Revoca parziale per bis in idem: dal computo della pena va esclusa solo la quota della condotta non più punibile

Laddove la decisione oggetto di revoca parziale, dovuta ad un accertato bis in idem, sia stata, rispetto all’entità della pena, modificata – medio tempore – da un autonomo provvedimento esecutivo con riconoscimento della continuazione, è ai contenuti di tale provvedimento che il giudice investito della domanda ex art. 669 c.p.p. deve far riferimento, andando ad escludere dal computo della pena solo la quota ricollegabile alla frazione di condotta non più punibile per effetto della revoca.

La Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 20015 del 13 maggio u.s., coglie l’occasione per pronunciare principi di diritto in ambito di revoca parziale per ne bis in idem e calcolo sulla continuazione tra le pene. La fattispecie concreta. La Corte di Assise di appello di Reggio Calabria, quale giudice dell’esecuzione, accoglieva l’istanza proposta da un soggetto - già giudicato parzialmente nel 2007 – revocando, limitatamente al delitto associativo commesso tra il 1995 ed il 1999, la condanna con incidenza pari ad anni due, mesi otto e giorni sedici di reclusione. Per l’effetto, veniva rideterminata la pena complessiva applicata al prevenuto, tenuto conto della continuazione tra siffatto reato e gli altri per i quali veniva riconosciuto colpevole dalla Corte d’Assise di appello di Milano, in anni diciotto, mesi tre e giorni quattordici di reclusione. Il condannato, infatti, riportava una condanna alla pena di anni quattro e mesi otto di reclusione per il reato di associazione mafiosa a far data dal 1986 confermata in secondo grado nel 2001 , una seconda condanna alla pena di anni dieci e mesi otto di reclusione per il reato di cui all’articolo 74 d.P.R. 309/90 definita in secondo grado nel 2005 , nonché un ultimo giudizio di condanna alla pena di anni otto di reclusione per il reato di associazione mafiosa, per fatto commesso dal 1990 in poi con contestazione aperta con sentenza di secondo grado pronunciata nel 2007 . Le tre decisioni venivano unificate quoad penam per la riconosciuta continuazione prima dalla Corte d’Assise di appello di Milano nel 2008 per le prime due decisioni e poi dalla Corte d’Assise di Reggio Calabria nel 2011 anche con riferimento alla terza sentenza di condanna , con rideterminazione complessiva pari ad anni ventuno di reclusione. Col provvedimento del 29 gennaio 2015 l’Autorità giudiziaria di Reggio Calabria, in definitiva, nell’ambito dei giudizi riportati dall’istante, riconosceva una sovrapponibilità parziale, dal punto di vista temporale, per i fatti associativi di stampo mafioso, in relazione al periodo intercorrente tra il 1° gennaio 1995 ed il 19 gennaio 1999 data della sentenza di primo grado emessa nel primo dei procedimenti trattati . Il giudice dell’esecuzione, quindi, individuava la decisione soggetta a revoca parziale in quella emessa in secondo grado nel 2007, in ragione della maggiore gravità del trattamento sanzionatorio, determinando la pena da escludere in anni due, mesi otto e giorni sedici di reclusione. La ritenuta erroneità del calcolo matematico. Avverso l’ordinanza del giudice dell’esecuzione calabrese propone ricorso per cassazione l’istante, a mezzo del proprio difensore, lamentando vizio di motivazione ed erronea applicazione della legge regolatrice della materia. In particolare, la difesa si duole dell’inopportuno calcolo effettuato dal giudicante, che avrebbe dovuto determinare l’ulteriore aumento per la continuazione in proporzione con quanto deciso nel primo provvedimento che aveva riconosciuto la medesimezza del disegno criminoso, cioè quello emesso dall’autorità giudiziaria milanese nel 2008, in quanto la successiva decisione di merito altro non è che una progressione di quel disegno criminoso già riconosciuto e punito. A dire del ricorrente, il riferimento alla decisione del 2011, ove veniva calcolata la continuazione per la condotta giudicata nel 2007, è illegittimo in ragione della diversa incidenza in sede di aumento per la continuazione in rapporto alla medesima condotta. Il ricorso è infondato. I Giudici della prima sezione della Suprema Corte non condividono le doglianze difensive. In via preliminare, gli Ermellini evidenziano l’esatta individuazione da parte del giudice dell’esecuzione della sentenza da revocare. Non v’è dubbio alcuno, infatti, che