Qualche spunto in tema di determinatezza dell’imputazione

La valutazione della determinatezza del capo di imputazione deve essere effettuata tenendo conto del grado di specificazione del fatto storico ivi descritto e non già alla corretta indicazione delle norme di legge violate, la cui esattezza è irrilevante ai fini della validità della contestazione, a meno che non si traduca in una compressione del diritto di difesa.

Così ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, con la sentenza n. 21935 depositata il 25 maggio 2016. Un antefatto elettrico! Due soggetti vengono denunciati per una serie di illeciti edilizi e ambientali avevano realizzato, in area sottoposta a vincolo ambientale e sismico, un impianto fotovoltaico senza essersi dotati delle prescritte autorizzazione. Uno dei due imputati deve rispondere anche di falso in certificazione, per aver erroneamente indicato la superficie interessata dalle opere di installazione. Dopo una condanna per tutte le imputazioni riportata in primo grado, in appello la situazione processuale subisce un capovolgimento sensibile cade l’accusa di falso e interviene la prescrizione a falcidiare la violazione edilizia. Delle tre contestazioni, unica sopravvissuta è quella al codice dei beni culturali e del paesaggio, derivante, come abbiamo già detto, dalla realizzazione dell’intervento in zona vincolata. Con il ricorso per cassazione sono sollevate diverse censure una di esse attiene alla lamentata nullità del capo di imputazione, che, secondo gli imputati, avrebbe contagiato inguaribilmente anche le due sentenze di merito. L’importanza del riferimento normativo è quasi irrisoria. Nullità dell’imputazione, quindi, per erroneità dell’indicazione delle norme di legge violate. L’errore è forse meno infrequente di quanto non possa pensarsi, complice la dimensione chilometrica dei nostri testi di legge – specie quelli tecnici” – e l’infarcitura di novelle sempre fresche, che li rendono zeppi di bis, ter, quater, quinquies e così via. La presenza di una indicazione normativa sbagliata quali conseguenze produce in termini di validità/invalidità del capo d’accusa? La Suprema Corte non guarda alla forma dell’imputazione, ma alla sua sostanza e conclude affermando senza mezzi termini che il parametro di riferimento della validità dell’accusa non è l’indicazione delle norme di legge violate quanto piuttosto la specificazione del fatto”. Detto altrimenti, l’omissione o l’erroneità nella individuazione delle norme violate è una mera irregolarità non produttiva di nullità del capo di imputazione. A queste conclusioni gli Ermellini giungono richiamando alcuni propri precedenti, diversamente datati ma complessivamente anche molto recenti. Unica eccezione alla regola appena enunciata è, però, quella della erronea indicazione della norma che si traduce in una compressione del diritto di difesa. L’eccezione alla regola, ovvero quando l’errore mortifica la difesa. La Cassazione, nella sentenza in commento, non si spinge oltre la mera enunciazione del principio appena descritto non ci spiega quali sarebbero quei casi in cui l’erroneità della sussunzione normativa, o della mera indicazione delle norme violate, sia mortificante per l’esercizio della difesa in giudizio. Tuttavia, tenendo conto la struttura teoricamente fluida” dell’imputazione, così come il vigente codice di rito prevede, e cioè la sua modificabilità e implementabilità con il rispetto delle dovute garanzie difensive, non possiamo non concludere nell’unico senso possibile e cioè che la erronea indicazione delle norme violate rileva quando si accompagna anche alla diversa enunciazione del fatto storico contestato. Finché, invece, il capo di imputazione è affetto da un semplice lapsus calami, questo resta comunque valido. Resta, poi, da vedere come un principio di diritto dai confini così sottili si traduca in concreta pratica applicativa. Rimane pur vero il fatto che, in presenza di una determinata contestazione, ogni difesa costruisce la propria strategia anche e soprattutto tenendo presente il nome giuridico dell’imputazione, che, però, com’è noto, non vincola affatto il giudice. Quest’ultimo, invero, nella sentenza può dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella indicata nell’imputazione a condizione, ovviamente, che la vicenda oggetto di giudizio non sia diversa nelle sue componenti essenziali.