La Suprema Corte delinea i connotati della ricognizione, tra indagini di polizia giudiziaria e dibattimento

A dispetto dell’impostazione dogmatica classica, il riconoscimento del reo svolto dal testimone si è sempre più connotato come una parte della deposizione, non diversa da altre di carattere puramente narrativo. Sotto questo profilo, la pronuncia in esame ribadisce principi consolidati in materia di attendibilità della testimonianza, traslandoli, come già era stato fatto in precedenza, in un campo che, per le ragioni che si diranno, non pare pienamente omologabile.

La Cassazione coglie l’occasione, con la sentenza n. 37545/2016, depositata il 9 settembre, per fare chiarezza su un tema spesso oggetto di contrasti pratici, caratterizzato da un forte influsso del c.d. diritto vivente. Il caso. L’inchiesta nasce dalla degenerazione di una lite, nata per futili ragioni tra due automobilisti. La vittima, che s’accingeva ad immettersi in strada da un parcheggio, rischiava di urtare un’altra vettura in transito, invitando con un gesto il conducente a rallentare quest’ultimo, per tutta risposta, iniziava a seguirlo, fino a che entrambi, scesi dai rispettivi mezzi, si confrontavano, evitando il contatto fisico per il provvidenziale intervento di alcuni passanti. Il prevenuto però, non desisteva, rintracciando la persona offesa in un bar ed aggredendola con un coltello al fianco e, mentre s’era già voltata per fuggire, alla schiena colpito in volto da un altro avventore, poi, si allontanava. Ricoverato presso il nosocomio locale, il giovane subiva un collasso polmonare, oltre a riportare ferite alla regione dorsale, all’emitorace sinistro, alla regione ascellare ed alla gamba sinistra. Il Tribunale di Velletri condannava l’imputato alla pena di anni dodici di reclusione per tentato omicidio, aggravato dai futili motivi dalle testimonianze, invero, si ricavavano la gravità delle lesioni, la direzione, frequenza ed intensità dei colpi, che avevano attinto parti vitali anche nel momento in cui il ferito tentava di allontanarsi, così come il contesto dell’aggressione, scaturita per un semplice alterco tra utenti della strada. La Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della prima decisione, escludeva la contestata aggravante, riducendo la pena ad anni otto di reclusione e ritenendo insussistente l’invocata esimente della legittima difesa. Ricorre per cassazione l’imputato, lamentando erronea applicazione della legge penale, con riguardo ai vizi del riconoscimento ed all’inattendibilità della testimonianza resa dalla parte civile, indebitamente influenzata dalle foto già viste ed illogicità della motivazione circa la credibilità concessa al riconoscimento operato dall’ex fidanzata, in assenza di ulteriori accertamenti – assunti come oggetto di richiesta indispensabile integrazione istruttoria – sulla presenza, nello stesso territorio in cui si erano svolti i fatti, di un cugino a lui particolarmente somigliante. La sentenza. Il Collegio – su parere conforme del Procuratore generale – rigetta il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali, alla refusione delle spese di lite sopportate della parte civile ed al pagamento in favore della Cassa delle Ammende. La parte espone analiticamente i diversi punti di interesse, tanto da includere anche una premessa non indispensabile – ex art. 173 d.a. c.p.p. – concernente l’esatta qualificazione giuridica della condotta incriminata. La sussistenza del delitto di omicidio in forma tentata. Prima di addentrarsi nelle specifiche censure, infatti, L’Estensore chiarisce come al di là della evidente potenzialità lesiva dell’azione messa in atto, che non ha prodotto la morte dell’aggredito a causa di ragioni esterne alla volontà dell’agente l’intervento di un estraneo, frequentatore dello stesso bar , sussistano i presupposti del tentato omicidio anche da un punto di vista soggettivo. A tal proposito, non v’è chi non veda come il tipo di arma, la forza usata e le zone vitali attinte, siano chiari indicatori della presenza del c.d. animus necandi , delineando l’intenzione di chi non solo si sia rappresentato come possibile l’evento morte, ma l’abbia accettato e voluto univocamente nella sua concreta accadibilità . Le caratteristiche della ricognizione in dibattimento. Il Collegio esamina, quindi, la questione centrale, omettendo di considerare, sul punto, i diversi aspetti di merito sui quali irritualmente indugia il deducente. La riflessione degli Ermellini muove da un diverso inquadramento sistematico