Non sussiste desistenza volontaria se l’omicidio non si realizza grazie alle richieste di aiuto della vittima

Si configura il delitto tentato e non la desistenza volontaria quando la condotta criminosa posta in essere dall’agente cessa non per autonoma volontà del medesimo, ma per effetto del sopraggiungere di fattori esterni che fungono da ostacolo alla completa realizzazione dell’iter criminis.

La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 38195/2016, depositata il 14 settembre, si è pronunciata in materia di tentato omicidio, delineando con particolare attenzione i confini tra il tentativo di delitto e la desistenza volontaria. Il caso. Con sentenza emessa il 15.07.2014 il G.I.P. presso il Tribunale di Napoli condannava alla pena di anni sei di reclusione un soggetto accusato di tentato omicidio aggravato, posto in essere nei confronti della moglie che gli aveva comunicato l’intenzione di procedere alla separazione coniugale. Nella fattispecie, l’uomo, colto da un’ira improvvisa, aveva colpito con un coltello affilato la propria moglie allo sterno, alle mani e all’avambraccio, per poi picchiarla con calci e pugni, cessando la propria condotta aggressiva solo quando la moglie, vicino la porta d’ingresso, riusciva ad urlare per chiamare aiuto. La Corte d’Appello di Napoli, chiamata a decidere sull’impugnazione proposta dall’imputato, confermava la sentenza di primo grado, ritenendo condivisibile tanto la decisione di merito quanto il trattamento sanzionatorio. Avverso siffatta decisione ricorre per Cassazione l’imputato, a mezzo dei suoi due difensori, che depositano due atti separati sebbene sostanzialmente concentrati sulla stessa questione giuridica. Invero, in entrambi i ricorsi, vengono lamentati il vizio di motivazione e la violazione di legge con riferimento alla qualificazione giuridica dei fatti addebitati al prevenuto. Più segnatamente, a parere della difesa, l’imputato deve essere ritenuto responsabile del reato di lesioni aggravate in danno della consorte e non di quello ben pìù grave di tentato omicidio aggravato. Secondo la ricostruzione difensiva, il soggetto non avrebbe posto in essere atti diretti in modo non equivoco a cagionare la morte della propria moglie, non sussistendo la prova del dolo omicidiario da valutarsi anche in relazione alle modalità della condotta. In più, uno dei difensori paventa la certezza difensiva di dover ritenere configurabile la desistenza volontaria, di cui all’articolo 56, comma 3, c.p., in ragione del fatto che l’imputato si autodeterminava autonomamente a non consumare il delitto di uxoricidio. Un grido di aiuto. La Corte di Cassazione taccia di infondatezza tutti i motivi di censura sollevati dalla difesa. Secondo gli Ermellini della Prima Sezione Penale il ragionamento giustificativo delineato dalla Corte territoriale di Napoli è ineccepibile. L’imputato ha posto in essere una serie di azioni violente in danno della consorte che, certamente, avrebbero condotto all’evento morte se la vittima non avesse gridato aiuto. Tale ricostruzione processuale deriva dall’osservazione degli elementi probatori la reiterazione dei colpi di coltello affilato, la parti vitali colpite, la sequenza temporale delle coltellate e delle percosse indicano un orientamento teleologico del soggetto agente alla lesione del bene vita, tutelato dall’articolo 575 c.p. Altresì, evidenziano i Giudici della Suprema Corte, non è configurabile nel caso di specie la desistenza volontaria l’autore del reato fermava la propria follia omicida solo nel momento in cui la vittima urlava disperata e, pertanto, solo per paura di essere sorpreso in flagranza da terzi. Dunque, poiché è consolidato il principio secondo il quale è integrato il delitto tentato e non la desistenza volontaria quando la condotta criminosa posta in essere dall’agente cessa non per volere del medesimo, ma per effetto del sopraggiungere di fattori esterni già in tal senso ex multis, Cass. Pen., Sez. II, n. 51514 del 5.12.2013, Martucciello , i ricorsi sono rigettati e l’imputato è condannato al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 13 gennaio 14 settembre 2016, n. 38195 Presidente Vecchio – Relatore Centonze Ritenuto in fatto 1. Con sentenza emessa il 15/07/2014 il G.I.P. del Tribunale di Napoli giudicava B.A. con rito abbreviato, condannandolo alla pena di anni sei di reclusione, oltre alle pene accessorie di legge, ritenendolo colpevole del tentato omicidio aggravato della moglie D.L. , commesso a omissis . La sanzione penale irrogata all’imputato veniva commisurata quantificando la pena base per il tentato omicidio aggravato in anni dodici di reclusione, alla quale andava applicata la riduzione di pena prevista per il risarcimento del danno effettuato nei confronti della persona offesa e l’ulteriore riduzione per il rito alternativo con cui si procedeva, giungendosi alla pena finale di anni sei di reclusione. 