Torna la primavera sulla responsabilità per bancarotta per distrazione

In tema di bancarotta fraudolenta impropria, nell’ipotesi di fallimento causato da operazioni dolose non determinanti un immediato depauperamento della società, la condotta di reato è configurabile quando la realizzazione di tali operazioni si accompagni, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, alla prevedibilità del dissesto come effetto della condotta antidoverosa.

Questo l’importante principio riaffermato dalla Quinta Sezione della Cassazione Penale con la sentenza n. 18980/16 depositata il 6 maggio. Con la medesima pronuncia in commento si è anche ribadito che, in tema di bancarotta per distrazione, il mancato rinvenimento, all’atto della dichiarazione di fallimento, di beni o valori societari costituisce valida presunzione della loro distrazione, a condizione che sia accertata la previa disponibilità, da parte dell’imputato, di detti beni o attività nella loro esatta dimensione e al di fuori di qualsivoglia presunzione. Il caso di specie. Nell’ambito di una articolata vicenda fallimentare il ricorrente veniva condannato, tra l’altro, per bancarotta fraudolenta per distrazione in quanto si sarebbe appropriato della somma di € 100.000,00, percepita come caparra confirmatoria per la vendita di un immobile, di una autovettura concessa in leasing alla società dal medesimo amministrata e, infine, avrebbe cagionato il fallimento della società con l’acquisto di un complesso immobiliare con vaglia risultati poi falsi. Il Tribunale di Milano, in primo grado, e la Corte di appello, in sede di impugnazione, avevano ritenuto sussistente la responsabilità dell’imputato per tutte le condotte al medesimo ascritte, ritenendo infondate le deduzioni difensive. L’onere della prova in capo al fallito. Ormai da tempo, la giurisprudenza di legittimità, ed anche di merito, è assolutamente consolidata nell’affermare che, onde evitare la propria penale responsabilità per bancarotta, è onere del fallito dimostrare che i beni sociali sono stati tutti destinati al soddisfacimento delle esigenze della società medesima. Come noto, infatti, il mancato rinvenimento, all’atto della dichiarazione di fallimento, di beni o valori societari nell’attivo fallimentare fa scattare una sorta di presunzione della avvenuta distrazione di tali beni, a meno che il fallito non sia in grado di dimostrare la destinazione degli stessi alla realizzazione degli scopi sociali. Trattasi, come evidente, di onere particolarmente gravoso, soprattutto laddove sia trascorso molto tempo dall’ingresso di detti beni all’interno del patrimonio sociale e, magari, nel frattempo e prima del fallimento, la società sia passata di mano più volte. La puntualizzazione degli Ermellini. La Cassazione, pur riaffermando l’esistenza dell’onere della prova in carico al fallito, opera una importantissima precisazione sui presupposti necessari per l’operatività di tale onere probatorio. Detto onore potrà, infatti, gravare sull’imputato solo laddove sia effettivamente accertata la previa disponibilità, in capo al medesimo, di detti beni o attività nella loro esatta dimensione e al di fuori, questa volta, di qualsivoglia presunzione. Così, nel caso di specie, la semplice esistenza di un contratto preliminare di compravendita, redatto nella forma della scrittura privata autenticata, in cui si dà atto del pagamento di una caparra confirmatoria a favore della società poi fallita, non può costituire prova piena, di per sé, dell’ingresso di tale somma nel patrimonio della società, con conseguente impossibilità di porre a carico dell’imputato l’onere di dimostrare l’avvenuta destinazione della medesima agli scopi sociali, pena la responsabilità per bancarotta fraudolenta. Come noto, infatti, la scrittura privata autenticata importa l’accertamento del notaio, fidefaciente, solo sulla autenticità delle sottoscrizioni, mentre nulla dimostra, quanto a pubblica fede, circa i fatti di cui si dà atto nella scrittura medesima, rispetto ai quali, dunque, nulla attesta l’autentica del notaio. Il fallimento cagionato