dell’istituto mentre il difensore si concentra sui profili strutturali della ricognizione – intesa come mezzo di prova a sé stante – i Giudici sostengono che, avvenendo in aula e non in sede di indagini preliminari, essa costituisce accertamento di fatto liberamente apprezzabile dal giudicante [] parte integrante della testimonianza, di tal che l’affidabilità e la valenza probatoria dell’individuazione informale discendono dall’attendibilità accordata al teste ed alla deposizione dal medesimo resa, valutata alla luce del prudente apprezzamento del decidente . Ciò implica che al pari delle deposizioni delle persone offese, sempre se attendibili e circonstanziate, può costituire elemento idoneo a fondare il convincimento del giudice [] affidabilità non deriva dal riconoscimento in sé, ma dalla credibilità delle deposizione di chi, avendo esaminato la fotografia dell’imputato, si dica certo della sua identificazione citando, sul punto, Cass., sez. VI Pen., 27.11.2012, n. 49758, RV. 253910 . Nella fattispecie, dunque, la certezza espressa dall’ex compagna dell’imputato al momento dell’individuazione fotografica e l’indifferenza della ragazza nei suoi confronti al momento della conferma in istruttoria, quando la relazione era terminata da quasi sette anni, rendono immune da ogni critica il giudizio espresso dalla Corte territoriale. Conclusioni. La sentenza in commento, malgrado sia un buon compendio dei principi di legittimità in materia di ricognizione in dibattimento, non pare totalmente condivisibile. A modesto avviso di chi scrive, infatti, l’affidamento alla discrezionalità giudiziale di aspetti delicati e complessi, riferibili ad un mezzo di prova così rigidamente disciplinato dal codice di rito per gli importanti effetti che può determinare in ordine all’accertamento di responsabilità, è bilanciato solo parzialmente dal diritto del difensore di controesaminare il testimone, vertendo qui la deposizione su ricordi facilmente deteriorabili, anche per un soggetto intrinsecamente credibile e rispetto ai quali nessuna domanda può essere rimedio efficiente.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 17 febbraio – 9 settembre 2016, n. 37545 Presidente Vecchio – Relatore Minchella Rilevato in fatto Nella tarda serata del dì OMISSIS B.M. usciva dalla sua abitazione con la propria autovettura ma, al momento dell’immissione in strada, veniva quasi urtato da un’altra vettura che transitava così, subito dopo raggiungeva l’altra vettura ed invitava il conducente, e cioè l’imputato C.R. , a viaggiare a velocità meno sostenuta. Per tutta risposta il C. iniziava a tallonare l’auto del B. , il quale, ad un certo punto, fermava la marcia e scendeva dalla vettura dirigendosi verso il C. e portando con sé il bloccasterzo ma non raggiungeva l’imputato poiché intervenivano altre persone che suggerivano al B. di allontanarsi così egli faceva e si recava in un bar al centro di OMISSIS ma, mentre colloquiava con alcuni suoi conoscenti nel locale, veniva raggiunto dal C. , il quale, armato di coltello, lo colpiva dapprima con due fendenti al fianco e poi, quando la vittima si era voltata per fuggire, la colpiva alla schiena caduto a terra l’aggredito, il C. continuava a colpirlo, attingendolo due volte ad una gamba che quegli aveva sollevato a difesa del corpo. A quel punto un avventore colpiva il C. con un pugno al volto e l’imputato si allontanava. Giungeva un autoambulanza ed il B. veniva ricoverato in ospedale si riscontravano ferite alla regione dorsale, all’emitorace sinistro, alla regione ascellare, alla gamba sinistra nonché un collasso polmonare che richiedeva un intervento di drenaggio nel cavo pleurico. Con sentenza in data 29.10.2012 il Tribunale di Velletri condannava il C. alla pena di anni dodici di reclusione per tentato omicidio aggravato dai motivi futili rilevava il Giudice che le testimonianze avevano confermato le tre fasi degli eventi, il litigio per la questione di viabilità, il tallonamento della vettura e infine l’aggressione del C. con i colpi inferti alla vittima il C. era stato riconosciuto senza dubbi su effigi fotografiche egli si era reso latitante dopo i fatti ed era rimasto contumace le lesioni patite erano state confermate nella loro gravità. Si riteneva sussistente il tentativo di omicidio, desunto dalla idoneità degli atti posti in essere con un coltello, che doveva essere abbastanza lungo da attingere un polmone, nonché dalla direzione dei colpi al torace, sede di organi vitali l’elemento soggettivo era ricavato dalla violenza