa era disabitato all'epoca dei fatti, si dava effettivamente atto di tale circostanza. La stessa non è tuttavia sufficiente, in questi termini, ad escludere la configurabilità del contestato reato di violazione di domicilio nell'accesso non consentito ad una pertinenza dell'appartamento in esame. Tale configurabilità richiede indubbiamente l'attualità dell'uso dell'abitazione da parte di chi ne abbia la legittima disponibilità. La ricorrenza di siffatta condizione di attualità non presuppone tuttavia la necessaria continuità dell'uso e non viene pertanto meno per la sola circostanza dell'assenza più o meno prolungata dell'avente diritto, in mancanza di indici rivelatori della volontà di questi di abbandonare definitivamente l'abitazione Sez. 5, n. 48528 del 06/10/2011, B., Rv. 252116 Sez. 5, n. 29934 del 16/06/2006, Minelli, Rv. 235151 . Orbene, che l'esistenza di una volontà del genere sia stata nel caso concreto esclusa dai giudici di merito è desumibile dal riferimento della sentenza di primo grado alla circostanza per la quale la persona offesa interveniva sul luogo del fatto, constatando la presenza dell'imputato nella soffitta, allertata dai vicini, i quali avevano udito rumori provenienti dall'abitazione. Tanto è in sè logicamente dimostrativo per un verso dei mantenimento di un contatto fra la persona offesa e gli abitanti dell'edificio in cui si trovava l'abitazione, e per altro della disponibilità della prima a recarsi prontamente sul luogo in caso di allarme elementi di fatto, questi, entrambi incompatibili con un intento di definitivo abbandono dell'abitazione. Ed in questo senso deve ritenersi che la sentenza impugnata abbia motivatamente e correttamente inteso confermare, con la decisione di primo grado, l'implicita conclusione sull'irrilevanza dell'assenza della persona offesa dall'abitazione. Essendo consequenziale a quanto detto l'infondatezza dei motivo sulla ravvisabilità nel fatto del diverso reato di cui all'art. 633 cod. pen., ipotizzata dal ricorrente come alternativa rispetto a quella del reato di violazione di domicilio, l'ulteriore censura sui disconoscimento della scriminante dello stato di necessità è generica nella mera riproposizione del riferimento alla mancanza di fissa dimora e permesso di soggiorno in capo all'imputato, elementi già valutati e ritenuti dalla Corte territoriale irrilevanti a fronte dei dato decisivo della mancanza di un danno grave per la persona dell'imputato, sul quale nessuna ulteriore deduzione è proposta con il ricorso. 2. Sono invece inammissibili i motivi dedotti sulla determinazione della pena. La minima offensività del fatto, sostanzialmente indicata dal ricorrente come elemento rispetto al quale la pena inflitta sarebbe eccessiva, veniva valutata nella sentenza impugnata ai fini del riconoscimento delle attenuanti generiche mentre per la determinazione della pena la Corte territoriale richiamava i precedenti penali dell'imputato, uno dei quali specifico, con argomentazione che non è oggetto di censure nel ricorso. Quest'ultimo deve in conclusione essere rigettato, seguendone la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.