da operazione dolose. Sotto altro profilo, l’imputato era stato condannato nei due giudizi di merito per una risalente operazione di acquisto di immobili da parte della società, che si sarebbe perfezionata con il pagamento, compiuto dalla società stessa, con titoli risultati poi falsi. Sul punto, osserva la Cassazione che, in primo luogo, non sarebbe dimostrata definitivamente la asserita falsità dei menzionati titoli, ma soprattutto non vi sarebbe elemento alcuno per poter inferire che detta operazione di acquisto si sia tradotta in un depauperamento per la società. Ciò posto, osservano gli Ermellini, non ogni condotta di abuso di gestione o di violazione dei doveri dell’organo gestorio implica responsabilità per bancarotta. Per contro, tali condotte devono essere valutate nel caso concreto in relazione al rilievo dei peculiari doveri statutari, alla tipologia dell’organismo societario ed alla luce della situazione economico patrimoniale in cui la condotta si inserisce. Inoltre, specifica la Sezione V della Cassazione, nel caso di fallimento causato da operazioni dolose non determinanti un immediato depauperamento della società, la condotta di reato è configurabile solo quando la realizzazione di tali operazioni si accompagni, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, alla prevedibilità del dissesto come effetto della condotta antidoverosa. Un preciso richiamo sulla necessaria configurabilità del dolo che, almeno in tali ipotesi di bancarotta, chiarisce la Cassazione, deve necessariamente investire, almeno sotto il profilo della prevedibilità, anche la causazione dello stato di dissesto come conseguenza di tale condotta. L’annullamento con rinvio. Da un lato, il mancato accertamento della sussistenza della condizione cui è subordinata l’operatività dell’onere della prova circa l’effettiva destinazione agli scopi sociali dei beni societari, dall’altro lato il mancato accertamento della dannosità della condotta e della prevedibilità del conseguente stato di dissesto, inducono la Corte ad annullare con rinvio entrambi i capi della sentenza. Senza dubbio, merita dunque segnalazione la sentenza in commento, che contribuisce, seppur nei limiti della sua portata, a ricondurre nei termini di una responsabilità colpevole e, quindi, costituzionalmente orientata la responsabilità per bancarotta fraudolenta patrimoniale, tematica che di recente, come noto, è stata portata nuovamente alla ribalta dalla nota sentenza Corvetta”.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 6 ottobre 2015 – 6 maggio 2016, n. 18980 Presidente Nappi – Relatore Pezzullo Ritenuto in fatto 1. Con sentenza emessa in data 14.10.2014 la Corte d’Appello di Milano, confermava la sentenza emessa dal locale Tribunale in data 26.05.2011 con la quale M.A. era stato condannato alla pena di anni quattro di reclusione, oltre al risarcimento danni da liquidarsi in separata sede ed alla provvisionale per Euro 1.500.000,00 per il delitto di cui agli articolo 216, 223/1 e 2 n. 2 e 219/2 n. 1 L. Fall., perché in qualità di amministratore unico della M. Costruzioni s.r.l., dalla data di costituzione della società alla data del fallimento ometteva di consegnare, con lo scopo di procurare a sé un ingiusto profitto e di recare pregiudizio ai creditori, tutti i libri e le altre scritture contabili relativi alla predetta società dalla costituzione al fallimento, con ciò rendendo impossibile la ricostruzione del patrimonio della società e del movimento degli affari distraeva e, comunque, dissipava il patrimonio della società, occultando la somma di Euro 100.000,00, ricevuta a titolo di caparra confirmatoria all’atto di sottoscrizione di contratto preliminare di vendita concluso tra la fallita promittente venditrice e la HGV HOLDING s.r.l. promissaria acquirente , in data innanzi al Notaio Dott. A. Siffredi di Fossano, n. repertorio distraeva dal patrimonio della società l’autovettura Audi A6 recante n. di telaio omissis del valore di Euro 57.132,50, concessa in locazione finanziaria dalla Santander Consumer Bank S.p.A. e cagionava, per effetto di operazioni dolose, il fallimento della società in particolare acquistando in data 28.12.2007, con atto a rogito del Notaio Defendi, dalla società CO.IM. s.r.l. un complesso immobiliare pagando parte del prezzo pari ad Euro 1.009.400,00 con due vaglia bancari tratti sulla Banca Popolare di Sondrio integralmente contraffatti. 