e dalla reiterazione dei colpi nonché dal fatto che il C. aveva continuato ad infierire sulla vittima anche quando essa stava dandosi alla fuga e poi era caduta in terra non poteva parlarsi di cause di giustificazione, nemmeno in via putativa, e ciò proprio per la prosecuzione dell’azione su di un avversario ormai a terra si escludeva la contestata recidiva, ma si riteneva sussistente la circostanza aggravante dei futili motivi, consistiti in un banale alterco stradale. Avverso detta condanna interponeva appello il C. , lamentando l’atipicità del riconoscimento fotografico effettuato, invocando la scriminante della difesa legittima in relazione ad una asserita azione aggressiva del B. e chiedendo comunque di escludere la circostanza aggravante dei futili motivi. Con sentenza in data 22.01.2015 la Corte di Appello di Roma escludeva la circostanza aggravante suddetta e riduceva la pena ad anni otto di reclusione si rilevava che il riconoscimento fotografico era stato effettuato correttamente ex art. 507 cod.proc.pen., dato che l’imputato era latitante escludeva la veridicità della versione del C. , il quale continuava a dire di non essere mai stato in OMISSIS , dove invece avrebbe dimorato un suo cugino a lui somigliante ma la ragazza a lui legata sentimentalmente all’epoca aveva confermato che era stato proprio l’imputato il protagonista della vicenda ed anche la vittima, visto infine l’imputato in aula, l’aveva riconosciuto sia pure con cautela erano trascorsi sette anni dai fatti . La Corte di Appello riteneva insussistente l’ipotesi di una difesa legittima giacché il C. non aveva reagito ad alcuna aggressione ed anzi aveva aggredito la vittima a freddo, dopo almeno un quarto d’ora dal litigio in strada si confermava la configurabilità del tentato omicidio, ma si riteneva che la causa del litigio non era stato l’alterco per motivi di viabilità bensì il fronteggiarsi successivo ed il litigio che ne era seguito. Avverso detta sentenza propone ricorso l’interessato personalmente, deducendo erronea applicazione della legge penale e di norme processuali ex art. 606, comma 1 lett. b e c , cod.proc.pen. con riferimento al riconoscimento fotografico effettuato in primo grado ed alla testimonianza resa dinanzi alla Corte di Appello dalla vittima, la quale era stata in qualche modo incerta, ma la Corte di Appello non aveva considerato che era stata suggestionata dalla fotografia vista nel dibattimento di primo grado. Come secondo motivo si lamenta illogicità della motivazione ex art. 606, comma 1 lett. e , cod.proc.pen. in relazione alla credibilità attribuita alla ex fidanzata che aveva riconosciuto il C. senza disporre accertamenti circa la detenzione in Romania del C. o circa una documentazione fotografica del cugino del ricorrente e senza spiegare adeguatamente le ragioni di tale decisione. Considerato in diritto Il ricorso va rigettato poiché infondato. Per come scritto sopra, il ricorrente è stato condannato per la sua condotta lesiva nei confronti della persona offesa, di tale gravità da far riscontrare la fattispecie del tentato omicidio. La vicenda è stata già sintetizzata, per cui, al fine di evitare pleonasmi, è sufficiente rammentare che, a causa di una banale questione di viabilità stradale, un litigio tra il C. e la persona offesa si è trascinato sino a divenire un grave fatto di cronaca nelle due sentenze prima citate si descrive il comportamento del C. ed i giudici pongono in evidenza che egli non si è affatto trovato di fronte ad una aggressione, bensì è stato lui ad aggredire freddamente la persona offesa nel locale pubblico egli, quando ormai l’alterco appariva superato, ha ripreso la sua ostilità colpendo con forza ed utilizzando un coltello di dimensioni ragguardevoli, reiterando i suoi fendenti al torace della vittima, la quale veniva persino attinta alla schiena nel mentre tentava di sottrarsi alla furia del ricorrente anche con la vittima ormai a terra, egli non ha cessato di colpire, ferendo la gamba del B. protesa in un ultima difesa. Il ricorso del C. non affronta il tema della qualificazione della condotta, ma argomenta le doglianze su due ordini di ragioni 1 si contesta la legittimità del riconoscimento fotografico effettuato nel corso del processo di primo grado 2 si contesta la genuinità del riconoscimento effettuato in aula da parte della persona offesa 3 si contesta la credibilità attribuita alla ragazza con cui il C. aveva una relazione sentimentale e che lo aveva riconosciuto 4 si lamenta la mancata istruttoria suppletiva