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 17 febbraio – 25 maggio 2016, n. 21935 Presidente Ramacci – Relatore Liberati Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 13 aprile 2014 il Tribunale di Rieti condannò S.E. alla pena di mesi nove di reclusione e C.G. alla pena di anni uno e mesi due di reclusione, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile Ente Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga, per i reati di cui agli artt. 110 cod. pen. e 44, lett. c , d.P.R. 380/2001 per aver realizzato, in area ricompresa nel Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga e soggetta a vincolo sismico, un impianto fotovoltaico in assenza della autorizzazione della Provincia e della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Paesaggistici , e di cui agli artt. 110 cod. pen., 181, commi 2 e 2 bis, d.lgs. 42/2004 per avere realizzato il suddetto impianto fotovoltaico in assenza della preventiva necessaria autorizzazione paesaggistica e, il solo C. , per il reato di cui all’art. 481 cod. pen. per avere falsamente attestato, nello studio di impatto ambientale allegato al progetto presentato all’Ente Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, che la superficie del lotto su cui avrebbe dovuto insistere l’impianto fotovoltaico era pari a mq. 8.010, a fronte di una superficie reale di mq. 1.810, che l’area di intervento non ricadeva all’interno di aree naturali protette e che si trattava di area confinante al Parco e non in questo ricompresa . Con sentenza del 30 aprile 2015 la Corte d’appello di Roma ha assolto il C. dal reato di cui all’art. 481 cod. pen., perché il fatto non sussiste, ed ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di entrambi gli imputati in relazione al reato di cui all’art. 44 d.P.R. 380/2001, perché estinto per prescrizione, eliminando la relativa pena e rideterminandola in mesi otto di reclusione per entrambi gli imputati per il solo reato di cui all’art. 181 d.lgs. 42/2004. La Corte d’appello ha assolto il C. dal reato di falso ritenendone insussistente l’elemento oggettivo ed ha confermato la valutazione di responsabilità di entrambi gli imputati in relazione al reato di cui all’art. 181 d.lgs. 42/2004 essendo estinto per prescrizione il reato di cui all’art. 44 d.P.R. 380/2001 , escludendo la dedotta inconsapevolezza degli imputati della difformità tra le opere effettivamente realizzate e quelle autorizzate dalla Provincia, in ragione delle radicali difformità riscontrate nelle opere edili di supporto dell’impianto fotovoltaico, ed anche a prospettata rilevanza della autorizzazione del Genio Civile del 3/10/2008 alla quale le opere sarebbero state conformi , per essere le opere comunque difformi rispetto alla autorizzazione unica provinciale del 7/5/2008. La Corte d’appello ha, in particolare, sottolineato l’esistenza delle difformità contestate, evidenziando che le basi in cemento armato dovevano essere dell’altezza di cm. 40 e con un solo palo di sostegno, e che invece ne erano state realizzate tre e di altezza di quasi due metri, che l’altezza massima era superiore a quella consentita con evidente impatto visivo e che erano persino tre le differenti altezze indicate nei progetti, che da m. 5 arrivavano fino a m. 6,50, ampliando anche la superficie di captazione. La Corte ha poi disatteso l’eccezione di nullità del decreto di citazione a giudizio e, con essa, quella derivata di nullità della sentenza, per l’erronea indicazione dei commi 2 e 2 bis dell’art. 181 d.lgs. 42/2004, ritenendola irrilevante per la sufficiente descrizione delle condotte e la mancanza nella disposizione di un comma 2 bis , e per la mancata indicazione del titolo istitutivo e della natura del vincolo, espressamente indicato nella imputazione. È stata, inoltre, esclusa la riconducibilità del fatto alla ipotesi di cui al comma 1 dell’art. 181 dlgs. 42/2004, trattandosi di opere realizzate in un parco nazionale, come tale di notevole interesse pubblico, e, di conseguenza, la rilevanza, ai fini della estinzione del reato, della intervenuta rimessione in pristino. 2. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso entrambi gli imputati, mediante il loro difensore, affidato a quattro motivi, così riassunti entro i limiti previsti dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen 2.1. Mediante il primo motivo hanno denunciato violazione dell’art. 181 d.lgs. 42/2004, per l’erronea applicazione della ipotesi di cui al comma 1 bis di tale disposizione in luogo del comma 1 della medesima norma, evidenziando che il vincolo ricadente sull’area nella quale era stata realizzata l’opera derivava direttamente dalla legge, ed in particolare dall’art. 142, lett. f , d.lgs. 42/2004, con la conseguenza che avrebbe dovuto applicarsi la disciplina di cui alla ipotesi contravvenzionale dei comma 1 di detto art. 181, relativa ai beni paesaggistici costituiti come tali direttamente ed immediatamente da una norma di legge in base alle loro caratteristiche morfologiche o giuridiche come, ad esempio, i parchi nazionali , e non quella di cui al comma 1 bis, concernente beni paesaggistici come tali costituiti e vincolati da un apposito provvedimento amministrativo. Sulla base di tale ricostruzione della disciplina applicabile hanno prospettato l’intervenuta estinzione del reato di cui all’art. 181, comma 1, d.lgs. 42/2004 per effetto della remissione in pristino dello stato dei luoghi ai sensi dell’art. 181, comma 1 quinquies, d.lgs. 42/2004, di cui era stata esclusa l’applicabilità dalla Corte d’appello e per prescrizione. 2.2. Con il secondo motivo hanno denunciato violazione di legge processuale, per la nullità del capo di imputazione e quella derivata delle sentenze di primo e secondo grado, per la indeterminatezza della descrizione delle condotte contestate e per il riferimento nella imputazione ai commi 2 e 2 bis dell’art. 181 d.lgs 42/2004, con la conseguente incertezza in ordine alla fattispecie incriminatrice contestata. 2.3. Con il terzo motivo hanno denunciato vizio di motivazione per il mancato accoglimento della prospettazione difensiva relativa alla esistenza di un errore incolpevole sul fatto, ex art. 47 cod. pen., conseguente alla condotta della Pubblica Amministrazione, che avrebbe dovuto determinare l’assoluzione di entrambi gli imputati sia dall’illecito urbanistico sia da quello paesaggistico, giacché essi avevano in buona fede ritenuto, stante la complessità del procedimento amministrativo, che la versione dell’impianto da essi sottoposta sin dal 25 marzo 2008 al Genio Civile e alla Provincia e in seguito alla conferenza dei servizi del 30 aprile 2008, fosse la versione effettivamente assentita con l’autorizzazione unica provinciale del 7 maggio 2008, ignorando la successiva interpretazione della Provincia di Rieti, che, dopo che le opere erano state iniziate, aveva stabilito che era stata assentita l’originaria versione dell’impianto presentata dagli imputati, che tra l’altro conteneva l’espressa riserva di varianti delle componenti dell’impianto e così di sottoporre il definitivo esame alla conferenza dei servizi. Hanno al riguardo prospettato la illogicità della motivazione della sentenza di secondo grado, che non aveva adeguatamente considerato l’andamento del procedimento amministrativo, da cui poteva trarsi la consapevolezza in capo agli imputati del riferimento della autorizzazione del 7 maggio 2008 alla versione dell’impianto presentata al Genio Civile ed alla Conferenza dei Servizi, con il conseguente convincimento incolpevole della autorizzazione dell’opera così come poi effettivamente realizzata. 2.4. Con il quarto motivo hanno denunciato violazione di legge in relazione alla condanna generica al risarcimento del danno in favore della parte civile, ribadendo la denunciata inesistenza di qualsiasi pregiudizio materiale o morale per l’Ente Parco Nazionale Gran Sasso e Monti della Laga quale conseguenza della realizzazione dell’impianto fotovoltaico, alla luce del parere favorevole espresso dall’Ente Parco in ordine alla versione dell’impianto come effettivamente realizzato rispetto a quello in tesi diverso assentito con la autorizzazione unica del 7 maggio 2008. Tale prospettazione era stata disattesa dalla Corte d’appello con motivazione contraddittoria sui rapporti giuridici e di fatto tra l’espressione del parere e l’esistenza di un danno, in quanto per effetto della propria opposizione alla domanda risarcitoria la parte civile avrebbe avuto l’onere di dimostrarne l’esistenza in concreto non solo la astratta possibilità, essendo onere dell’attore richiedente un risarcimento nella specie l’Ente Parco provarne l’esistenza. 