2. Con sentenza emessa il 13/01/2015 la Corte di appello di Napoli, decidendo sull’impugnazione proposta dall’imputato, confermava il provvedimento impugnato, condannando l’appellante al pagamento delle ulteriori spese processuali. 3. Da entrambe le sentenze di merito emergeva che, il 03/05/2014, l’imputato tentava di uccidere la moglie D.L. , sferrandole due coltellate allo sterno, che le venivano inferte con un coltello con lama di ceramica, colpendola successivamente con calci e pugni e, infine, trascinandola dall’interno dell’abitazione alla porta d’ingresso, dove le sbatteva più volte la testa contro il muro. L’azione omicida del B. traeva origine da un diverbio insorto tra i due coniugi conseguente al fatto che la vittima aveva comunicato al marito la sua intenzione di separarsi e si interrompeva per effetto delle urla della persona offesa che, trovandosi vicino la porta d’ingresso del suo appartamento, chiedeva aiuto, inducendo in tal modo il ricorrente a interrompere l’aggressione nel timore dell’intervento dei vicini di casa. In conseguenza dell’aggressione patita per mano del marito la D. veniva ricoverata presso il pronto soccorso dell’Ospedale Caldarelli di – omissis in condizioni critiche. Al momento del suo arrivo nel nosocomio partenopeo, in particolare, la persona offesa veniva ricoverata con codice rosso e risultava affetta da ferite multiple da arma da taglio, che le venivano riscontrate allo sterno, alle mani e all’avambraccio. Dalla cartella clinica redatta in occasione del ricovero della persona offesa, acquisita agli atti e richiamata espressamente nella sentenza di primo grado, a pagina 2, si leggeva che le ferite inferte alla D. non avevano intaccato organi interni . Nell’immediatezza dei fatti, la D. rendeva una circostanziata deposizione, nella quale chiariva la dinamica dell’aggressione subita per mano del coniuge e le modalità con cui era stata ripetutamente colpita nel corso della colluttazione, che venivano descritte attraverso un’analitica ricostruzione della sequenza dei fatti delittuosi, svoltisi all’interno della sua abitazione, che ne aveva imposto il ricovero ospedaliero. Il B. , a sua volta, dopo essersi allontanato dalla sua abitazione, si costituiva il giorno successivo all’aggressione in danno della moglie e, in sede di interrogatorio di garanzia, ammetteva gli addebiti che gli venivano contestati, pur affermando di essersi limitato a picchiare la D. in un accesso d’ira conseguente alla decisione unilaterale della consorte di separarsi ed escludendo che intendesse ucciderla. Sulla scorta di tali elementi probatori, nei sottostanti giudizi di merito, si riteneva certa la responsabilità penale dell’imputato in ordine al tentato omicidio aggravato contestatogli, avendo il B. colpito la consorte con un coltello con lama di ceramica e a mani nude, provocandogli in tal modo le lesioni personali attestate dalle certificazioni sanitarie rilasciate all’esito del ricovero ospedaliero patito dalla D. . Quanto all’inquadramento dell’ipotesi delittuosa contestata al B. ai sensi degli artt. 56, 575 e 577, comma 2, cod. pen. si riteneva corretta la qualificazione giuridica della sua condotta quale tentato omicidio aggravato, in conseguenza della reiterazione dei colpi che erano stati inferti alla vittima, della loro sequenza temporale e delle parti vitali del corpo della vittima, lo sterno e la testa, colpite durante l’aggressione in esame. La Corte territoriale, inoltre, riteneva sintomatica della volontà omicida del B. la circostanza che, nonostante la D. fosse sanguinante per le due coltellate che le erano state inferte allo sterno nella fase iniziale dell’aggressione e avesse tentato di difendersi strenuamente così come risultava dalle ferite riscontrate alle mani e all’avambraccio in sede di ricovero continuava a essere ripetutamente colpita dal ricorrente, al corpo e alla testa, con le modalità compiutamente descritte in rubrica. Infine, sul piano sanzionatorio, si riteneva di dovere concedere all’imputato la sola circostanza attenuante del risarcimento del danno eseguito in favore della persona offesa, che veniva ulteriormente correlata alla riappacificazione tra i coniugi, nel frattempo intervenuta. Non si ritenevano, invece, concedibili le attenuanti generiche invocate dalla difesa dell’imputato, atteso che la sua azione aggressiva in danno della moglie che si era limitata a comunicargli che intendeva interrompere la loro relazione coniugale scatenando la reazione inaspettata del marito non poteva essere in alcun modo giustificata e non era meritevole dell’attenuazione di pena richiesta, anche tenendo conto del successivo riavvicinamento dei coniugi. Tale compendio probatorio imponeva l’irrogazione al B. della pena di cui in premessa. 