asseritamente necessaria. Si tratta di tutte ragioni che non possono essere accolte. Preme osservare brevemente che non vi è dubbio circa la corretta qualificazione della condotta del C. per giurisprudenza costante di questa Corte, ai fini della definizione del fatto materiale nel reato di tentato omicidio deve aversi riguardo sia all’atteggiamento psicologico dell’agente sia alla potenzialità dell’azione lesiva. In questo reato l’azione esaurisce la sua carica offensiva con un quid pluris che, andando al di là dell’evento realizzato, tende ed è idoneo a causarne uno più grave in danno dello stesso bene giuridico o di un bene giuridico superiore, riguardanti il medesimo soggetto passivo, non riuscendo tuttavia a cagionarlo per ragioni estranee alla volontà dell’agente Sez. 1, 20 maggio 1987, Rv. 177610 . Il giudice di secondo grado è stato ossequioso di questi principi, avendo esaustivamente dato conto delle ragioni della qualificazione del fatto, giuste le considerazioni esposte in punto di sede corporea attinta dal prevenuto e dell’idoneità dell’arma impiegata e della profondità delle ferite inferte, elementi particolarmente pregnanti e significativi di per sé soli per la valutazione di sussistenza di indici sufficienti per ritenere fondato l’ animus necandi è ben vero che l’agente era stato in grado di rendersi fin da subito conto della possibile esizialità dei colpi inferti. Quanto all’elemento soggettivo del reato, esaustiva è stata la motivazione in relazione alla valutazione della qualità del dolo i giudici del merito, hanno logicamente ritenuto che gli accadimenti e la loro sequenza non consentivano di affermare che il prefato avesse voluto altro se non uccidere la vittima. Il tipo di arma utilizzata, la forza impiegata, la sede corporea attinta facevano ben comprendere che l’evento morte non era stato rappresentato solo come possibile, ma accettato e voluto univocamente nella sua concreta accadibilità. Tanto premesso, vanno effettuate altre osservazioni in relazioni alle ragioni di doglianza. p.1. Il ricorrente contesta la legittimità del riconoscimento fotografico effettuato nel corso del processo di primo grado ma si tratta di doglianza priva di fondamento. L’individuazione fotografica effettuata dal teste, nel giudizio, mediante le fotografie contenute nei verbali di individuazione fotografica redatti nella fase delle indagini preliminari costituisce attività del tutto legittima, in quanto i fascicoli fotografici conservano una loro sostanziale autonomia e possono essere successivamente mostrati ai testimoni chiamati ad effettuare detto riconoscimento in sede di istruttoria dibattimentale Sez. 5, n 19638 del 06.04.2011, Rv 250193 . È necessario rammentare che l’individuazione fotografica, al pari delle deposizioni delle persone offese, sempre se attendibili e circostanziate, può costituire elemento idoneo a fondare il convincimento del giudice. Trattasi, più dettagliatamente, di un dato probatorio più precisamente, di una prova atipica la cui affidabilità non deriva dal riconoscimento in sé, ma dalla credibilità della deposizione di chi, avendo esaminato la fotografia dell’imputato, si dica certo della sua identificazione Sez. 6, n 49758 del 27.11.2012, Rv 253910 . In definitiva, non sono ravvisabili nel caso di specie profili di inutilizzabilità o inattendibilità dei riconoscimenti fotografici effettuati i giudici di merito hanno tenuto conto della personalità del testimone e delle modalità del riconoscimento effettuato ed hanno ritenuto del tutto attendibili i risultati della prova. Trattasi di una valutazione di merito, che, per essere sorretta da una motivazione non manifestamente illogica, non è censurabile in sede di legittimità. p.2. Il ricorrente contesta la genuinità del riconoscimento effettuato in aula da parte della persona offesa e la credibilità complessiva della stessa ma deve essere rilevato come le censure mosse dal ricorrente - ruotanti appunto intorno alla denunciata inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa e della individuazione fotografica da questa operata - si sostanzino nella prospettazione di una lettura alternativa delle emergenze dell’istruttoria dibattimentale, indeducibile nella sede di legittimità. D’altra parte, nessun rilievo di ordine logico giuridico può essere fondatamente mosso al percorso argomentativo seguito dai decidenti di merito per confermare il giudizio di penale responsabilità del C. con riguardo al riconoscimento fotografico operato dalla persona offesa, va notato che - come