2. Avverso tale sentenza, il M. , a mezzo del suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione, affidato a sei motivi, con i quali lamenta con il primo motivo, i vizi di cui all’art. 606, primo comma, lett. c ed e c.p.p., in relazione all’art. 125 comma 3, 546/1 lett. e c.p.p. – 192 articolo 216, 223 comma 1 R.D. 1942/267 in particolare, merita censura l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale con l’appello sarebbero state riproposte le medesime doglianze svolte innanzi al primo giudice, senza alcun elemento di novità, atteso che con l’appello è stata contestata la sentenza nella parte in cui ritiene comprovata la tesi dell’accusa la motivazione della sentenza impugnata, invece, si traduce illegittimamente in una motivazione per relationem , senza fornire alcuna risposta alle precise contestazioni svolte in appello per ciascuna delle contestazioni mosse, omettendo di motivare persino sulle questioni che solo ex post potevano sorgere, delle quali non se ne poteva prevedere lo sviluppo interpretativo e/o argomentativo e ciò senza tacere delle prove che non soltanto ricevevano dal Tribunale una contorta analisi valutativa, ma anche di quelle la cui pretermissione, imponeva una differente valutazione sulla asserita responsabilità dell’imputato con il secondo motivo, la ricorrenza dei vizi di cui all’art. 606, primo comma, lett. b ed e c.p.p. in relazione agli articolo 125 comma 3, 192 c.p.p., 216 comma 2, 223 comma 1 R.D. 1942/267, per mancata ed adeguata motivazione in ordine ai motivi di appello riguardanti i reati di bancarotta distrattiva e di operazioni dolose a lui ascritti ed, in particolare a per quanto concerne l’ipotesi distrattiva, mediante occultamento della somma di euro 100.000,00 ricevuta a titolo di caparra confirmatoria all’atto della sottoscrizione del preliminare di vendita concluso tra la fallita promittente venditrice e la HGV Holding s.r.l. promissaria acquirente , non risulta essere stata fornita risposta alcuna alla doglianza sviluppata in appello secondo cui manca la prova dell’effettivo versamento della somma in questione al ricorrente, atteso che la scrittura privata autenticata inglobante un preliminare di vendita non lascia spazio al notaio per verificare quanto in tale scrittura affermato e quindi l’effettivo versamento della caparra, limitandosi egli solo ad autenticare le firme in ogni caso, la sentenza impugnata non considera quanto riferito dal Curatore circa l’inutile richiesta alla società promissaria acquirente della prova dell’avvenuto pagamento della somma di 100.000 euro inoltre, la motivazione della sentenza fa riferimento alla circostanza che l’imputato non abbia dichiarato nulla circa il mancato versamento della somma da parte della HGV, utilizzando questo argomento per funzionalizzare il rapporto tra l’impossibile rinvenimento del materiale contabile rispetto alla distrazione della somma in questione illogica, in particolare, sul punto si presenta la sentenza impugnata che richiama quella di primo grado, laddove quest’ultima, pur riportandosi ai principi della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la validità della presunzione distrattiva è subordinata alla prova certa della disponibilità del bene in capo all’imprenditore fallito, avendo quindi ben presente che era necessaria la preventiva prova certa in ordine alla disponibilità della somma in questione in capo alla fallita, e pur dopo aver constatato che in alcun luogo processuale è rinvenibile tale prova certa ha concluso affermando di ritenere raggiunta la prova al di là d’ogni dubbio in ordine alla responsabilità del M. per tale fattispecie distrattiva, stante l’avvenuto accertamento della disponibilità dell’importo b in merito alla distrazione dell’autovettura