4. Avverso tale sentenza l’imputato ricorreva per cassazione, proponendo, mezzo dei suoi difensori, due atti di impugnazione, che occorre passare in rassegna separatamente. 4.1. Con il primo di tali atti, depositato dall’avv. Eduardo Pagano, venivano proposte quattro doglianze difensive. Con la prima di tali doglianze si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione agli artt. 27 Cost., 56 e 575 cod. pen., conseguenti al fatto che le emergenze processuali imponevano di ricondurre l’ipotesi delittuosa contestata al B. alla fattispecie delle lesioni personali aggravate e non già a quella del tentato omicidio aggravato. Si evidenziava, in particolare, che l’azione aggressiva posta in essere dal B. in danno della D. si caratterizzava, oggettivamente, per l’ontologica incapacità causale a determinare l’evento mortale presupposto e, soggettivamente, per l’insussistenza del dolo omicidiario indispensabile per la configurazione dell’ipotesi delittuosa contestata. Con il secondo motivo si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione alla mancata assunzione della testimonianza della persona offesa, quale prova decisiva e necessaria ai fini della decisione, evidenziandosi che le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari dalla D. erano inattendibili, essendo caratterizzate dal risentimento personale nutrito nei confronti del marito, attesa la loro contiguità temporale all’aggressione. Nella prospettiva difensiva, dunque, solo l’esame suppletivo della vittima nel frattempo riappacificatasi con il marito avrebbe consentito di accertare se l’azione aggressiva posta in essere dall’imputato in danno della moglie era stato o no impedita da cause indipendenti dalla sua volontà, consentendo di escludere l’eventualità di un atteggiamento di desistenza volontaria dall’aggressione iniziale. Con il terzo motivo di ricorso si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche, che non erano state concesse nonostante la modesta pericolosità dell’imputato, che andava correlata con l’estemporaneità della condotta posta in essere in danno della D. , evidentemente rivelatrice del dolo d’impeto che connotava la sua azione e imponeva di collegarla esclusivamente alla situazione di contingente tensione tra i coniugi. Con il quarto motivo di ricorso, infine, si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione all’eccessività del trattamento sanzionatorio irrogato al B. , che non era stato adeguatamente valutato alla luce dei parametrici stabiliti dall’art. 133 cod. pen., anche tenuto conto della riappacificazione nel frattempo intervenuta tra i coniugi, la quale imponeva la formulazione di un giudizio dosimetrico maggiormente attenuato rispetto a quello compiuto nei sottostanti giudizi di merito, laddove la Corte territoriale aveva erroneamente ritenuto che la riconciliazione sarebbe stata presa in considerazione ai fini del riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62, primo comma, n. 6, cod. pen Queste ragioni processuali imponevano l’annullamento della sentenza impugnata. 4.2. Con il secondo di tali atti di impugnazione, depositato dall’avv. Giovanni Aricò, veniva proposta un’unica doglianza difensiva, nell’ambito della quale venivano articolate distinte censure processuali. Si deducevano, in particolare, violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione agli artt. 43, 56 e 575 cod. pen., in conseguenza del fatto che le evidenze probatorie non consentivano di ricondurre l’ipotesi delittuosa contestata al B. alla fattispecie del tentato omicidio aggravato, imponendo l’applicazione dell’istituto della desistenza volontaria, così come disciplinata dall’art. 56, comma 3, cod. pen Si evidenziava, infatti, che l’azione lesiva posta in essere dal B. in danno della consorte si era interrotta in conseguenza della determinazione autonoma dell’imputato, che imponeva di ricondurre il suo comportamento alla figura della desistenza volontaria. Né era possibile ritenere che la semplice richiesta di aiuto effettuata dalla vittima dopo la seconda fase dell’azione aggressione del B. verificatasi davanti alla porta d’ingresso dell’abitazione coniugale potesse essere ritenuta, di per sé, idonea a escludere che l’azione offensiva del B. fosse portata a compimento, non essendo intervenuti fattori esterni idonei a rendere altamente improbabile il compimento del progetto omicida. Ne discendeva l’illogicità del passaggio motivazionale, esplicitato a pagina 4 del provvedimento impugnato, ritenuto decisivo per ricostruire il percorso argomentativo seguito dalla Corte territoriale, nel quale si evidenziava che l’evento letale è stato scongiurato solo dalla reazione immediata della p.o. che ha chiesto aiuto . Secondo la difesa del ricorrente, infatti, non era possibile ritenere che una semplice richiesta di aiuto, a prescindere dalle modalità con cui fosse stata formulata, potesse evitare il