Se il giudice di merito qualifica come penale una sanzione amministrativa?

L’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU sancisce il cosiddetto principio del ne bis in idem, laddove stabilisce che nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva, conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato .

La Suprema Corte, con sentenza n. 25815/16, depositata in cancelleria il 22 giugno, accoglie il ricorso. Il caso. Il Tribunale di Asti assolveva l’imputato perché il fatto non era più previsto dalla legge come reato. Per le restanti imputazioni, dichiarava, invece, non doversi procedere ai sensi degli artt. 529 e 649 c.p.p., rilevando l’irrogazione di sanzioni amministrative per gli stessi fatti oggetto del procedimento penale. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione per saltum il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Torino. Il ricorrente deduce che il giudice di merito ha erroneamente qualificato come penale la sanzione amministrativa e come penali i procedimenti sanzionatori relativi alle fattispecie criminose contestate ed ha conseguentemente ed erroneamente applicato il disposto dell’art. 649 c.p.p., senza sollevare questione di legittimità costituzionale. Il disposto del principio ne bis in idem”. Per la Suprema Corte il ricorso è fondato. La sentenza impugnata è infatti viziata da erronea interpretazione dell’art. 649 c.p.p La premessa doverosa è che l’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU sancisce il cosiddetto principio del ne bis in idem , laddove stabilisce che nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato . Tale principio viene applicato anche con riferimento al rapporto tra procedimento penale e procedimento amministrativo. Altra premessa ineludibile per l’applicabilità del principio ne bis in idem è l’individuazione della natura penale di una sanzione che, sulla base della costante giurisprudenza della CEDU, va valutata sulla base di tre criteri la qualificazione giuridica della misura in causa nel diritto nazionale, la natura stessa di quest’ultima, e la natura e il grado di severità della sanzione. Il Giudice di merito, pacifica l’identità del fatto ascritto all’imputato nel presente procedimento rispetto a quello contestatogli in sede amministrativa, ha applicato l’art. 649 c.p.p., interpretandolo secondo l’art. 4 Protocollo n. 7 della CEDU e ritenendo che tale previsione normativa debba estendersi anche all’ipotesi, rilevante nella specie, di un provvedimento formalmente qualificato amministrativo ai sensi del sistema normativo italiano ma sostanzialmente afferente alla materia penale. Tale applicazione dell’art. 649 c.p.p. è erronea. Ne consegue, dunque, l’annullamento della sentenza impugnata perché viziata da erronea applicazione dell’articolo di cui sopra.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 21 aprile – 22 giugno 2016, n. 25815 Presidente Amoresano – Relatore Di Stasi Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato. 2. La sentenza impugnata è viziata da erronea interpretazione dell’art. 649 cod. proc. pen 2.1. Va premesso che, come è noto, l’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU sancisce il c.d. principio del ne bis in idem, laddove stabilisce che Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato . Tale principio, concepito in origine con riguardo esclusivamente agli illeciti penali, viene applicato dalla CEDU anche con riferimento al rapporto tra procedimento penale e procedimento amministrativo o meglio, viene utilizzato con riferimento a quest’ultimo, laddove la sanzione che esso preveda abbia natura sostanzialmente penale. Nella sentenza Grande Stevens c. Italia, del 4.3.2014, infatti, i giudici della Corte di Strasburgo, hanno affermato che, dopo che sono state comminate sanzioni dalla Consob, l’avvio di un processo penale sugli stessi fatti violerebbe il principio giuridico del ne bis in idem, in virtù del quale non si può essere giudicati due volte per lo stesso fatto, in quanto, anche se il processo celebrato innanzi alla CONSOB ha natura amministrativa, le sanzioni inflitte possono essere parificate alle sanzioni penali in considerazione dell’eccessiva afflittività della sanzione sia per l’importo in sé considerato che per le sanzioni accessorie ed ancora per le loro ripercussioni sugli interessi del condannato. Premessa ineludibile per l’applicabilità del principio del ne bis in idem è, quindi, l’individuazione della natura penale di una sanzione, che, sulla base della consolidata giurisprudenza della CEDU, va valutata sulla base di tre criteri la qualificazione giuridica della misura in causa nel diritto nazionale, la natura stessa di quest’ultima, e la natura e il grado di severità della sanzione cfr. sent. Engel e altri c. Paesi Bassi . 