Disoccupato e senza redditi: impensabile una scorta personale monstre di marijuana. Condannato per spaccio

Sanzione definitiva per l’uomo oltre due anni di reclusione e una cospicua multa. Decisiva la constatazione delle sue precarie condizioni economiche egli è senza lavoro e privo di redditi. Impensabile che abbia potuto acquistare oltre un chilo e mezzo di marijuana per esclusivo consumo personale.

A disposizione oltre un chilo e mezzo di marijuana. L’uomo, dichiaratosi tossicodipendente, spiega di aver fatto scorta per i propri consumi. Ipotesi poco plausibile, soprattutto considerando le sue condizioni economiche. Consequenziale la condanna per spaccio di droga” Cassazione, sentenza n. 13718, sezione Terza Penale, depositata il 6 aprile 2016 . Redditi. Sanzione durissima, quella decisa in appello ventisei mesi di reclusione e 12mila euro di multa . Inequivocabile, a dire dei giudici, il quantitativo di marijuana a disposizione dell’uomo oltre 1600 grammi. Anche in Cassazione, però, viene riproposta la linea difensiva già utilizzata in primo e in secondo grado, e centrata sul consumo esclusivamente personale della droga. Ipotesi risibile, pure secondo i Magistrati del ‘Palazzaccio’. Decisiva non solo la non trascurabile quantità di marijuana – da cui era possibile confezionare oltre 6300 dosi singole – ma anche la ristrettezza economica dell’uomo. Egli, difatti, è soggetto dichiaratamente non dedito ad alcuna attività lavorativa né dotato di redditi propri , e ciò rende evidente l’impossibilità economica per lui di procurarsi una così sostanziosa scorta di sostanza stupefacente per il solo consumo personale . A rendere ancora più chiaro il quadro, poi, il fatto che l’uomo sia stato trovato in possesso non solo della droga ma anche di una cospicua somma di denaro in contanti , assolutamente ingiustificata alla luce della sua condizione lavorativa ed economica. Tutto ciò conduce a ritenere assolutamente corretta la condanna per spaccio .

