Il box cassa di un’autorimessa non costituisce “domicilio”: utilizzabili le videoregistrazioni a fini investigativi

Affinché sussista la tutela di cui all’art. 14 Cost., non basta che un certo comportamento attinente alla sfera personale venga tenuto in luoghi di privata dimora ma occorre, altresì, che esso avvenga in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non visibile ai terzi. Per contro, se l’azione – pur svolgendosi in luoghi di privata dimora – può essere liberamente osservata dagli estranei, senza ricorrere a particolari accorgimenti, il titolare del domicilio non può accampare un pretesa alla riservatezza e le videoregistrazioni a fini investigativi soggiacciono al medesimo regime valevole per le riprese visive in luoghi pubblici o aperti al pubblico.

La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 11419 del 2016, in ossequio alla consolidata giurisprudenza di legittimità ed all’indirizzo ermeneutico del Giudice delle Leggi, ha sottolineato quale sia il regime di utilizzabilità probatoria proprio delle videoregistrazioni compiute a fini investigativi dagli organi accertatori verso il box cassa di un’autorimessa. In particolare, l’anzidetto provvedimento giudiziale intende ribadire la possibilità di disporre, effettuare, acquisire ed utilizzare probatoriamente le videoriprese effettuate all’interno di un luogo, quale per l’appunto il box cassa, che non risulta riconducibile alla nozione di domicilio”, nemmeno nella più vasta accezione di domicilio lavorativo”, in quanto si tratta di uno spazio soggetto all’uso promiscuo da parte dei lavoratori ed idoneo ad essere osservato liberamente dall’esterno da parte di una qualsiasi persona. La vicenda fattuale ed il suo approdo in Cassazione. L’imputato, nella sua qualità di dipendente di una società di autorimessa, veniva condannato per il reato di furto aggravato dal mezzo fraudolento ai sensi degli artt. 624, 625, comma 1, n. 2 , c.p., in quanto attraverso la riutilizzazione di scontrini consegnati da alcuni clienti sottraeva i proventi incassati dalla citata società nella gestione del servizio di autorimessa. In secondo grado l’affermazione di penale responsabilità veniva confermata dalla Corte d’Appello territorialmente competente, con la concessione della circostanza attenuante comune del danno patrimoniale di speciale tenuità di cui all’art. 62, n. 4 , c.p. e le circostanze attenuanti generiche ai sensi dell’art. 62-bis c.p. Di conseguenza, la difesa dell’imputato ricorreva per Cassazione, prospettando tra i vari motivi di doglianza l’eccezione processuale di inutilizzabilità probatoria delle videoriprese che erano state effettuate all’interno del box cassa, tramite un telecamera installata dagli organi di polizia giudiziaria. Segnatamente, veniva eccepita la mancata richiesta da parte dell’accusa e concessione da parte del giudice dell’autorizzazione quale presupposto procedurale indispensabile per la disposizione ed effettuazione di videoriprese aventi contenuto comunicativo. In aggiunta a ciò, seguendo le deduzioni difensive, doveva essere negata la tesi per cui l’utilizzabilità delle videoriprese discendeva dall’intervenuto consenso ad opera della società di gestione dell’autorimessa, dovendosi invece richiedere il consenso del coimputato, quale effettivo titolare del domicilio lavorativo costituito dal box cassa. Il quadro istituzionale e normativo della sanzione processuale della inutilizzabilità. La violazione della normativa in materia di atti può comportare plurime ed eterogenee conseguenze negative, tra cui l’inutilizzabilità è la patologia caratteristica in specie e soltanto degli atti probatori. A norma dell’art. 191 c.p.p. qualsiasi prova acquisita in violazione dei divieti stabiliti dalla legge è inidonea ad essere utilizzata a fini probatori. Se nel caso della inutilizzabilità si è in presenza di un qualsiasi vizio formale intervenuto nel procedimento di formazione della prova, vizio comunque tale da non porre il procedimento completamente al di fuori del parametro normativo di riferimento, nel caso della nullità la prova è vietata per la sua intrinseca illegittimità oggettiva l’atto inutilizzabile non può essere mai