2.2. Il Giudice di merito, pacifica l’identità del fatto ascritto all’imputato nel presente procedimento rispetto a quello contestatogli in sede amministrativa, ha applicato l’art. 649 cod. proc. pen., interpretandolo secondo l’art. 4 Protocollo n. 7 della CEDU e ritenendo che tale previsione normativa debba estendersi anche all’ipotesi, rilevante nella specie, di un provvedimento formalmente qualificato amministrativo ai sensi del sistema normativo italiano ma sostanzialmente afferente alla materia penale, secondo i criteri Engel . Tale applicazione dell’art. 649 cod. proc. pen. è erronea. 2.3. Va ricordato che, a seguito dell’intervento operato dalla Corte Costituzionale con le pronunce gemelle del 24 ottobre 2007, le norme della Convenzione EDU nell’interpretazione ad esse attribuita dalla Corte Europea per i diritti dell’Uomo integrano, quali norme interposte il parametro fissato dall’art. 117 Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, condizionando in tal modo il grado di rilevanza e la stessa valutazione dei profili di legittimità costituzionale delle norme interne. Nel caso in cui si profili un eventuale contrasto tra una norma interna ed una norma della Convenzione EDU, il giudice nazionale deve preventivamente verificare la possibilità di interpretare la prima in senso conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali parametri di ermeneutica giuridica e, nel caso in cui tale opzione interpretativa risulti impraticabile, egli, nell’impossibilità di disapplicare la norma interna contrastante, deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo la questione di legittimità costituzionale con riferimento al parametro sopra indicato. La questione della diretta disapplicabilità da parte del giudice nazionale della norma interna contrastante con la CEDU è stata esaminata anche a seguito della ridefinizione dell’assetto delle fonti per effetto della nuova formulazione dell’art. 6 par. 1 del Trattato di Lisbona, interpretato in relazione all’art. 52 comma 3 della Carta di Nizza, il cui contenuto consentirebbe di attribuire alle norme della CEDU lo stesso rango del diritto dei Trattati, e la Corte Costituzionale ha chiaramente escluso, con la sentenza n. 80 del 7-11 marzo 2011, che le innovazioni recate dal Trattato di Lisbona abbiano comportato una diversa collocazione della CEDU nel sistema delle fonti. Ritiene il Collegio che in relazione alla norma in questione non sono praticabili interpretazioni convenzionalmente orientate. Va premesso che la giurisprudenza di questa Corte ha messo in luce la ratio composita del ne bis in idem disciplinato dall’art. 649 cod. proc. pen., per un verso, presidio al principio di ordine pubblico processuale funzionale alla certezza delle situazioni giuridiche accertate da una decisione irrevocabile e, per altro verso, espressione di un diritto civile e politico dell’individuo, sicché il divieto deve ritenersi sancito anche a tutela dell’interesse della persona, già prosciolta o condannata, a non essere nuovamente perseguita Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005 dep. 28/09/2005, P.G. in proc. Donati ed altro . Il principio del ne bis in idem , finalizzato ad evitare che per lo stesso fatto si svolgano più procedimenti e si adottino più provvedimenti anche non irrevocabili, l’uno indipendentemente dall’altro, assume portata generale nel vigente diritto processuale penale, trovando espressione nelle norme sui conflitti positivi di competenza art. 28 e segg. cod. proc. pen. -, nel divieto di un secondo giudizio -art. 649 cod. proc. pen. e nell’ipotesi di una pluralità di sentenze per il medesimo fatto art. 669 cod. proc. pen. Sez. 5, n. 1919 del 10/07/1995, Rv. 202653 Sez. 6, n. 512 del 11/02/1999, Rv. 212864 Sez. 6, n. 1892 del 18/11/2004, dep. 21/01/2005, Rv. 230760 Sez. 1, n. 27834 del 01/03/2013, Rv. 255701 . Gli strumenti preventivi e riparatori che compongono il quadro sistematico all’interno del quale si colloca la disciplina di cui all’art. 649 cod. proc. pen. presuppongono tutti la comune riferibilità dei più procedimenti per il medesimo fatto all’autorità giudiziaria penale è dunque tale quadro sistematico, in uno con la considerazione del tenore letterale della disposizione codicistica, che preclude un’interpretazione di quest’ultima che ne estenda l’ambito applicativo a sanzioni irrogate l’una dal giudice penale, l’altra da un’autorità amministrativa Sez. 5 ordinanza n. 1782/2015 . Sulla base del principio del ne bis in idem sostanziale di cui all’art. 649 cod. proc. pen., sono due le principali e più dirette conseguenze della irrevocabilità della sentenza 1 una negativa, ed è il divieto di un secondo giudizio per lo stesso fatto quando una persona è stata, in relazione ad esso, già condannata