compimento dell’azione omicida del B. che, di sua iniziativa, al contrario di quanto affermato nel passaggio motivazionale sopra richiamato, cessava di percuotere la moglie, pur potendo proseguire nell’aggressione e portare in tal modo a completa esecuzione il suo progetto criminoso. In altri termini, la semplice richiesta di aiuto formulata dalla vittima non poteva rappresentare un fattore esterno indipendente dalla volontà dell’imputato, idoneo a impedire la prosecuzione dell’azione delittuosa posta in essere e a escludere la configurazione della desistenza volontaria. La correttezza di questa ricostruzione, del resto, veniva confermata dalla stessa dinamica del delitto, in relazione alla quale occorreva evidenziare che, nonostante le richieste di aiuto invocate dalla persona offesa, nessuno interveniva in suo soccorso, rendendo evidente che il B. se solo lo avesse voluto avrebbe avuto tutto il tempo per portare a termine la sua azione omicida. Sotto questo profilo, la circostanza che il B. , una volta interrotta la sua azione, avesse preso i suoi effetti personali e, solo dopo, si fosse allontanato dall’appartamento dove aveva aggredito la D. , costituiva un’ulteriore conferma della ricostruzione difensiva, secondo la quale l’imputato aveva cessato di percuotere la moglie non già perché preoccupato dall’arrivo dei vicini, ma esclusivamente per una sua libera scelta. In questa cornice processuale, la condotta aggressiva del B. era stata motivata esclusivamente da un improvviso accesso d’ira che si interrompeva sulla base di un autonomo processo decisione del ricorrente, che impediva di ipotizzare la sussistenza di una volontà omicida e non consentiva di configurare l’ipotesi delittuosa in contestazione. Nelle sottostanti sentenze di merito, in ogni caso, non era stato compiuto un accertamento processuale adeguato sulla natura dell’elemento psicologico sottostante all’azione aggressiva del B. , che era indispensabile per enucleare gli elementi probatori necessari a dimostrare in capo all’imputato l’elemento soggettivo del tentato omicidio aggravato contestato. Si evidenziava, a tal proposito, che, al fine di ritenere configurabile nella fattispecie contestata al B. l’ipotesi tentata, i giudici di merito avrebbero dovuto soffermarsi sulla natura dell’elemento psicologico, chiarendo le ragioni per le quali potesse essere ascritto all’imputato il dolo diretto. Tuttavia, la possibilità di una tale configurazione doveva ritenersi incompatibile non solo con il comportamento successivo ai fatti delittuosi, ma con la stessa condotta oggetto di contestazione, dovuta a una lite improvvisa, conclusasi con la volontaria interruzione dell’azione delittuosa del B. . Ne discendeva ulteriormente che, nel caso in esame, l’unica forma di dolo compatibile con la condotta aggressiva posta in essere dal ricorrente in danno della propria consorte era quella del dolo eventuale, la cui ricorrenza determinava l’assoluta impossibilità di configurare l’ipotesi del delitto tentato aggravato, rendendo evidente l’illegittimità del provvedimento impugnato. Queste ragioni processuali imponevano l’annullamento della sentenza impugnata. Considerato in diritto 1. In via preliminare, deve rilevarsi l’infondatezza del ricorso presentato nell’interesse di B.A. , esaminando separatamente gli atti di impugnazione proposti dall’avv. Eduardo Pagano e dall’avv. Giovanni Aricò. 2. In questa cornice processuale, innanzitutto, occorre esaminare l’atto d’impugnazione proposto dall’avv. Eduardo Pagano, articolato in quattro motivi di ricorso. 2.1. Con il primo motivo si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione agli artt. 27 Cost., 56 e 575 cod. pen., atteso che le emergenze processuali imponevano di ricondurre l’ipotesi delittuosa contestata alla fattispecie delle lesioni personali aggravate e non già a quella del tentato omicidio aggravato, risultando la condotta aggressiva del B. inidonea, oggettivamente e soggettivamente, a provocare la morte della consorte. Deve, in proposito, rilevarsi che il presupposto su cui il ricorrente fonda il suo assunto difensivo, secondo cui l’aggressione dell’imputato in danno della moglie era inidonea a provocarne la morte, risulta smentito dalla sequenza dell’azione delittuosa correttamente ricostruita nel provvedimento in esame caratterizzata sia dall’uso di un’arma da taglio con lama di ceramica, con cui venivano inferte due coltellate allo sterno della D. , sia dai numerosi calci e pugni sferrati alla vittima, sia dall’articolazione dell’aggressione in più fasi. Su questi profili valutativi, al contrario di quanto dedotto dal ricorrente, la sentenza di appello si soffermava con un percorso motivazionale immune da censure, evidenziando che l’azione delittuosa dell’imputato era certamente idonea a determinare la morte della D. , avendo provocato i due colpi