A6, concessa in leasing alla società fallita dalla Santander Consumer Bank in data 20.12.2007, non corrisponde al vero che il ricorrente l’abbia sottratta avendo egli dimostrato che dopo sei mesi della consegna dell’auto una volta stipulato il contratto di leasing e sei mesi prima della dichiarazione di fallimento , egli la consegnò a tale Ricci Angelo Adamo, con atto sottoscritto il 10.6.2008, sia dal M. che dal Ricci, e che poi tale atto venne consegnato in sede di dichiarazioni spontanee, rese in data 27.10.2009, alla P.G. delegata dal P.M. ciò avrebbe dovuto consentire di ritenere che, invece, la condotta del M. era stata ispirata alla più completa collaborazione per il recupero dell’auto alla curatela la motivazione del Tribunale, recepita di fatto dalla Corte d’Appello, invece, formalizzava per l’imputato un obbligo che in nessun ordinamento è previsto quello del fallito di andare a recuperare con intuibili mezzi illeciti di impossessamento a causa della pregressa consegna ad altri l’autovettura per metterla a disposizione della Curatela l’autovettura, nel frattempo sequestrata, risultava consegnata alla società di leasing in data 4.6.2010, la quale rimetteva la querela proposta nei confronti del M. , escludendo così qualsivoglia pregiudizio ai creditori c quanto all’ipotesi di bancarotta impropria aggravata, si tratta dell’acquisizione da parte della società fallita di un complesso immobiliare, dal cui contratto di compravendita del 28.12.2007 risultavano una serie di accordi, in particolare il prezzo d’acquisto di euro 2.825.400 doveva avvenire in parte mediante accollo di un mutuo ipotecario già gravante sugli immobili compravenduti, ammontante ad euro 1.750.000 e l’ulteriore importo, a saldo, di Euro 1.065.400, avrebbe dovuto essere pagato in denaro a decurtazione di tale somma il M. pagava, a mezzo assegno bancario, la somma di Euro 56.000,00 ed il saldo, pari ad euro 1.009.400 veniva soddisfatto, secondo l’accordo contrattuale, con la consegna di due vaglia cambiari, tratti sulla Banca Popolare di Sondrio Suisse , Filiale del omissis , ma la società venditrice promuoveva un giudizio avente ad oggetto l’annullamento del contratto per dolo, omettendo di trascrivere, sia il sequestro del complesso immobiliare ottenuto, che la domanda di annullamento tale complesso veniva acquisito alla procedura fallimentare privo di detti pesi, salvo il mutuo ipotecario, la cui somma non corrispondeva a quella ritenuta dal Tribunale, dal momento che l’insinuazione al passivo della Banca erogatrice del mutuo avveniva per la somma di Euro 1.489.000 Euro, corrispondente all’importo residuo del mutuo, gravato degli interessi maturati nell’anno 2008, e ciò lo si doveva desumere dalla stessa deposizione dibattimentale del Curatore la Corte d’Appello, in merito all’addebito in questione, si sottraeva alla pregnante valutazione, circa la mancanza di prova in ordine alla supposta falsità dei vaglia cambiari dei quali, peraltro, il Curatore non ne stabiliva la natura, genericamente e in modo perplesso riferendo di assegni circolari o vaglia non meglio identificabili inoltre, con i motivi di appello si sottolineava come il Tribunale avesse errato a non ritenere l’operazione immobiliare in questione un incremento patrimoniale con esclusione del nesso eziologico, a nulla rilevando che i singoli creditori di quell’operazione non potevano essere soddisfatti, atteso che l’incremento dell’esposizione debitoria, specialmente nei confronti delle banche, fino a raggiungere il debito di quasi cinque milioni di euro, non è dipeso dalla volontà e dalle azioni del M. , bensì da fattori esterni che hanno travalicato la sua volontà né il Tribunale giustifica con congruenza l’incidenza in termini di certezza sullo stato passivo dell’operazione immobiliare, dal momento che il fallimento veniva dichiarato per debiti sopravvenuti e che l’istanza di fallimento veniva avanzata da creditori diversi rispetto a quelli interessati a detta operazione, facendone ha fatto nella realtà, un contratto vantaggioso per la società del M. con il terzo