Detenzione di marijuana e hashish: quando in sede esecutiva è possibile la rideterminazione della pena

Il Giudice dell’esecuzione può rideterminare la pena quando vi è interesse del condannato ossia nel caso in cui la pena debba ancora essere espiata e qualora una quota della pena espiata in eccesso rispetto alla sopravvenuta cornice edittale più favorevole possa essere imputata alla condanna per altro reato.

E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 27403/16, depositata il 4 luglio. Il caso. La Corte d’appello di Palermo – con sentenza del 9 giugno 2015 -, in parziale riforma della sentenza pronunciata dal GUP del Tribunale di Palermo, all’esito del giudizio abbreviato, confermava la responsabilità penale per il delitto di illecita coltivazione di piante di marijuana dell’imputato. Riscontrava peraltro il vincolo della continuazione tra questo reato e quello di illecita detenzione di sostanze stupefacenti di tipo marijuana e hashish – ritenendo più grave il delitto già definitivamente giudicato il 15 novembre 2011 -, individuando il reato più grave in quello già irrevocabilmente accertato, facendo riferimento alle pene concretamente irrogate e ritenendo di non poter rideterminare la sanzione già definitivamente inflitta. Il rapporto esecutivo non interamente esaurito. Avverso la sentenza propone ricorso l’imputato con un unico motivo violazione di legge con riferimento agli artt. 136 Cost. 30, comma 3 e 4, della l. n. 87/53, nonché vizio di motivazione, per insufficienza, illogicità e contraddittorietà in relazione al trattamento sanzionatorio. Deduce infatti il ricorrente che, a seguito della sent. Corte Cost. n. 32/14, deve essere rideterminata la pena per il delitto di illecita detenzione di sostanza stupefacente del tipo marijuana e hashish, fissata con sentenza irrevocabile nel 2013 è infatti una pena costituzionalmente illegittima che attiene ad un rapporto esecutivo non interamente esaurito, in quanto il riconoscimento della disciplina di cui all’art. 81 c.p., pur lasciando inalterata la natura individuale dei reati commessi, li ha unificati dal punto di vista sanzionatorio, rendendo comune ed attuale la loro esecuzione e, quindi, unico il titolo esecutivo. La rideterminazione della pena da parte del giudice dell’esecuzione. La Corte accoglie il ricorso. Innanzitutto riporta un precedente la sent. n. 42858/14 con cui le SS.UU. hanno interpretato estensivamente l’art. 30, comma 4, l. n. 87/53 stabilendo che esso impone l’eliminazione di qualsiasi effetto pregiudizievole derivante da condanna assunta sulla base di una norma non incriminatrice che abbia avuto incidenza sul trattamento sanzionatorio da ciò deriva che quando alla pronuncia di una sentenza irrevocabile di condanna segue la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e questo non è stato interamente eseguito, il giudice dell’esecuzione deve rideterminare la pena in favore del condannato. Sviluppando tale principio, la giurisprudenza della Corte ha poi affermato che vi è un interesse del condannato alla rideterminazione della pena in sede esecutiva sia nel caso in cui la pena debba ancora essere espiata, sia nel caso in cui una quota della pena espiata in eccesso rispetto alla sopravvenuta cornice edittale più favorevole possa essere imputata alla condanna per altro reato, ex art. 657, comma 3 e 4, c.p.p Tale principio non può ritenersi applicabile solo nei casi indicati dagli artt. 657 commi 2 e 4, c.p.p., ma deve ricomprendere le ipotesi che si sono realizzate a seguito della progressiva erosione del principio di intangibilità del giudicato. Tale disciplina è ancor più persuasiva quando è applicabile la disciplina del cumulo di pene prevista dal codice penale, poiché l’unificazione delle pene implica unicità, e quindi attualità, anche della porzione di pena già eseguita. Nel caso concreto, dunque, la rideterminazione della pena per il reato di illecita detenzione di stupefacenti imporrà anche un nuovo giudizio ai fini dell’individuazione del reato più grave tra le due fattispecie unificate in continuazione.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 10 giugno – 4 luglio 2016, n. 27403 Presidente Conti – Relatore Corbo Ritenuto in fatto 1. Con sentenza emessa il 9 giugno 2015, la Corte di appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza pronunciata dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Palermo, all'esito di giudizio abbreviato, ha confermato la dichiarazione di penale responsabilità di L.C. per il delitto di illecita coltivazione di piante di marijuana, accertato il 18 novembre 2009, ha riconosciuto il vincolo della continuazione tra questo reato e quello di illecita detenzione di sostanze stupefacenti di tipo marijuana e hashish, accertato nella medesima data, ed oggetto di condanna passata in giudicato il 15 novembre 2011, ha ritenuto più grave il delitto già definitivamente giudicato, ed ha fissato la pena complessiva in anni quattro e mesi otto di reclusione ed euro 24.000 di multa. La sentenza della Corte di appello, in particolare, ha individuato il reato più grave in quello già irrevocabilmente accertato sulla base della regola fissata dall'art. 187 disp. att. cod. proc. pen., ossia facendo riferimento alle pene concretamente irrogate, e ritenendo di non poter rideterminare la sanzione già definitivamente inflitta. 