in siffatta situazione il giudicante deve identificare il titolo definitivo da modificare in quello che contempla la pena più grave. Non solo. Anche in punto di calcolo il provvedimento impugnato è ineccepibile. All’uopo, i Giudici di legittimità, pronunciano il seguente principio di diritto nel momento in cui la decisione oggetto di revoca parziale sia stata, rispetto all’entità della pena, modificata – medio tempore – da un autonomo provvedimento esecutivo con riconoscimento della continuazione, è ai contenuti di tale provvedimento che il giudice investito della domanda ex articolo 669 c.p.p. deve far riferimento, andando ad escludere dal computo della pena solo la quota ricollegabile alla frazione di condotta non più punibile per effetto della revoca. Per questi motivi il ricorso merita il rigetto ed il ricorrente è condannato al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 15 febbraio – 13 maggio 2016, n. 20015 Presidente Cavallo – Relatore Magi Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza emessa in data 29 gennaio 2015 la Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria - quale giudice della esecuzione - in accoglimento dell’istanza proposta da D.S.C. classe 1968 revocava - per precedente giudicato parziale - la sentenza di condanna emessa dalla Corte di Appello di Reggio Calabria in data 22 febbraio 2007 primo grado GUP Reggio Calabria del 14 marzo 2005 limitatamente alla condanna relativa al reato associativo commesso tra il gennaio 1995 ed il 19 gennaio 1999 con incidenza pari ad anni due, mesi otto e giorni sedici . Per l’effetto rideterminava la pena complessiva applicata al predetto D.S. , per la continuazione tra tale reato e quelli già unificati dalla Corte di Assise d’Appello di Milano, in anni diciotto, mesi tre e giorni quattordici di reclusione. 1.1 In fatto, risulta che a con sentenza emessa in primo grado il 19 gennaio 1999 D.S.C. è stato condannato per il reato di associazione di stampo mafioso commesso a far data, quantomeno, dal 13 gennaio 1986. Detta decisione veniva confermata in secondo grado nel 2001 con condanna alla pena di anni quattro e mesi otto di reclusione b con sentenza emessa in primo grado dall’autorità giudiziaria milanese il 5 luglio del 2002 - parzialmente riformata in secondo grado nel 2005 - il D.S. veniva condannato per il reato di cui all’articolo 74 dPR 309/’90 alla pena di anni dieci e mesi otto di reclusione c con sentenza emessa in secondo grado dalla Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria il 22 febbraio 2007 primo grado il 14 marzo 2005 il D.S. veniva condannato per il reato di associazione di stampo mafioso alla pena di anni otto di reclusione, per fatto commesso dalla metà degli anni ‘90 a seguire, con contestazione aperta. Le tre decisioni in parola venivano unificate quoad poenam reato più grave quello giudicato nel 2005 dal’a.g. milanese in rapporto alla riconosciuta continuazione, prima con ordinanza emessa dalla Corte di Assise d’Appello di Milano relativa alle prime due decisioni nel 2008 e successivamente con ordinanza emessa il 21 settembre 2011 dalla Corte di Assise d’Appello di Reggio Calabria, che includeva la terza decisione e determinava la pena complessiva in quella di anni ventuno di reclusione. 1.2 Il provvedimento qui impugnato, pertanto, prende atto della sovrapponibilità parziale tra il fatto giudicato con sentenza di secondo grado nel 2001 e quello giudicato con sentenza di secondo grado nel 2007, nel senso che sia la prima che la seconda decisione hanno incluso una frazione temporale di analoga condotta associativa, rappresentata dal periodo intercorrente tra il 1 gennaio 1995 ed il 19 gennaio 1999 data della sentenza di primo grado emessa nel primo dei procedimenti trattati . Ciò posto, il giudice della esecuzione così determinava le conseguenze giuridiche di tale constatazione - individuava la decisione soggetta a revoca parziale in quella emessa in primo grado nel 2005 e in secondo grado nel 2007 - rideterminava la pena inflitta in tale seconda sentenza originariamente pari ad anni otto per un arco temporale di condotta pari ad anni dieci, ridotta nell’ambito della continuazione, già riconosciuta, ad anni sette andando ad escludere, con calcolo matematico, la quota di aumento per la già riconosciuta continuazione nel 2011 relativa agli anni giudicati con la prima decisione, nella misura di anni due mesi otto e giorni sedici. 2. Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione - a mezzo del difensore - D.S.C. . Nel ricorso si deduce erronea applicazione della disciplina regolatrice e vizio di motivazione. In premessa si sostiene che il diverso calcolo operato dal GUP del Tribunale di Reggio Calabria in data 3.8.2013 - su analoga istanza - con provvedimento annullato da questa Corte per vizio di incompetenza funzionale sent. n. 44989 del 2014 sarebbe coperto da giudicato, posto che l’annullamento era riferito esclusivamente al tema della competenza. In subordine si ritiene erroneo il procedimento adottato per pervenire alla nuova determinazione della pena. Si afferma che il criterio da seguire era quello di determinare l’ulteriore aumento per continuazione - in rapporto alla frazione di condotta eliminata - in proporzione con quanto deciso nel primo provvedimento che aveva riconosciuto la medesimezza del disegno criminoso - quello emesso dall’a.g. milanese nel 2008 - posto che la decisione di merito successiva altro non rappresenta che una progressione di quel” disegno criminoso realizzato nell’ambito di un reato permanente. Ciò anche in rapporto alla ratio che governa l’intero istituto della continuazione. Si ritiene pertanto che il richiamo - operato nel provvedimento - alla applicabilità della decisione che nel 2011 aveva calcolato in sede di continuazione l’aumento per la condotta giudicata nel 2007 - oggetto di parziale revoca - sia illegittimo, posto che realizza una diversa incidenza” in sede di aumento per la continuazione in rapporto alla medesima condotta, con violazione del principio del favor rei cui si ispira l’intera disciplina. 3. Il sig. Procuratore Generale presso questa Corte, con requisitoria scritta, ha chiesto il rigetto del ricorso. Si osserva, in particolare, che il provvedimento con cui era stata determinata la pena per il reato continuato - da ultimo emesso dalla Corte di Assise di Appello il 21.9.2011 - è divenuto irrevocabile e rappresenta il parametro quantitativo su cui correttamente il giudice della esecuzione ha operato la detrazione matematica della frazione di condotta oggetto di revoca. 3.1 A fronte di tale argomentazione, il ricorrente - con memoria di replica contesta il valore conferito dal P.G. al provvedimento esecutivo del 21.9.2011, non potendosi parlare di giudicato formale” in fase esecutiva. In tale prospettiva, una volta riconosciuta la medesimezza di parte della condotta oggetto dei due giudizi in tema di associazione di stampo mafioso, ben avrebbe potuto il giudice dell’esecuzione rideterminare l’entità del risultante reato satellite, rapportandosi alla diversa quantificazione operata nella decisione emessa dall’a.g. milanese nell’anno 2008. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato, per le ragioni che seguono. 1.1 Un primo tema - nella particolare vicenda oggetto della decisione esecutiva è rappresentato dalla compiuta identificazione della tipologia di istanza proposta dal D.S.C. con l’atto introduttivo dello specifico procedimento che ha dato luogo alla emissione del provvedimento qui impugnato. La potestà di intervento del giudice della esecuzione penale è infatti improntata ad una caratteristica di fondo, rappresentata dalla necessaria iniziativa di una delle parti in riferimento ad una delle ipotesi tipiche di intervento delineate dal legislatore nelle norme dedicate alla fase della esecuzione articolo 666 co. 1 cod.proc.pen. . Con ciò si intende dire che il giudice della esecuzione agisce esclusivamente ad impulso di parte ed in riferimento ad una delle ipotesi tipizzate che richiedono l’intervento giurisdizionale nella fase successiva al giudicato ed i poteri descritti dal legislatore vanno esercitati in rapporto ai contenuti della domanda da un lato ed alle specifiche previsioni normative facoltizzanti, dall’altro. Non possono, pertanto, sollevarsi in sede esecutiva - come più volte ribadito da questa Corte - questioni che involgono un riesame del fatto coperto dal giudicato, se non nei limiti delineati dal legislatore nell’ambito delle specifiche previsioni di legge, né appare possibile proporre in sede esecutiva temi di critica riguardanti il merito dei giudizi già definiti proponibili in sede di impugnazione ordinaria . 