utilizzato probatoriamente mentre l’atto nullo se sanato può essere destinato a tal fine. In aggiunta a ciò, a mente dell’impostazione tradizionale, si è soliti distinguere tra inutilizzabilità assoluta c.d. patologica” , rilevabile anche d’ufficio, per cui l’atto è inutilizzabile in qualsiasi fase del procedimento e del processo ad es., la dichiarazione resa da un informatore della P.G. , ed inutilizzabilità relativa c.d. fisiologica” per cui l’atto seppur inutilizzabile nel dibattimento rimane tale durante il procedimento, l’udienza preliminare ed in taluni riti speciali tipicamente, gli atti delle indagini preliminari . L’inquadramento categoriale posto dalla Cassazione in materia di videoregistrazioni. Alla stregua di quanto cristallizzato dal Supremo Consesso Penale, il regime disciplinare delle videoregistrazioni varia in base alla loro caratterizzazione tipologica. Quelle eseguite in luogo pubblico ovvero aperto od esposto al pubblico rientrano nella categoria della prova atipica, che a norma dell’art. 189 c.p.p. è in concreto ammissibile se rispetta i due requisiti dell’idoneità ad assicurare l’accertamento del fatto e dell’assenza di pregiudizio per la libertà morale della persona. Di contro, quelle eseguite nel domicilio sono regolate in modo diverso a seconda che l’oggetto della captazione siano comportamenti comunicativi o non comunicativi nel primo caso, si è al cospetto di un mezzo di ricerca della prova limitatamente ammissibile, normato dagli artt. 266 ss. c.p.p., ossia le intercettazioni, definibili come captazioni occulte contestuali di una comunicazione o conversazione tra due o più soggetti con l’intenzione di escludere altri, attuata da un soggetto estraneo alla stessa diversamente, nel secondo caso la videoregistrazione è vietata nella sua effettuazione, acquisizione ed utilizzazione, poiché essendo lesiva del bene costituzionale della libertà domiciliare, costituisce prova illecita si veda, a tal proposito, Cass., Sez. Un., 28 marzo 2006, Prisco, n. 26795, rv. 234267-234270 . Il box cassa non costituisce domicilio”. Il concetto di domicilio” individua un rapporto tra la persona ed un luogo, generalmente chiuso, in cui si svolge la vita privata, in modo da sottrarre chi lo occupa alle ingerenze esterne e da garantirgli riservatezza ed intimità. Ma detto rapporto deve essere tale da giustificare la tutela del luogo contro violazioni intrusive anche quando la persona risulti assente. Pertanto, la necessità di preservare la libertà domiciliare ex art. 14 Cost. sorge nel momento in cui il comportamento attinente alla sfera personale sia tenuto in modo tale da renderlo tendenzialmente non visibile ai terzi. Contrariamente, come nel caso di specie, il box cassa non è riconducibile alla nozione di domicilio” nemmeno nella forma estesa di domicilio lavorativo”, in quanto l’azione compiuta al suo interno può essere liberamente osservata dagli estranei attraverso la vetrata separatrice ed il locale si sottopone all’utilizzo promiscuo da parte di tutti i dipendenti della società di autorimessa. Di tal guisa, posto che con riferimento al box in parola, non può essere avanzata una pretesa alla riservatezza ed intimità, le videoregistrazioni a fini investigativi sono riconducibili ad un luogo pubblico od aperto al pubblico, soggiacendo così al regime di utilizzazione proprio della prova atipica ex art. 189 c.p.p. In altri termini, qualora si tratti di luoghi la cui strutturazione sia analoga a quella del box cassa, diviene dirimente il criterio della visibilità non protetta del luogo, tale da connotarlo come esposto al pubblico e da consentire la disposizione, effettuazione, acquisizione ed utilizzazione delle videoriprese ad esso pertinenti.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 17 novembre 2015 – 17 marzo 2016, n. 11419 Presidente Lapalorcia – Relatore Pistorelli Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Venezia ha confermato la condanna di D.P. per il reato di furto aggravato, commesso nella sua qualità di dipendente della Garage Sanmarco s.p.a. alla quale sottraeva, in concorso con B.A. e ricorrendo ad un mezzo fraudolento la riutilizzazione di scontrini consegnati da alcuni clienti i proventi incassati nella gestione del servizio di autorimessa esercitato dalla predetta società. In parziale riforma della pronunzia di primo grado, la Corte territoriale ha invece proceduto alla riduzione della pena irrogata all’imputato, previo riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p. e delle attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulle contestate aggravanti. 