di coltello inferti da B. la penetrazione dell’arma da taglio nello sterno della vittima, in un’area corporea nella quale si trovano numerosi organi vitali. Su questo passaggio argomentativo, si ritiene utile di richiamare il percorso motivazionale esplicitato a 4 del provvedimento impugnato, nel quale la Corte territoriale evidenziava come costituisse un elemento probatorio incontroverso quello secondo cui il ricorrente avesse accoltellato la propria consorte nel corso di un’articolata sequenza omicida. In questo passaggio della sentenza, in particolare, venivano richiamati la reiterazione dei colpi inferti alla vittima, la vicinanza tra l’aggressore e la vittima, l’avere attinto la donna allo sterno in prossimità di organi vitali, l’uso di un coltello particolarmente affilato . . Sulla scorta di tale ricostruzione dell’aggressione attuata dal ricorrente nei confronti della moglie, che deve essere necessariamente correlata alle circostanze di tempo e di luogo nelle quali maturava la sua determinazione omicida, la Corte territoriale formulava un giudizio affermativo sull’idoneità degli atti posti in essere dall’imputato a provocare la morte della D. , nel valutare la quale è necessario richiamare la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui L’idoneità degli atti, richiesta per la configurabilità del reato tentato, deve essere valutata con giudizio ex ante , tenendo conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalità dell’azione, in modo da determinarne la reale adeguatezza causale e l’attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto cfr. Sez. 1, n. 27918 del 04/03/2010, Resa, Rv. 248305 . In questa cornice processuale, la difesa del ricorrente censurava ulteriormente la sentenza impugnata sotto il profilo dell’assenza di prova dell’univocità degli atti che si concretizzavano nell’ipotesi delittuosa contestata al B. , a sua volta incidente sull’assenza di prova della volontà omicida del ricorrente. Deve, in proposito, rilevarsi che l’univocità degli atti costituisce il presupposto indispensabile per ritenere una condotta delittuosa riconducibile all’alveo applicativo dell’art. 56 cod. pen Tutto questo risponde all’esigenza di ricostruire la volontà dell’agente rispetto all’aggressione del bene giuridico protetto della norma, conformemente a quanto statuito da questa Corte, secondo cui In tema di tentativo, il requisito dell’univocità degli atti va accertato ricostruendo, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell’agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di accertare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile alla individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo cfr. Sez. 4, n. 7702 del 29/01/2007, Alasia, Rv. 236110 . Ne deriva che il requisito dell’univocità degli atti deve essere accertato sulla base delle connotazioni concrete della condotta criminosa dell’imputato, nel senso che gli atti posti in essere devono possedere, tenuto conto del contesto in cui sono inseriti e della dinamica dell’azione delittuosa, l’attitudine a rendere manifesto il proposito criminoso perseguito, desumibile sia dagli atti esecutivi che da quelli preparatori cfr. Sez. 2, n. 46776 del 20/11/2012, D’Angelo, Rv. 254106 . In questo contesto, non può non rilevarsi che la dinamica dell’aggressione della D. deve ritenersi dimostrativa del fatto che l’azione violenta dell’imputato conseguisse a una volontà omicida persistente e univocamente orientata nella direzione prefigurata nelle sentenze di merito, consentendo di affermare che il ricorrente avesse voluto colpire la persona offesa noncurante del rischio di causarne la morte. Si consideri, in particolare, il passaggio della sentenza impugnata, esplicitato a pagina 4, in cui si faceva riferimento alla prosecuzione dell’aggressione a mani nude nonostante la vittima fosse sanguinante . . Ne discende che, anche sotto tale ulteriore profilo valutativo, la doglianza difensiva risulta infondata. 2.2. Parimenti infondato deve ritenersi il secondo motivo di ricorso, con il quale si deduceva la mancata acquisizione della testimonianza della persona offesa dal reato, sul presupposto che solo l’esame della vittima avrebbe consentito di accertare se l’azione offensiva posta in essere dall’imputato era stato o no impedita da cause indipendenti dalla sua volontà. Tale doglianza, a sua volta, si fondava sull’assunto che, nell’immediatezza dei fatti, la ricostruzione della vittima era stata influenzata dal suo risentimento nei confronti dell’imputato, che era successivamente venuto meno in conseguenza della riappacificazione dei due coniugi. Deve, in proposito, rilevarsi che, alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale prevista dall’art. 603 cod. proc. pen. si può ricorrere esclusivamente nelle ipotesi di decisività del mezzo istruttorio suppletivo