1.2 Ciò posto, va affermato che la domanda proposta dal D.S. concerne il potere riconosciuto al giudice della esecuzione dalla disposizione contenuta nell’articolo 669 del codice di rito, norma tesa a regolamentare il caso - patologico della esistenza di più sentenze di condanna emesse contro la stessa persona per il medesimo fatto, in violazione sostanziale del divieto di secondo giudizio v. articolo 649 cod.proc.pen. . In tal senso, trattasi di una norma che facoltizza il giudice della esecuzione ad una presa d’atto” di avvenuta violazione di un limite normativo alla procedibilità che avrebbe dovuto condurre - in sede di merito - alla emissione di una sentenza di proscioglimento in rapporto alla contestazione operata per il medesimo fatto già giudicato ai sensi dell’articolo 649 co. 2 cod.proc.pen La particolare gravità della patologia - posto che il divieto di un secondo giudizio per il medesimo fatto rappresenta uno dei principi fondamentali del sistema processuale, richiamato anche dalle carte sovranazionali - ha imposto l’adozione di uno strumento di intervento rapido e duttile come l’incidente di esecuzione, che qui svolge una atipica funzione di impugnazione straordinaria le decisioni sono entrambe, per definizione, irrevocabili tale da determinare, in ipotesi di fondatezza della domanda, la revoca della decisione con cui è stata inflitta la condanna più grave ai sensi dell’articolo 669 co. 1 cod.proc.pen. con conferma della esecuzione della sentenza contenente la condanna meno grave ove le condanne siano identiche si esegue quella divenuta irrevocabile per prima . La disposizione normativa è formulata in modo del tutto chiaro, nel senso che lì dove manchi una espressa indicazione del richiedente in presenza di pene diverse il giudice della esecuzione è tenuto ad identificare la decisione da revocare in stretto rapporto ai criteri indicati in modo analitico dal legislatore. Non vi è pertanto - nell’ambito di tale previsione di legge - alcun margine di discrezionalità in capo al giudice della esecuzione, una volta apprezzata la medesimezza del fatto, sia in rapporto alla identificazione della decisione da revocare che in punto di successiva rimodulazione” del trattamento sanzionatorio. 2. Tale premessa orienta il Collegio a ritenere del tutto conforme ai contenuti della norma regolatrice la scelta operata dal giudice della esecuzione nel caso che ci occupa. La decisione che andava - obbligatoriamente - revocata, in rapporto alla parziale coincidenza dei periodi oggetto di giudizio in riferimento al reato associativo, era quella contenente la pena più grave. Se si esaminano, pertanto, le decisioni di merito oggetto di parziale coincidenza” è del tutto evidente che ad essere passibile di revoca parziale - in rapporto al periodo gennaio 1995/gennaio 1999 - era, così come deciso, la sentenza emessa dalla Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria il 22 febbraio 2007 in primo grado il 14 marzo 2005 con cui il D.S. veniva condannato per il reato di associazione di stampo mafioso alla pena di anni otto di reclusione in rapporto ad un periodo contestato pari ad anni dieci, lì dove la prima decisione aveva inflitto una pena più bassa - anni quattro e mesi otto - per un periodo più ampio di condotta associativa pari a tredici anni . Non vi è dubbio, pertanto, circa la corretta identificazione del titolo definitivo che andava - in parte - revocato, nella decisione emessa il 22 febbraio 2007. A questo punto, unico compito del giudice investito dalla domanda proposta ai sensi dell’articolo 669 cod.proc.pen. è quello di individuare - data la particolarità del caso, concernente una revoca parziale - la frazione di pena che, in rapporto a detta sentenza, rappresenta il portato della decisione di revoca. È evidente che nel compiere tale adempimento non può farsi altro che una operazione matematica dividere l’entità della pena in frazioni per anno e detrarre la parte corrispondente al periodo oggetto di revoca proprio in rapporto alla descritta conformazione normativa del potere attribuito dal legislatore al giudice della esecuzione ex articolo 669 cod.proc.pen., potere vincolato a realizzare esclusivamente la eliminazione dell’effetto della violazione del divieto del secondo giudizio, ferma restando - per il resto - la intangibilità del giudicato. Ciò del resto risulta conforme alla specifica previsione di legge - articolo 669 co. 6 cod.proc.pen. - che facoltizza il giudice della esecuzione sia ad individuare la medesimezza del fatto tra le diverse decisioni irrevocabili anche lì dove uno dei due episodi qui entrambi siano stati posti in continuazione o concorso formale con altri reati, che ad individuare la quota” di pena da escludere in tal senso, di recente, Sez. I n. 34048 del 16.5.2014, rv 260540 tic. Marti . 