motivo, la ricorrenza dei vizi dei cui all’art. 606, primo comma, lett. d ed e c.p.p., in relazione all’art. 603 c.p.p. art. 54 c.p., stante l’illegittimità del mancato accoglimento della richiesta di rinnovazione della istruttoria dibattimentale, volta a dimostrare che nei due anni precedenti alla dichiarazione di fallimento era stato sottoposto da due soggetti, P.A. e S.S. , ad un completo ed assoluto assoggettamento psichico tanto da impadronirsi della società del ricorrente portandola al dissesto con riferimento ai titoli contraffatti che sarebbero stati dati per l’acquisto del complesso immobiliare dalla società Co.lm., si allegava una dichiarazione del P. in ordine alla ricezione di assegni di cui alcuni venivano dati al M. con il quarto motivo, la ricorrenza dei vizi di cui all’art. 606, primo comma, lett. b ed e c.p.p., in relazione agli articolo 125, 546 c.p.p., 216/1 comma n. 2 L.F., tenuto conto che tutto quanto sopra dedotto si riflette inevitabilmente sulla fattispecie di bancarotta documentale, come peraltro osservato dai motivi principali con il quinto motivo, la ricorrenza dei vizi di cui all’art. 606 lett. b ed e c.p.p. in relazione agli articolo 125, 192, 546 c.p.p., 219 L.F. con il sesto motivo, la ricorrenza dei vizi di cui all’art. 606 lett. e e b c.p.p. in relazione agli articolo 125 192 546 c.p.p., 62 bis 69 114 132 133 c.p. per l’assenza di motivazione in ordine al riconoscimento dell’attenuante della minima partecipazione nonché per l’assenza di motivazione in ordine alla richiesta del giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto alla contestata aggravante. Considerato in diritto Il ricorso è fondato per quanto di ragione. 1. Il primo motivo di ricorso, con il quale l’imputato si duole dell’illegittimità della motivazione della sentenza impugnata, che si è tradotta in una motivazione per relationem , senza fornire alcuna risposta alle contestazioni svolte in appello, resta assorbito dalla fondatezza del secondo motivo di ricorso, per quanto si dirà. Non va taciuto, tuttavia, che in sé la motivazione per relationem non è illegittima, sempre che ricorrano determinate condizioni e segnatamente nel giudizio di appello, è consentita la motivazione per relationem alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate dall’appellante non contengano elementi di novità rispetto a quelle già condivisibilmente esaminate e disattese dalla sentenza richiamata Sez. 2, n. 30838 del 19/03/2013 . In altri termini, ove l’appellante si limiti alla riproposizione di questioni di fatto o di diritto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure prospetti critiche generiche, superflue o palesemente infondate, il giudice dell’impugnazione ben può motivare per relationem quando, invece, come nel caso di specie, vengono formulate censure o contestazioni introduttive di rilievi non sviluppati nel giudizio anteriore o contenenti argomenti che pongano in discussione le valutazioni in esso compiute, è affetta da vizio di motivazione la decisione di appello che si limita a respingere con formule di stile o in base ad assunti meramente assertivi o distonici dalle risultanze istruttorie le deduzioni proposte. Con precipuo riferimento, infatti, alle condotte oggetto di contestazione la Corte territoriale non fornisce chiarimenti su molte questioni rilevanti ai fini dell’accertamento della responsabilità penale dell’imputato in ordine ai reati ascrittigli. 2. Fondato si presenta, il secondo motivo di ricorso relativamente alle due condotte di bancarotta distrattiva contestate all’imputato, aventi ad oggetto, la prima, la somma di Euro 100.000,00, ricevuta a titolo di caparra confirmatoria all’atto della sottoscrizione del contratto preliminare di vendita concluso tra la fallita promittente venditrice e la HGV Holding s.r.l. e, la seconda, l’autovettura Audi 6 concessa in leasing dalla Società Santander Consumer Bank S.p.A 2.1. Quanto alla prima, il ricorrente deduce un vizio di motivazione della sentenza impugnata, laddove essa, richiamando la motivazione della sentenza di primo grado condivide