richiesto, conformemente alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui Alla rinnovazione dell’istruzione nel giudizio di appello, di cui all’art. 603, comma primo, cod. proc. pen., può ricorrersi solo quando il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti , sussistendo tale impossibilità unicamente quando i dati probatori già acquisiti siano incerti, nonché quando l’incombente richiesto sia decisivo, nel senso che lo stesso possa eliminare le eventuali incertezze ovvero sia di per sé oggettivamente idoneo ad inficiare ogni altra risultanza cfr. Sez. 6, n. 20095 del 26/02/2013, Ferrara, Rv. 256228 . Nel caso di specie, l’univocità del materiale probatorio acquisito nel corso delle indagini preliminari induceva la Corte territoriale, nel passaggio correttamente esplicitato a pagina 3, a rigettare la richiesta presentata dalla difesa del B. ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen., affermando Quanto alla richiesta preliminare avanzata dalla difesa di escussione della p.o., D.L. , la stessa va rigettata poiché non indispensabile ai fini della decisione. Il teste è stato già ascoltato nella fase delle indagini preliminari ed ha reso dichiarazioni complete sia per la ricostruzione del fatto criminoso sia per la comprensione del contesto familiare in cui lo stesso si è consumato . In questo contesto processuale, occorre ulteriormente richiamare la giurisprudenza consolidata sull’art. 603 cod. proc. pen., in tema di accertamento di merito della completezza delle indagini, secondo, cui nel giudizio d’appello, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, prevista dall’art. 603, comma 1, cod. proc. pen., è subordinata all’accertamento dell’incompletezza delle verifiche probatorie e alla conseguente constatazione del giudice di non potere decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria accertamento rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivato cfr. Sez. 6, n. 8936 del 13/01/2015, Leoni, Rv. 262620 . Queste considerazioni processuali impongono di ritenere infondata tale doglianza difensiva. 2.3. Meritano, infine, di essere rigettati il terzo e il quarto motivo del ricorso in esame, che devono essere esaminati congiuntamente, fatte salve le specificazioni di cui al paragrafo 2.3.1., riguardando il trattamento sanzionatorio irrogato al B. , di cui si assumeva la violazione dei parametri dosimetrici prefigurati dall’art. 133 cod. pen., sotto il duplice profilo dell’eccessività della pena irrogata all’imputato e della mancata concessione delle attenuanti generiche. Secondo la difesa del B. , le emergenze probatorie imponevano di rivalutare i fatti delittuosi ascritti al ricorrente ai sensi degli artt. 56, 575 e 577, comma 2, cod. pen., tenendo conto dei parametri soggettivi stabiliti dall’art. 133 cod. pen., che avrebbero dovuto indurre la Corte territoriale a contenere il trattamento sanzionatorio e a concedere le attenuanti generiche previste dall’art. 62 bis cod. pen., anche in considerazione dell’estemporaneità dell’azione aggressiva attuata dall’imputato nei confronti della moglie, causata da un accesso d’ira e unicamente collegata alla scelta unilaterale della D. di separarsi dal coniuge. In questa cornice, l’estemporaneità della condotta delittuosa dell’imputato era resa ulteriormente evidente dalla successiva riappacificazione dei coniugi, che attestava un’evoluzione positiva dei loro rapporti personali. Deve, in proposito, rilevarsi che la quantificazione della pena irrogata al B. , conforme nei sottostanti giudizi di merito, veniva eseguita correttamente, tenendo conto delle univoche emergenze probatorie, del comportamento processuale dell’imputato e della gravità dell’azione delittuosa oggetto di contestazione, nei termini esplicitati a pagina 4 della sentenza impugnata, nella quale si evidenziava come il giudizio dosimetrico compiuto dal giudice di primo grado che aveva individuato la pena base per il reato contestato al B. in anni dodici di reclusione risultava congruo rispetto agli indicatori enucleati dall’art. 133 cod. pen. Secondo la Corte territoriale, in particolare, tale pena rientrava nella riduzione per il tentativo da un terzo a due terzi ed è adeguata alla gravità del fatto consistita nella violenta e reiterata aggressione ad una donna in condizioni di minorata difesa ed impossibilitata a chiedere aiuto essendo l’azione criminosa iniziata all’interno dell’abitazione e con l’uso di un coltello particolarmente affilato . In presenza di tali indicatori dosimetrici, inoltre, la Corte territoriale riteneva di non concedere le attenuanti generiche invocate dalla difesa del ricorrente, evidenziando che l’azione aggressiva posta in essere dall’imputato in danno della moglie non poteva trovare alcuna giustificazione, tenuto conto del fatto che la consorte si era limitata a comunicare al B. la sua intenzione