2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe l'avvocato Fabio Cosentino, quale difensore di fiducia del C., articolando un unico motivo, nel quale lamenta violazione di legge, con riferimento agli artt. 136 Cost. e 30, terzo e quarto comma, della legge n. 87 del 1953, nonché vizio di motivazione, per insufficienza, illogicità e contraddittorietà, in relazione al trattamento sanzionatorio. Si deduce che, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, deve essere rideterminata anche la pena per il delitto di illecita detenzione di sostanza stupefacente del tipo marijuana e hashish, fissata con sentenza irrevocabile nel 2013 si tratta, infatti, di una pena costituzionalmente illegittima, che attiene ad un rapporto esecutivo, il quale non può dirsi interamente esaurito, in quanto il riconoscimento della disciplina di cui all'art. 81 c.p., pur lasciando inalterata la natura individuale dei reati commessi, li ha unificati dal punto di vista sanzionatorio, rendendo comune ed attuale la loro esecuzione , e, quindi, unico il titolo esecutivo . Si cita, a supporto di tale ricostruzione, anche un precedente giurisprudenziale, e, precisamente, Sez. 4, n. 30475 del 17/06/2014, Libretti, Rv. 260631. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato e deve essere accolto, per le ragioni di seguito precisate. 2. Va innanzitutto ricordato che la sentenza Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260697, ha interpretato estensivamente la legge n. 87 del 1953, art. 30, comma 4, stabilendo che esso impone l'eliminazione di qualsiasi effetto pregiudizievole derivante da condanna assunta sulla base di una norma anche non incriminatrice che abbia avuto incidenza sul trattamento sanzionatorio ne è seguita la formulazione della massima secondo cui, quando, successivamente alla pronuncia di una sentenza irrevocabile di condanna, interviene la dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e quest'ultimo non è stato interamente eseguito, il giudice dell'esecuzione deve rideterminare la pena in favore del condannato. 3. Sviluppando questo principio, la giurisprudenza di legittimità ha successivamente affermato che vi è un interesse del condannato alla rideterminazione della pena in sede esecutiva sia nel caso in cui la pena debba ancora essere espiata, sia nel caso analogo in cui una quota della pena espiata in eccesso rispetto alla sopravvenuta cornice edittale più favorevole possa essere imputata alla condanna per altro reato, in applicazione del generale criterio della fungibilità previsto dall'art. 657, comma 3, cod. proc. pen. sempre che sussista il requisito cronologico previsto dal successivo comma 4, secondo cui la detenzione sofferta in eccesso deve essersi verificata dopo la commissione del reato per cui si chiede la fungibilità così, tra le altre, Sez. 1, n. 32205 del 26/06/2015, Gomes Toscani, Rv. 264620, nonché Sez. 1, n. 16027 del 27/01/2016, Romano, non massimata . Invero, si è condivisibilmente evidenziato che, sulla base di una interpretazione adeguatrice dell'art. 657, commi 2 e 4, cod. proc. pen. che eviti una disciplina manifestamente irrazionale ed una palesemente ingiustificata disparità di trattamento, dato che l'elemento che caratterizza e giustifica la previsione speciale è costituito dal riferirsi ad una pena la quale, a seguito della modifica della cornice edittale in conseguenza della dichiarazione di illegittimità costituzionale, si riveli espiata sine titulo , il principio appena richiamato non può ritenersi applicabile esclusivamente ai casi in esso indicati, ma debba ricomprendere le ipotesi, originariamente non previste, che si sono realizzate a seguito della progressiva erosione del principio dell'intangibilità del giudicato. Si può aggiungere che tale conclusione è ancor più persuasiva nei casi in cui sia applicabile la disciplina del cumulo di pene fissata nel codice penale invero, l'unificazione delle pene nel caso di specie determinata dal riconoscimento della continuazione implica unicità, e quindi attualità, anche della porzione di pena già eseguita, posto che, in particolare, l'art. 86, primo comma, cod. pen. recita Salvo che la legge stabilisca altrimenti, le pene della stessa specie concorrenti a norma dell'art. 73 si considerano come pena unica per ogni effetto giuridico . Non è pertinente, invece, alla vicenda in esame, il precedente citato dalla Corte d'appello Sez. 3, n. 20915 del 26/04/2013, Markovic, Rv. 255778 , perché lo stesso afferma sì - e condivisibilmente - la giuridica impossibilità di rideterminare l'entità della pena già definitivamente irrogata in caso di riconoscimento tra reati sub iudice e reati più gravi già irrevocabilmente accertati, ma in relazione a vicende nelle quali non si pongono questioni di illegalità costituzionale sopravvenuta della sanzione inflitta con sentenza passata in giudicato. 4. Nel caso di specie, inoltre, non si evidenziano problemi circa la sussistenza del requisito cronologico di cui all'art. 657, comma 4, cod. proc. pen., posto che, per la contestualità dei fatti unificati in continuazione, l'espiazione della detenzione sine titulo è iniziata necessariamente dopo la commissione del reato per il quale si chiede il riconoscimento del credito di pena. Piuttosto, ferma restando la qualificazione dei fatti a norma del comma 1 e non del comma 5 dell'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, così come accertato nel giudizio di merito e non contestato in questa sede, la rideterminazione della pena per il reato di illecita detenzione di stupefacenti imporrà anche un nuovo giudizio ai fini dell'individuazione del reato più grave tra le due fattispecie unificate in continuazione. 5. Conclusivamente, in applicazione del principio sopra esposto, la sentenza impugnata deve essere annullata affinché, ferma restando l'irrevocabilità dell'accertamento in ordine alla sussistenza anche del reato di illecita coltivazione di stupefacenti a norma dell'art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990, il giudice del rinvio, e precisamente altra sezione della Corte d'appello di Palermo, ridetermini la pena per il reato già irrevocabilmente giudicato, individui il reato più grave e computi in relazione al reato di coltivazione illecita di stupefacenti la parte di sanzione sofferta oltre i limiti costituzionalmente consentiti per il reato di illecita detenzione di sostanze del medesimo tipo. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della pena e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Palermo.