l’affermazione secondo cui nel corso della procedura fu acquisita una prova documentale dell’avvenuto versamento il rogito notarile acquisito anche al fascicolo del dibattimento e nessuna prova contraria è emersa nel corso del processo neanche la prospettazione da parte dell’imputato di non aver ricevuto quell’importo . Sul punto, il M. in sostanza deduce un travisamento della prova, atteso che il primo giudice riferisce di un rogito notarile, facendo discendere da tale tipo di atto la prova dell’avvenuto versamento della somma siccome risultante da un atto notarile che fa prova legale dei fatti ed atti giuridici, che il notaio stesso attesta essere avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. Tuttavia il preliminare di vendita non è un rogito notarile e, quindi, non attesta l’effettiva dazione della somma versata a titolo di caparra, ma, come dichiarato dallo stesso curatore, il preliminare da lui visionato era scrittura privata fatta innanzi ad un notaio . L’intervento del notaio finalizzato ad autenticare le sottoscrizioni apposte in calce alla scrittura non determina il mutamento della natura giuridica della scrittura in questione che era e resta privata , anche nel caso in cui il notaio abbia addirittura assistito alla redazione dell’intero scritto cooperandovi. Sul punto questa Corte ha più volte rilevato che nella scrittura privata autenticata è contenuta la documentazione contestuale di due atti che sono, tuttavia, distinti essendo l’uno privato e l’altro autentica notarile atto pubblico Sez. 5, n. 16267 del 11/03/2004 . 2.1.1. Nel contesto descritto, pertanto, la sentenza impugnata, laddove ritiene raggiunta la prova del versamento della somma di 100.000,00 costituente la caparra versata alla società fallita dalla HGV in base all’ atto notarile e quindi la distrazione di essa, siccome non rinvenuta all’atto del fallimento nelle casse sociali, incorre in evidente vizio motivazionale, trattandosi appunto di una scrittura privata, con tutte le conseguenze in termini di prova della ricezione della somma e, quindi, della ricorrenza della distrazione che da ciò discendono. Giova in proposito richiamare il principio più volte affermato da questa Corte secondo cui in tema di bancarotta per distrazione, il mancato rinvenimento all’atto della dichiarazione di fallimento di beni o valori societari costituisce valida presunzione della loro dolosa distrazione, a condizione che sia accertata la previa disponibilità, da parte dell’imputato, di detti beni o attività nella loro esatta dimensione e al di fuori di qualsivoglia presunzione Sez. 5, n. 35882 del 17/06/2010 . La sentenza impugnata, pertanto, va annullata sul punto con rinvio, dovendo la Corte territoriale specificamente considerare che il contratto preliminare predetto non è un rogito notarile e valutare le conseguenze che da tale natura dell’atto discendono in termini di prova della ricezione della somma e, quindi, della distrazione, considerando la rilevanza in proposito anche della circostanza riferita dal Curatore per cui la società HGV s.r.l. non si è insinuata al passivo del fallimento. 2.2. Quanto alla distrazione dell’autovettura Audi 6, concessa alla fallita in leasing dalla Società Santander Consumer Bank s.p.a., del pari risulta fondata la doglianza circa il vizio motivazionale da cui risulta affetta la sentenza impugnata, atteso che la sentenza impugnata, nel richiamare la motivazione del primo giudicante, secondo cui anche a voler ammettere che l’autovettura sia stata consegnata dal M. , la mancata disponibilità della stessa da parte della società di leasing per un periodo di quasi un anno e mezzo configura la sottrazione alla procedura fallimentare che definisce il reato di bancarotta per distrazione , tuttavia non si pronuncia sulla rilevanza o irrilevanza, ai fini dell’addebitabilità dei fatti di bancarotta, dell’affidamento dell’autovettura da parte dell’imputato ad un dipendente della società, né sull’incidenza dell’avvenuta restituzione del bene che ha determinato la remissione di querela della società di leasing Santander del 