2.1 Nel caso in esame la decisione oggetto di revoca era divenuta - medio tempore - componente di una più ampia statuizione concernente un reato continuato, stante la decisione emessa nel 2011, non modificata in epoca successiva. In simili casi, il Collegio ritiene che la sottrazione della quota di pena derivante dalla riconosciuta parziale identità del fatto non può che essere operata in rapporto ai contenuti del provvedimento di applicazione della continuazione, nel senso che alla originaria pena stabilita in cognizione andrà sostituita, come base per la operazione di calcolo, la pena risultante dalla ultima modifica esecutiva. In tal senso, corretto risulta essere il procedimento logico e giuridico compiuto dal giudice della esecuzione nel provvedimento impugnato, posto che la pena risultante dalla decisione ex articolo 671 cod.proc.pen. emessa nel 2011 - in rapporto alla decisione oggetto di revoca - è stata matematicamente frazionata” e si è - in rapporto agli esiti di tale operazione - sottratta la quota” riferibile alla coincidenza temporale di apporto associativo che aveva dato luogo al riconoscimento del diritto dell’istante a non vedersi condannato in due diverse decisioni per il medesimo fatto. La diversa opzione coltivata dal ricorrente era in sostanza quella di estendere in sede di rimozione della quota di pena relativa alla decisione del 2007 gli effetti del primo provvedimento di applicazione della continuazione anno 2008 , nel cui ambito però non era rientrata la decisione oggetto di parziale revoca ma esclusivamente quella emessa in primo grado nel 1999 anch’essa degradata a reato satellite , considerando l’entità degli aumenti portati in quel primo provvedimento ex articolo 671 cod.proc.pen. come la base di calcolo” per l’intera determinazione del periodo riferibile al reato associativo. Tale opzione, tuttavia, correttamente è stata disattesa, per quanto sinora detto, con considerazioni che vanno qui precisate e ribadite nel modo che segue, con espressione di un principio di diritto a nessuna possibilità vi è per il giudice della esecuzione chiamato a realizzare l’operazione di revoca di una condanna per medesimezza del fatto in distinti procedimenti articolo 669 cod.proc.pen. di operare, in caso di parziale coincidenza dei giudicati, una modifica della parte della decisione revocata che è estranea a detta coincidenza, posto che la parte residua di tale decisione non forma oggetto di scrutinio ai sensi della norma azionata e resta intangibile in virtù del principio generale di immodificabilità del giudicato b lì dove la decisione oggetto di revoca parziale sia stata, rispetto alla entità del trattamento sanzionatorio, modificata - medio tempore - da un autonomo provvedimento esecutivo con riconoscimento della continuazione, è ai contenuti di tale provvedimento che il giudice investito della domanda ai sensi dell’articolo 669 cod.proc.pen. deve fare riferimento, andando ad escludere dal computo della pena esclusivamente la quota ricollegabile alla frazione di condotta non più punibile per effetto della revoca. Ora, la deduzione contraria del ricorrente si configura - a ben vedere - come doglianza del tutto estranea al sistema, posto che si pretende di realizzare, in sede di accertamento della patologia descritta nell’articolo 669 cod.proc.pen., una modifica non consentita della parte della decisione non soggetta a revoca, che invece - per quanto sinora detto - resta intangibile in virtù di quanto deliberato in sede di cognizione e, successivamente, in sede esecutiva ma ai sensi della diversa norma di cui all’articolo 671 cod.proc.pen Del tutto incoerente è poi la richiesta di ritenere possibile il recupero” dei contenuti del provvedimento più favorevole emesso dal GIP del Tribunale di Reggio Calabria ed annullato per vizio di incompetenza funzionale, posto che l’avvenuta decisione di questa Corte ha determinato l’annullamento ab origine della statuizione in parola, essendo il vizio in questione causa di nullità assoluta. Al rigetto del ricorso segue, ex lege, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.