3. Con memoria depositata il 12 febbraio 2016 hanno ribadito l’insussistenza della violazione di cui al comma 1 bis del d.lgs. 42/2004, in ragione della assenza di un apposito preventivo e specifico provvedimento amministrativo appositivo del vincolo paesaggistico, ribadendo l’insufficienza del vincolo derivante da una norma generale di legge a fondare la violazione di detta norma, integrando la realizzazione di opere in area soggetta a vincolo derivante da una previsione generale di legge la contravvenzione di cui al comma 1 dell’art. 181 d.lgs. 42/2004. Considerato in diritto Il ricorso è fondato solo in relazione al primo motivo. 1. Deve, in ordine logico, essere esaminato preliminarmente il secondo motivo, mediante il quale è stata denunciata la nullità della imputazione di cui al residuo capo c della rubrica, con la conseguente nullità derivata delle sentenze di primo e secondo grado, a causa della erronea indicazione dei commi 2 e 2 bis dell’art. 181 bis d.lgs. 42/2004, non contenuti nella disposizione, e della mancata indicazione fonte del vincolo paesaggistico gravante sull’area nella quale sono state realizzate le opere oggetto della contestazione. Il capo c della rubrica risulta, dunque, così formulato del reato di cui agli artt. 110 c.p., 181 commi 2 e 2 bis d.lvo. n. 42/2004, poiché, in concorso tra loro, nelle rispettive qualità indicate nel superiore capo a d’imputazione, realizzavano le opere ivi descritte in assenza della preventiva autorizzazione paesaggistica in quanto il propedeutico parere favorevole espresso dall’Ente Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga in data 19/4/2007 n. prot. 2007-03693, espressamente richiamato nel verbale della conferenza di servizi dei 17/12/2007 della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Paesaggistici per il Lazio, era stato assentito un impianto progettualrnente previsto come composto da 10 Tracker inseguitori da 30 moduli, con una superficie complessiva di captazione pari a mq. 384,00 insistente su una superficie di lotto pari a mq. 8010 in luogo della superficie reale pari a mq. 1810 . Alla stregua di tale formulazione della imputazione risultano, dunque, come eccepito dai ricorrenti, errati i riferimenti al comma 2 dell’art. 181 bis d.lgs. 42/2004, che riguarda l’ordine di rimessione in pristino da disporre con la sentenza di condanna e non contiene alcuna norma precettiva o sanzionatoria, ed al comma 2 bis, che non è contemplato dalla disposizione in esame. Ciò, tuttavia, non determina nullità della imputazione, essendo stato adeguatamente descritto il fatto contestato, in maniera tale da consentire l’esercizio del difesa, che non è quindi stata pregiudicata dall’errata indicazione della norma incriminatrice che si assume violata. Secondo il costante orientamento interpretativo di questa Corte, cui il Collegio aderisce, in tema di contestazione dell’accusa, si deve avere riguardo alla specificazione del fatto più che all’indicazione delle norme di legge violate, per cui ove il fatto sia precisato in modo puntuale, la mancata o inesatta individuazione degli articoli di legge violati è irrilevante e non determina nullità, salvo che non si traduca in una compressione dell’esercizio del diritto di difesa Sez. 3, Sentenza n. 5469 del 05/12/2013, Russo, Rv. 258920 Sez. 3, n. 22434 del 19/02/2013, Nappello, Rv. 255772 Sez. 6, n. 437 del 16/09/2004, Verdiani, Rv. 230858 , nella specie non dedotta, né, in ogni caso, ravvisabile, alla luce della esauriente descrizione delle condotte addebitate agli imputati. Neppure la mancata indicazione dell’origine del vincolo paesaggistico gravante sull’area nella quale sono state realizzate le opere, vincolo che costituisce presupposto del reato ambientale, comporta l’insufficienza della contestazione, essendo nella imputazione indicata l’inclusione dell’area interessata dalle opere all’interno del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Lega e, dunque, l’esistenza di un vincolo derivante dalla legge, posto che i parchi nazionali rientrano, ai sensi dell’art. 142, comma 1, lett. f , d.lgs. 42/2004, nei beni paesaggistici che sono come tali costituiti e vincolati direttamente da una norma di legge, indipendentemente da uno specifico provvedimento amministrativo che ne determini la rilevanza paesaggistica, sicché l’indicazione della inclusione dell’area interessata dalle opere all’interno del territorio di un parco nazionale risulta sufficiente a specificare l’esistenza e la natura del vincolo paesaggistico, e, dunque, a consentire il compiuto esercizio del diritto di difesa anche sotto tale profilo. In conclusione il motivo di ricorso deve ritenersi infondato, non sussistendo neppure la denunciata mancanza di correlazione tra l’accusa e la sentenza, essendo, per quanto ancora rileva a seguito della dichiarazione di estinzione per prescrizione del reato urbanistico, stati giudicati gli imputati in relazione alla suddetta contestazione, fornita di un sufficiente grado di specificità, e non anche in relazione ad altre e diverse ipotesi di reato. 