anche evidenziato dai decidenti di merito - il teste, non solo ha compiuto la ricognizione fotografica in immediata successione temporale rispetto al tentato omicidio, quando il ricordo delle sembianze dell’autore del misfatto era ancora vivido, ma ha confermato il riconoscimento nel corso dell’esame dibattimentale. Anzi, i giudici di appello hanno anche spiegato che l’apparente prudenza del B. al momento del riconoscimento in aula non era altro che doverosa cautela in ragione del tempo trascorso dai fatti. Nel ritenere pienamente utilizzabile il riconoscimento fotografico informale compiuto inizialmente, la Corte territoriale si è attenuta alla consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui i riconoscimenti fotografici effettuati durante le indagini di polizia giudiziaria ed i riconoscimenti informali dell’imputato operati dai testi in dibattimento costituiscono accertamenti di fatto utilizzabili nel giudizio in base ai principi della non tassatività dei mezzi di prova e del libero convincimento del giudice Sez. 2, n. 17336 del 29/03/2011, Rv. 250081 . Ancora, questa Corte ha ribadito che l’identificazione effettuata in sede dibattimentale non obbedisce alle formalità previste per la ricognizione in senso proprio, di cui all’art. 213 cod.proc.pen., e segg., siccome riferibile esclusivamente al contenuto di identificazioni orali del testimone, per cui vige la disciplina dell’art. 498 cod.proc.pen. e ss., sì che da esse, come da ogni elemento indiziario o di prova, il giudice può trarre il proprio libero convincimento Sez. 5, n. 37497 del 13/05/2014, Rv. 260593 . Ne discende che, contrariamente a quanto argomentato dal ricorrente, allorché - come nel caso di specie - il testimone abbia proceduto ad un riconoscimento fotografico informale nel corso delle indagini preliminari e, nel corso dell’esame dibattimentale, abbia confermato di avere compiuto detta ricognizione informale e quindi abbia reiterato il riconoscimento positivo in aula, il convincimento del giudice può ben fondarsi su tale riconoscimento, seppure privo delle cautele e delle garanzie delle ricognizioni, trattandosi di accertamento di fatto liberamente apprezzabile dal giudicante in base al principio della non tassatività dei mezzi di prova. Il momento ricognitivo costituisce invero parte integrante della testimonianza, di tal che l’affidabilità e la valenza probatoria dell’individuazione informale discendono dall’attendibilità accordata al teste ed alla deposizione dal medesimo resa, valutata alla luce del prudente apprezzamento del decidente che, ove sostenuto da congrua motivazione, sfugge al sindacato di legittimità. Insindacabile in questa sede è, d’altra parte, anche la positiva valutazione di attendibilità della persona offesa espressa dalla Corte territoriale. Giova rammentare che, come chiarito da questa Corte a Sezioni Unite, le regole dettate dall’art. 192 cod.proc.pen., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone Cass. Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte ed altri, Rv. 253214 . Di tali principi hanno fatto buon governo i giudici di merito, che hanno esplicitato le ragioni per le quali le dichiarazioni del B. possono ritenersi attendibili - in quanto intrinsecamente credibili e confortate da univoci e significativi elementi di conferma oggettiva - e dunque idonee a fondare il giudizio di penale responsabilità a carico del ricorrente, con argomentazioni puntuali, aderenti alle risultanze degli atti e conformi a logica, pertanto incensurabili col ricorso innanzi a questa Corte. p.3. Il ricorso contesta, altresì, la credibilità attribuita alla ragazza con cui il C. aveva una relazione sentimentale e che lo aveva riconosciuto al riguardo, invero, deve ribadirsi il principio, costantemente affermato da questa Suprema Corte, secondo cui, esclusa la necessità che la testimonianza debba essere corroborata dai cosiddetti elementi di riscontro richiesti invece per le dichiarazioni accusatorie provenienti dai soggetti indicati nel comma 3 dell’art. 192 cod.proc.pen., il giudice deve limitarsi a verificare l’intrinseca attendibilità della testimonianza stessa, partendo però dal presupposto che, fino a prova contraria, il teste riferisce fatti obiettivamente veri, o da lui ragionevolmente ritenuti tali. Sotto altro, ma connesso profilo, l’espressione fino a prova contraria non significa che la deposizione testimoniale non possa essere disattesa se non quando risulti positivamente dimostrato il mendacio, ovvero il vizio di percezione o di ricordo del