o prosciolta 2 l’altra, positiva, è la forza esecutiva della decisione. Il disposto di cui all’art. 649 c.p.p., ha un’efficacia preclusiva, impedisce cioè la celebrazione di un nuovo processo per il medesimo fatto che sia già oggetto di una decisione irrevocabile ed impone al giudice di pronunciare in ogni stato e grado del processo sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere ex art. 129 cod. proc. pen. è evidente, dunque, che al fine di poter dichiarare come esistente un divieto di secondo giudizio è necessario il soddisfacimento di ambedue i requisiti sopra descritti Sez. 3, n. 19334 del 11/02/2015, Rv. 26480 . Questa Corte, inoltre, anche se in data antecedente alla sentenza Grande Stevens e. Italia, si è pronunciata nel senso di ritenere che il reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto art. 10-ter d.lgs n. 74 del 2000 , non si pone in rapporto di specialità ma di progressione illecita con l’art. 13, comma primo, d.lgs. n. 471 del 1997, che punisce con la sanzione amministrativa l’omesso versamento periodico dell’imposta entro il mese successivo a quello di maturazione del debito mensile IVA, con la conseguenza che al trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni Sez. U, n. 37424 del 28/03/2013, Rv. 255757 . In merito alla questione della duplicazione sanzionatoria dell’illecito di omesso versamento dell’Iva di cui all’art. 10 ter d.lgs. 74/200, pertanto, l’unica via percorribile per dare attuazione al diritto convenzionale di ne bis in idem è necessariamente quella che passa attraverso una questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117 comma 1 Cost. in relazione all’art. 4 Prot. 7 CEDU. Il Giudice di merito, quindi, avrebbe dovuto constatare la non possibilità di interpretare l’art. 649 cod. proc. pen in senso conforme alla norma convenzionale e sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 Cedu nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali e dei relativi Protocolli. 2.5. Peraltro, va rilevato che, come emerge dalla sentenza impugnata, non vi è prova della definitività dell’accertamento tributario. Il difetto di prova della definitività dell’irrogazione della sanzione amministrativa, rendono del tutto priva di rilevanza la questione nel presente giudizio e, pertanto, non può sollevarsi d’ufficio questione di legittimità costituzionale. 2.6. Va, poi, rilevato che il principio del ne bis in idem trova riconoscimento anche nel diritto dell’Unione Europea, sulla base della espressa previsione dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea CDFUE, norma pure richiamata dal Giudice di merito a fondamento della decisione assunta. Alla luce del rilevato difetto di prova in ordine alla definitività dell’irrogazione della sanzione amministrativa, peraltro, neppure può considerarsi d’ufficio in questa sede rinvio pregiudiziale di interpretazione alla Corte di Giustizia dell’Unione europea ai sensi dell’art. 267 TFUE in relazione all’art. 50 CDFUE, in considerazione del fatto che, pur rientrando la normativa in materia dell’IVA rientra nel campo attuativo del diritto UE, esso rende del tutto priva di rilevanza la questione nel presente giudizio Sez. 3, n. 19334 del 11/02/2015, Rv. 264809, cit. . 2.7. Va, infine, rilevato che, durante la redazione della motivazione della presente sentenza, è stata depositata in data 12.5.2016 la sentenza della Corte Costituzionale n. 102 dell’8.3.2016, relativa a questioni, formulate dalla Quinta Sezione Penale e dalla Sezione Tributaria di questa Suprema Corte, inerenti il rispetto del principio del ne bis in idem come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in casi di cosiddetto doppio binario sanzionatorio, cioè in casi nei quali la legislazione nazionale prevede un doppio livello di tutela, penale e amministrativo, con riferimento al settore degli abusi di mercato. La Corte Costituzionale, nel dichiarare inammissibili le questioni sollevate, per irrilevanza e perplessità della motivazione, ha, da un lato, rilevato che in base alla consolidata giurisprudenza europea, il divieto di ne bis in idem ha carattere processuale e non sostanziale . , e, dall’altro, ha evidenziato che spetta innanzitutto al legislatore stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni che tale sistema genera tra l’ordinamento nazionale e la CEDU . 3. In definitiva, la sentenza impugnata è viziata da erronea applicazione dell’art. 649 cod. proc. pen e ne consegue l’annullamento con rinvio alla Corte di Appello di Torino ai sensi del disposto dell’art. 569, comma 4, cod. proc. pen., dando atto che il P.G. ha impugnato la sentenza soltanto in relazione ai capi a e c e che, pertanto, l’annullamento è limitato a detti capi. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Torino.