2. La natura e l’origine dei vincolo gravante sull’area oggetto dell’intervento contestato ai ricorrenti hanno incidenza anche sull’esame del primo motivo, mediante il quale è stata denunciata violazione dell’art. 181 d.lgs. 42/2004, prospettando l’errata applicazione della ipotesi delittuosa di cui al comma i bis in luogo di quella contravvenzionale di cui al primo comma, per la quale è anche prevista dai comma 1 quinquies della medesima disposizione una causa di estinzione dei reato in caso di rimessione in pristino, non applicabile, invece, per la più grave ipotesi di cui al comma 1 bis. Il primo comma dell’art. 181 d.lgs. 42/2004 sanziona con le pene previste dall’art. 44, lett. c , d.P.R. 380/2001, la condotta di chi senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegue lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici il comma i bis della medesima disposizione sanziona con la pena della reclusione da uno a quattro chi esegua i lavori di cui al comma i allorquando a ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori b ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell’articolo 142 ed abbiano comportato un aumento dei manufatti superiore al trenta per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superiore a settecentocinquanta metri cubi, ovvero ancora abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi . Ora, prescindendo dalla portata della sentenza della Corte Costituzionale n. 56 del 2016, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 181, comma 1-bis, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137 , nella parte in cui prevede a ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori b ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell’articolo 142 ed , che non rileva in questa fase ai fini della verifica della corretta qualificazione giuridica dei fatti, deve rilevarsi come il vincolo paesaggistico gravante sull’area interessata dalle opere eseguite dagli imputati deriva da una previsione di carattere generale, e non da uno specifico provvedimento dichiarativo dell’interesse pubblico, e precisamente da un vincolo imposto direttamentente dalla legge, posto che i parchi nazionali rientrano, ai sensi dell’art. 142, comma 1, lett. f , d.lgs. 42/2004, nei beni paesaggistici che sono come tali costituiti e vincolati direttamente da una norma di legge, indipendentemente da uno specifico provvedimento amministrativo che ne determini la rilevanza paesaggistica. Ciò comporta la riconducibilità dell’illecito contestato ai ricorrenti alla ipotesi contravvenzionale di cui al primo comma dell’art. 181 d.lgs. 42/2004, in luogo di quella di cui al comma 1 bis ravvisata dai giudici di merito, non rientrando l’area in questione tra i beni paesaggistici così qualificati in forza di un provvedimento specifico dichiarativo del loro notevole interesse pubblico, bensì di una disposizione di carattere generale, ai sensi dell’art. 142 d.lgs. 42/2004, con la conseguente necessità di un nuovo esame sul punto, anche per verificare la applicabilità della causa estintiva di cui al comma 1 quinquies della medesima disposizione, prospettata dai ricorrenti e che richiede una indagine in fatto preclusa nel giudizio di legittimità. 