teste, ma solo che devono esistere elementi positivi atti a rendere obiettivamente plausibile l’una o l’altra di dette ipotesi Sez. 1, n. 7568 del 02/06/1993, Rv. 194774 . Ne discende, inoltre, che le dichiarazioni di un testimone anche se si tratti della persona offesa , per essere positivamente utilizzate dal giudice, devono risultare credibili, oltreché avere ad oggetto fatti di diretta cognizione e specificamente indicati, con il logico corollario che, contrariamente ad altre fonti di conoscenza, come le dichiarazioni rese da coimputati o da imputati in reati connessi, esse non abbisognano di riscontri esterni, il ricorso eventuale ai quali è funzionale soltanto al vaglio di credibilità del testimone Sez. 3, n. 11829 del 26/08/1999, Rv. 215247 . Nella fattispecie, la Corte territoriale ha ben spiegato che la teste L. non aveva avuto il minimo tentennamento nel riconoscere nell’imputato in aula la persona che aveva litigato con il B. , e questa certezza derivava dal fatto che quella persona, all’epoca dei fatti de quibus , era il suo fidanzato la testimone, cioè, era stata legata sentimentalmente al C. e questo intimo rapporto, secondo il giudice, escludeva la possibilità di un errore e parimenti non fondava alcun dubbio di falsità nella deposizione al contempo, la Corte territoriale ha chiarito che il tempo trascorso dai fatti e la lontananza tra i due il C. era fuggito subito dopo i fatti aveva fatto sì che ella non avesse più visto il C. se non nel processo di secondo grado, quando ormai da sette anni non era più legata a lui ed era indifferente alla sua situazione ciò non consentiva nemmeno di ipotizzare che volesse celare il vero autore del fatto. Anche in questo ambito, dunque, i giudici di merito, hanno esplicitato le ragioni per le quali le dichiarazioni della L. possono ritenersi attendibili e dunque idonee a fondare il giudizio di penale responsabilità a carico del ricorrente, con argomentazioni puntuali, aderenti alle risultanze degli atti e conformi a logica, pertanto incensurabili col ricorso innanzi a questa Corte. p.4. Il ricorrente, infine, lamenta la mancata istruttoria suppletiva asseritamente necessaria la Corte territoriale, cioè, non avrebbe motivato sulle ragioni per le quali non ha ritenuto di disporre la rinnovazione della istruzione dibattimentale mentre le asserite lacunose prove offerte dal processo avrebbero dovuto indurre i giudici dell’appello a procedere ad ulteriori approfondimenti. Ma si tratta di censura che non ha consistenza ed è ai limiti della ammissibilità, in quanto fortemente orientata verso una rivalutazione del merito, incompatibile con l’odierno scrutinio di legittimità. I giudici del merito hanno infatti puntualmente passato in rassegna le emergenze scaturite dalle indagini e dalle acquisizioni dibattimentali, ponendo in luce la ricostruzione completa dell’accaduto, la condotta del C. , le ferite inferte alla vittima, l’arma utilizzata e le ragioni dell’aggressione. In merito, quindi, alla mancata rinnovazione della istruzione dibattimentale, la motivazione della sentenza si rivela incensurabile, tenuto conto della delibata congruità degli elementi acquisiti e dei connotati di eccezionalità che caratterizzano il richiamato istituto. Può qui infatti ripetersi che la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel giudizio di appello è evenienza eccezionale, subordinata ad una valutazione giudiziale di assoluta necessità conseguente all’insufficienza degli elementi istruttori già acquisiti, che, sola, impone l’assunzione di ulteriori mezzi istruttori Sez. 2, n. 3458 del 01/12/2005, Rv. 233391 . Il ricorso va dunque rigettato ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali nonché, ai sensi dell’art. 616 cod.proc.pen., comma 1 ultima parte, in considerazione dei motivi di ricorso e dei profili di responsabilità del ricorrente nella determinazione del rigetto, il ricorrente va condannato anche al versamento a favore della Cassa delle Ammende di una sanzione pecuniaria che si stima equo determinare, tra il minimo e il massimo previsti, in Euro 500,00. Parimenti il ricorrente dovrà rifondere, in favore della costituita parte civile, le spese del presente giudizio, che si liquidano in complessivi Euro 3.000,00 oltre accessori come per legge. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 500,00 alla Cassa delle Ammende nonché alla refusione a favore della costituita parte civile delle spese per il presente giudizio che liquida in complessivi Euro 3.000,00 oltre accessori come per legge.