31.05.2010 in termini di elemento psicologico. Peraltro, la stessa sentenza impugnata, nei pochi accenni di novità rispetto alla sentenza di primo grado, riporta proprio le predette dichiarazioni spontanee, con cui il M. riferiva di non avere la materiale disposizione del bene, avendolo a sua volta dato in consegna al rappresentante legale della M. & amp Partners s.r.l., legata alla fallita, affinché il medesimo la potesse usare nel controllare i cantieri edili di sua proprietà situati in omissis ed altre località sparse per il Sud Italia. Giova sul punto richiamare i principi affermati da questa Corte, secondo cui in tema di bancarotta per distrazione di beni ottenuti in leasing, ai fini della configurabilità del reato in capo all’utilizzatore poi fallito, è necessario che tali beni siano nella sua effettiva disponibilità, in conseguenza dell’avvenuta consegna, e che di essi vi sia stata appropriazione , non rilevando la tipologia del contratto di leasing traslativo o di godimento Sez. 5, n. 44898 del 01/10/2015 . Sull’aspetto specifico della volontà appropriativa, in relazione anche all’avvenuta restituzione del bene, la Corte d’appello non ha specificamente argomentato. 3. Con riguardo, poi, al reato di bancarotta impropria per operazioni dolose poste in essere dall’imputato attraverso l’acquisto del complesso immobiliare dalla società CO.IM s.r.l., non risulta fornita adeguata risposta, in ciò ravvisandosi vizio motivazionale, alle censure sviluppate in appello ribadite in questa sede, secondo cui in merito all’operazione in questione oltre a non essere stata accertata esattamente la falsità dei titoli dati in pagamento alla venditrice-non risulta provato il nesso causale tra le operazioni dolose ed il dissesto della società, essendovi distanza temporale tra l’operazione immobiliare ed il fallimento e non avendo l’acquisto dell’immobile determinato una diminuzione dell’attivo, bensì un incremento patrimoniale. In proposito, la sentenza di primo grado, richiamata per relationem da quella impugnata ha trattato in maniera del tutto generica le questioni indicate, limitandosi ad evidenziare genericamente che l’acquisto in questione determinò o contribuì a determinare il dissesto della società, ovvero determinò un aumento consistente del passivo, senza dar conto specificamente degli elementi da cui ciò risulti ed in che termini specifici tanto emerga. Giova richiamare i principi più volte espressi da questa Corte, secondo cui in tema di bancarotta fraudolenta ex art. 223 comma secondo n. 2 l. fall., le operazioni dolose che hanno cagionato il fallimento devono sempre comportare un’indebita diminuzione dell’attivo, ossia un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l’impresa, mentre la valutazione degli abusi di gestione o dell’infedeltà ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo concretizzanti tali operazioni non può essere assunta in via generale ed astratta, ma dipende dal rilievo dei peculiari doveri statutari, dalla tipologia dell’organismo societario e dalla situazione economico/patrimoniale in cui la condotta si compie Sez. 5 n. 17690 del 18/02/2010, Rv. 247313 . Inoltre, in tema di bancarotta fraudolenta impropria, nell’ipotesi di fallimento causato da operazioni dolose non determinanti un immediato depauperamento della società, la condotta di reato è configurabile quando la realizzazione di tali operazioni si accompagni, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, alla prevedibilità del dissesto come effetto della condotta antidoverosa Sez. 5, n. 45672 del 01/10/2015, Rv. 265510 . Anche sul punto, dunque, la sentenza impugnata va annullata con rinvio. 4. L’esame degli ulteriori motivi di ricorso riguardanti, tra l’altro, la rinnovazione istruttoria, ed il trattamento sanzionatorio resta assorbito dal nuovo esame che la Corte territoriale dovrà compiere in sede di rinvio. 5. La sentenza impugnata va, dunque, annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Milano per nuovo esame. P.Q.M. annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di Milano per nuovo esame.