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 9 settembre 2015 – 6 aprile 2016, n. 13718 Presidente Fiale – Relatore Gentili Ritenuto in fatto Con sentenza del 24 giugno 2014 la Corte di appello di Bologna ha, in parziale riforma della sentenza emessa a carico di R.A. dal Gup del Tribunale di Forlì il precedente 6 febbraio 2014, riqualificato il fatto di detenzione di cocaina a lui addebitato ai sensi del comma 5 dell'art. 73 del dPR n. 309 lei 1990 ed esclusa la continuazione con la detenzione di altro genere di stupefacente, ha rideterminato la pena a questo inflitta in anni due, e mesi due di reclusione ed euro 12.000,00 di multa. Nel ricostruire la vicenda la Corte territoriale emiliana ha rilevato che il R. era stato tratto a giudizio abbreviato di fronte al Gup di Forlì per rispondere del reato di detenzione a fini di spaccio di gr. 1602 di marijuana e di gr. 6.5 di cocaina, essendo ivi condannato alla pena di anni 3 di reclusione e di euro 14.000,00 di multa confermata la penale responsabilità del R. in ordine alle condotte a lui addebitate la Corte di appello ha, tuttavia, ritenuto di dovere qualificare entro il perimetro dell'art. 73, comma 5, la detenzione della cocaina e di dovere ridurre la pena, in considerazione della sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, nei termini dianzi precisati. Ha proposto ricorso per cassazione il R., tramite il proprio difensore deducendo la carenza ed illogicità della motivazione della sentenza impugnata questa non avrebbe considerato che lo stupefacente nella cui detenzione era stato sorpreso il R., soggetto tossicodipendente, era destinato al suo consumo personale né la destinazione allo spaccio è desumibile solamente dal mero superamento dei limiti quantitativi previsti dal sistema tabellare, dovendo la presunzione di uso personale essere smentita da particolari modalità della condotta non considerate nel caso di specie. Quale secondo motivo di impugnazione il R. ha lamentato il vizio di legge in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nel non avere ritenuto qualificabile anche la condotta di detenzione della marijuana entro il paradigma del comma 5 dell'art. 73 del dPR n. 309 del 1990 la Corte territoriale, secondo il ricorrente, avrebbe, infatti, valorizzato il solo dato quantitativo, senza considerare sia che la sostanza apparteneva al novero della cosiddette droghe leggere sia l'esistenza di altri indici per la individuazione delle ipotesi di lieve entità. Infine il ricorrente ha lamentato l'eccessiva quantificazione della pena inflitta, senza fornire motivazioni in ordine al suo mancato contenimento entro i minimi edittali. Considerato in diritto Il ricorso proposto dal R. è inammissibile. Con riferimento al primo motivo di impugnazione, ne rileva questa Corte la manifesta infondatezza con esso, infatti, il ricorrente rivendica la pretesa illogicità o carenza della motivazione nella parte in cui i giudici del merito hanno ritenuto che la considerevole quantità di sostanze stupefacenti rinvenute nella detenzione del prevenuto fossero destinate alla cessione in favore di terzi. Osserva il Collegio, a prescindere dalla estrema genericità dell'argomentare del ricorrente, il quale non ha segnalato, se non che in termini di vaga lamentela, la pretesa inidoneità motivazionale della Corte felsinea, che questa ha, invece, con motivazione più che plausibile, fatto discendere la destinazione dello stupefacente in questione allo spaccio in funzione sia della sua non certo trascurabile entità, tramite la quale era possibile confezionare circa 6300 dosi medie singole, la disponibilità della quale ir capo al R., soggetto dichiaratamente non dedito ad alcuna attività lavorativa né dotato di redditi propri che gli avrebbero permesso di procurarsi una siffatta scorta di sostanze al solo scopo dell'autoconsumo, non si concilia affatto con una destinazione di essa che non fosse la cessione a fronte di controprestazione in danaro e significativamente la Corte territoriale valorizza, come indizio negativo, il fatto che il R. fosse anche nella ingiustificata disponibilità di una cospicua somma di danaro in contanti . Corroborano siffatta conclusione, rendendo sul punto la motivazione della sentenza della Corte territoriale del tutto esaustiva, il fatto che il R. fosse altresì nel possesso di materiale idoneo al confezionamento delle porzioni di stupefacente destinato alla cessione, nonché il fatto che questo era, per una porzione considerevole, già ripartito in buste separate, i costituenti, evidentemente, i singoli articoli destinati alla vendita. Quanto alla mancata riconduzione entro l'ambito di cui al comma 5 dell'art. 73 dcl dPR n. 309 del 1990 anche della ipotesi criminosa riferita alla detenzione della marijuana, similmente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale con riferimento alla detenzione di cocaina, va rilevato che, diversamente da quanto considerato dal ricorrente, ai fine della esclusione della fattispecie de qua è sufficiente che anche uno solo degli indici che debbono essere considerati dall'interprete ai fini della rilevazione di essa deponga nel senso della insussistenza della minima offensività dei fatto affinché quest'ultima, assorbita ogni altra considerazione, vada definitivamente esclusa cos , ex multis Corte di cassazione, Sezione IV penale, i aprile 2014, n. 15020 . Poiché fra tali indici vi è, fra l'altro, la quantità e la qualità dello stupefacente, non può certamente contestarsi, sotto il profilo della manifesta illogicità, la decisione dei giudici del merito di escludere la sussumibilità anche dei possesso di marijuana nell'ambito dei comma 5 dell'art. 73 dei dPR n. 309 dei 1990. Ciò tenuto conto dei fatto che i descritti indici rivelatori - in ragione del numero, come detto largamente superiore a 6000, di dosi ricavabili, stante la quantità di sostanza e la notevole presenza in essa di principio attivo, tale da farne ritenere la peculiare qualità - appaiono deporre in senso decisamente contrario alla minima offensività del fatto addebitato al ricorrente. Evidentemente pretestuoso è il terzo motivo di impugnazione, col quale si deduce il vizio di motivazione in ordine alla entità della pena inflitta, ove si consideri che, essendo questa stata parametrata in termini prossimi al minimo edittale, la congruità della sanzione rispetto al fatto cointestato è adeguatamente motivata anche attraverso il semplice corretto computo matematico dei diversi elementi che hanno condotto alla sua concreta quantificazione. Ala inammissibilità del ricorso segue, visto l'art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma, in tale misura determinata ex aequitate, di euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.