di interrompere la loro relazione coniugale, senza utilizzare toni verbali offensivi o comunque aggressivi nei suoi confronti. Veniva compiuta, in tal modo, una valutazione della condotta illecita dell’imputato pienamente rispettosa dei parametri indicati dall’art. 133 cod. pen., fondando il giudizio sulla mancata concessione delle attenuanti generiche invocate dalla difesa del B. su una verifica congrua del disvalore dell’azione criminosa del ricorrente. Si consideri, in ogni caso, che le attenuanti generiche rispondono alla funzione di adeguare la pena al caso concreto nella globalità degli elementi oggettivi e soggettivi che la connotano, sul presupposto del riconoscimento di situazioni fattuali concretamente riscontrate con riferimento alla posizione processuale dell’imputato. La necessità di un giudizio che coinvolga tale posizione processuale nel suo complesso e che secondo la Corte territoriale impediva la concessione all’imputato delle attenuanti generiche sulla base di un giudizio sul disvalore della sua condotta ineccepibile è sintetizzata dal principio di diritto affermato da questa Corte, secondo cui Le attenuanti generiche non possono essere intese come oggetto di benevola e discrezionale concessione del giudice, ma come il riconoscimento di situazioni non contemplate specificamente, non comprese cioè tra le circostanze da valutare ai sensi dell’art. 133 cod. pen., che presentano tuttavia connotazioni tanto rilevanti e speciali da esigere una più incisiva, particolare, considerazione ai fini della quantificazione della pena cfr. Sez. 6, n. 2642 del 14/01/1999, Catone, Rv. 212804 . Con specifico riferimento al quarto motivo di ricorso deve darsi ulteriormente conto della doglianza difensiva secondo cui la sentenza impugnata non aveva tenuto conto, ai fini della quantificazione della pena irrogata all’imputato della riconciliazione nel frattempo intervenuta tra i coniugi B. , la quale imponeva la formulazione di un giudizio dosimetrico maggiormente attenuato rispetto a quello compiuto nel giudizio di primo grado, alla luce dei criteri dosimetrici previsti dall’art. 133 cod. pen Deve, in proposito, rilevarsi che sulla corretta applicazione dei criteri dosimetrici previsti dall’art. 133 cod. pen. non occorre soffermarsi ulteriormente, essendo sufficiente richiamare i passaggi argomentativi esplicitati nel paragrafo precedente, circa il rilievo affatto preponderante dell’elevato disvalore della condotta delittuosa dell’imputato, reso evidente dalla particolare gravità dell’aggressione armata posta in essere dal B. in danno della moglie, rispetto al quale la dedotta riconciliazione coniugale risultava ininfluente. Queste considerazioni impongono di escludere discrasie argomentative riconducibili all’applicazione dei parametri di cui all’art. 133 cod. pen 3. Analogo giudizio di infondatezza deve essere espresso con riferimento all’impugnazione proposta dall’avv. Giovanni Aricò. Con tale atto, nell’ambito di un’unica doglianza difensiva, si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione agli artt. 43, 56 e 575 cod. pen., in conseguenza del fatto che le evidenze probatorie acquisite nei giudizi di merito non consentivano di ricondurre l’ipotesi delittuosa contestata al B. al tentato omicidio aggravato, tenuto conto che l’aggressione della moglie si era interrotta in conseguenza della scelta autonoma dell’imputato, che imponeva di ricondurre il suo comportamento alla figura della desistenza volontaria, così come disciplinata dall’art. 56, comma 3, cod. pen In tale ambito, deve preliminarmente evidenziarsi che sui profili relativi all’inquadramento dell’ipotesi delittuosa contestata al B. ai sensi artt. 56, 575 e 577, comma 2, cod. pen. cui nel ricorso in esame ci si riferisce sotto il profilo dell’elemento soggettivo sottostante all’azione aggressiva posta in essere in danno della D. non occorre soffermarsi ulteriormente, essendo sufficiente richiamare le considerazioni espresse nel paragrafo 2.1., cui si deve rinviare. In questa cornice, deve rilevarsi che, secondo la Corte territoriale, l’azione aggressiva del B. , sviluppandosi attraverso un’azione sequenziale e una pluralità di fasi esecutive, non consentiva di ipotizzare la ricorrenza di un’ipotesi di desistenza volontaria, atteso che l’imputato aveva dapprima sferrato due coltellate allo sterno della moglie con un coltello con lama di ceramica e successivamente nonostante i tentativi di difendersi della moglie, attestati dalle ferite riportate alle mani e all’avambraccio aveva continuato a picchiarla violentemente, sia nel luogo dell’appartamento dove si era verificato l’accoltellamento, sia davanti alla porta d’ingresso della loro abitazione, interrompendosi solo in conseguenza delle richieste disperate di aiuto della moglie. Ne discende che, nel caso di specie, l’evento delittuoso deliberato