3. Il terzo motivo, mediante il quale è stato prospettato vizio di motivazione della sentenza impugnata, per l’esclusione della buona fede degli imputati e di un errore sul fatto costituente reato, è inammissibile, in quanto tende ad ottenere una rivalutazione dell’accertamento del fatto compiuto dalla Corte d’appello, che risulta, invece, immune da vizi logici. Al riguardo la Corte d’appello ha escluso sia la buona fede degli imputati, in ragione delle loro vesti qualificate, essendo S. ingegnere e collaudatore dell’impianto, oltre che presidente della società richiedente, e C. ingegnere redattore delle relazioni tecniche sia la sussistenza di un errore incolpevole, evidenziando il susseguirsi di progetti sempre diversi, sia con riguardo alle opere edili di supporto dell’impianto, sia al materiale tecnico, con altezze complessive dell’opera prima di 5 metri, poi di 5,70 metri ed infine di 6,50 metri, attribuendo quindi agli imputati la piena consapevolezza della difformità tra quanto realizzato e quanto effettivamente autorizzato, sottolineando la discrepanza tra le opere realizzate e quelle assentite con l’autorizzazione unica del 7 maggio 2008 e l’irrilevanza, sotto tale profilo, del successivo parere favorevole del Genio Civile del 3 ottobre 2008, relativo solamente alle prescrizioni concernenti la tutela dal rischio sismico e le cautele per la staticità degli impianti. A fronte di tale motivazione, fondata sulla ricostruzione dello svolgimento dell’iter amministrativo delle richieste presentate dagli imputati e sull’esame analitico delle doglianze formulate con l’atto d’appello, gli imputati hanno riproposto ie censure già formulate con i motivi d’appello, ribadendo la loro buona fede e l’esistenza di un errore incolpevole sul fatto costituente reato, sulla base di quanto emergente dal raffronto tra gli elaborati tecnici e progettuali e l’autorizzazione unica del 7 maggio 2008, negando le affermate modifiche progettuali, tendendo in tal modo a conseguire una diversa lettura delle risultanze istruttorie in particolare dei contenuto dei documenti progettuali e di quelli relativi all’iter amministrativo delle autorizzazioni richieste ed al contenuto di queste ultime , senza individuare contraddizioni od illogicità della motivazione della sentenza impugnata, che invece ha esaminato tutte le censure sollevate con i motivi d’appello, dando alle stesse risposta razionale, con la conseguenza che la doglianza deve essere ritenuta inammissibile. 4. Il quarto motivo, mediante il quale è stato censurato il capo della sentenza impugnata relativo alla conferma della condanna generica al risarcimento del danno in favore della parte civile, Ente Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga, per l’omessa considerazione della mancata dimostrazione di danni da parte dell’Ente costituito parte civile, è infondato. Costituisce al riguardo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui, al fine della condanna generica al risarcimento del danno è sufficiente l’accertamento dell’esistenza del fatto illecito e della sua potenzialità dannosa, con rinvio al separato giudizio per l’accertamento in concreto del danno nella sua determinazione quantitativa cfr. Sez. L, n. 1631 del 22/01/2009, Rv. 606294, Poste Italiane Spa contro Mascianà conf. Sez. 3, n. 25638 del 17/12/2010, Rv. 615378, Caprioli contro Cataldi . Ciò che rileva, dunque, è l’idoneità del fatto illecito alla produzione di un danno, ancorché non sia stata fornita prova specifica di esso, richiedendosi, in sede di liquidazione del danno medesimo, che il danneggiato dimostri, con ogni mezzo, e, quindi, anche per presunzioni, l’esistenza di una concreta lesione del suo patrimonio o, comunque, di un danno risarcibile. Nella specie risulta dunque corretto il rilievo della Corte d’appello circa l’esistenza di un danno per l’Ente Parco pur in presenza di un parere favorevole, in data 9 giugno 2010, ad un progetto coerente con quanto realizzato dagli imputati, fondato sulla considerazione che la condotta degli imputati, quale ritenuta nella sentenza, è comunque produttiva di un danno, quanto meno all’immagine, per l’Ente, da determinare nel suo concreto ammontare da parte del giudice competente, con la conseguente infondatezza dei rilievi dei ricorrenti, essendo stata confermata la condanna generica al risarcimento dei danni in favore della parte civile sul rilievo della esistenza di un fatto comunque produttivo di danno, pur se non quantificabile da parte del giudice penale. In conclusione la sentenza in esame deve essere annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Roma, per nuovo esame della residua imputazione di cui al capo c della rubrica, sulla base della diversa qualificazione della stessa, come violazione dell’art. 181, comma 1, d.lgs. 42/2004 anziché del comma 1 bis della medesima disposizione. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Roma.