dal ricorrente non era stato raggiunto per uno sviluppo imprevedibile degli avvenimenti, costituito dall’inaspettata reazione della moglie dell’imputato, la quale, nonostante la violenza dell’aggressione subita e la gravità delle ferite riportate, invocava disperatamente l’aiuto dei vicini di casa, riuscendo in tal modo a interrompere l’azione omicida del B. , con un comportamento autonomo rispetto all’azione aggressiva del coniuge. Sotto questo profilo valutativo, la motivazione fornita dal provvedimento impugnato a pagina 4 perfettamente sovrapponibile a quella resa sul punto dalla sentenza di primo grado, nel passaggio esplicitato a pagina 3, dove si richiamava il comportamento reattivo della moglie dell’imputato appare ineccepibile, laddove si affermava Il B. ha con consapevolezza sferrato due coltellate alla moglie in pieno petto e l’ha ripetutamente picchiata e l’evento letale è stato scongiurato solo dalla reazione immediata della p.o. che ha chiesto aiuto . Sulla scorta di tali incontroverse emergenze processuali, l’inquadramento della fattispecie contestata al B. ai sensi degli artt. 56, 575 e 577, comma 2, cod. pen. risulta corretta ed esente da discrasie motivazionali, sotto il profilo della dedotta possibilità di un’ipotesi di desistenza volontaria, così come configurata dall’art. 56, comma 3, cod. pen., alla luce della giurisprudenza di legittimità consolidata, secondo cui È configurabile il tentativo e non la desistenza volontaria nel caso in cui la condotta delittuosa si sia arrestata prima del verificarsi dell’evento non per volontaria iniziativa dell’agente ma per fattori esterni che impediscano comunque la prosecuzione dell’azione o la rendano vana cfr. Sez. 2, n. 51514 del 05/12/2013, Martucciello, 258076 . Queste considerazioni impongono di ritenere smentito dalle emergenze processuali l’assunto difensivo posto a fondamento del ricorso in esame, secondo cui il comportamento del B. era stato causato da un improvviso accesso d’ira che si interrompeva sulla base di un autonomo processo decisionale dell’imputato rispetto al quale risultava irrilevante la condotta reattiva posta in essere dalla moglie nella fase conclusiva dell’aggressione la cui sussistenza imponeva di escludere una volontà omicida e non consentiva di configurare l’ipotesi delittuosa oggetto di contestazione. Invero, la desistenza volontaria dall’azione delittuosa ipotizzata dalla difesa del B. presuppone la costanza e la persistenza della possibilità di consumazione del delitto, che devono essere valutate sotto il duplice profilo oggettivo e soggettivo della sequenza criminosa, tenuto conto di tutte le circostanze di tempo e di luogo. Ne consegue che, qualora una tale possibilità esecutiva sia venuta concretamente meno, in conseguenza dell’impossibilità materiale di realizzare l’attività delittuosa deliberata, oppure, sul piano soggettivo, per un’impossibilità esecutiva erroneamente ritenuta dal soggetto attivo del reato, deve ritenersi sussistente l’ipotesi del delitto tentato cfr. Sez. 1, n. 9015 del 04/02/2009, Petralito, Rv. 242877 . Risulta, al contempo, pacifico, che non ricorre l’ipotesi della desistenza volontaria prevista dall’art. 56, comma 3, cod. pen. ma quella del tentato omicidio quando l’interruzione dell’azione omicida sia causata dalla reazione della vittima certamente riscontrabile nel caso in esame conformemente alla giurisprudenza di legittimità, secondo cui Non ricorre l’ipotesi della desistenza volontaria se la vittima con la sua improvvisa reazione ha costretto l’imputato a desistere dall’azione criminosa cfr. Sez. 2, n. 1193 del 15/11/1985, Beretta, Rv. 171752 . Di questi criteri ermeneutici la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione, apprezzando il materiale probatorio acquisito in modo adeguato e vagliandolo alla luce delle circostanze di tempo e di luogo attraverso le quali l’azione criminosa del B. si sviluppava in danno della consorte, sottraendosi in tal modo a qualunque censura di legittimità. Infatti, la ricostruzione della dinamica dell’aggressione posta in essere dall’imputato in danno della D. iniziata all’interno della loro abitazione coniugale e proseguita davanti alla porta d’ingresso dello stesso immobile, dove l’azione omicida si arrestava in conseguenza delle urla di aiuto della moglie depone univocamente nel senso che il B. non abbia volontariamente abbandonato l’azione ma vi sia stato costretto da una serie di circostanze, oggettive e soggettive, quali l’imprevista reazione della D. , la sua richiesta disperata di aiuto e il venire meno della convinzione di riuscire a portare termine il progetto omicida. Tali considerazioni impongono di ritenere infondato la doglianza difensiva in esame. 4. Per queste ragioni processuali, il ricorso proposto nell’interesse di B.A. deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.