2. Avverso la sentenza ricorre l’imputato a mezzo del proprio difensore articolando cinque motivi. 2.1 Con il primo deduce violazione di legge e plurimi vizi della motivazione. 2.1.1 Lamenta innanzi tutto il ricorrente come la Corte territoriale non abbia fornito risposta alle doglianze difensive svolte con i motivi d’appello in merito all’attendibilità delle dichiarazioni eteroaccusatorie del B. , pure poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità dell’imputato. In particolare viene evidenziato come non abbiano trovato specifica confutazione i rilievi concernenti a l’irrilevanza del fatto che il coimputato si sia anche autoaccusato di numerosi fatti, atteso che egli ha testimoniato per la prima volta - contrariamente a quanto erroneamente indicato nella sentenza di primo grado - solo dopo aver patteggiato la pena e dunque con la garanzia che le sue dichiarazioni non potevano essere utilizzate nei suoi confronti b il contenuto favorevole all’imputato delle dichiarazioni del teste A. - citate invece a riscontro di quelle del coimputato nella pronunzia di primo grado e sostanzialmente ignorate da quella impugnata -, che aveva riferito di aver consegnato su sua richiesta e in buona fede al B. gli scontrini ritirati ai clienti dell’autorimessa rifiutando la sua offerta di remunerarlo per tale attività, fornendo così un racconto perfettamente sovrapponibile alla versione resa dal D. c la sussistenza dell’elemento psicologico del reato, invece da escludersi in ragione dell’indifferenza dell’imputato agli eventuali profili disciplinari connessi all’omessa denuncia delle richieste del B. , attesa la sua anzianità di servizio, della posizione gerarchicamente sovraordinata di quest’ultimo e della eventuale intenzione del D. di aiutare il collega a coprire ammanchi di cassa determinati dallo stesso. 2.1.2 Quanto, invece, al significato da attribuirsi alla reazione del D. nel momento in cui il B. scoprì la presenza di una telecamera nel box cassa, unica obiezione difensiva effettivamente confutata dal giudice dell’appello, la motivazione resa in sentenza sarebbe manifestamente illogica e comunque scollegata dai dati fattuali acquisiti al processo che evidenziano come proprio la diversa reazione di sconforto del B. - narrata da uno degli operanti, la cui testimonianza è stata del tutto ignorata dalla Corte - evidenzierebbe la buona fede dell’imputato. 2.1.3 Sotto altro profilo il ricorrente reitera l’eccezione di inutilizzabilità delle videoriprese effettuate con la suddetta telecamera - installata dalla p.g. - e costituenti per la sentenza riscontro alle dichiarazioni del B. . In tal senso viene evidenziato come le stesse abbiano contenuto comunicativo, necessitando dunque quantomeno dell’autorizzazione del giudice invece non richiesta, come certificato già dal provvedimento autorizzativo del pubblico ministero che presupponeva l’accordo tra i due imputati e comunque dal fatto che oggetto di documentazione è stato il comportamento passivo tenuto dal D. mentre il B. alterava gli scontrini che il primo gli aveva consegnato al fine di consentirne il riciclo. Sul punto in ogni caso i giudici dell’appello avrebbero omesso di motivare, mentre errata deve ritenersi la tesi dagli stessi accolta per cui le videoriprese siano state effettuate con il consenso del titolare del luogo in cui venne installata la telecamera e cioè il box in cui operava il B. , giacché questi e non la società proprietaria dell’autorimessa deve ritenersi il vero titolare del domicilio lavorativo in questione. Infine il ricorrente eccepisce l’inutilizzabilità derivata delle dichiarazioni degli operanti che hanno testimoniato sul contenuto delle videoriprese. 3. Con il secondo motivo viene denunziato ulteriore difetto di motivazione sull’obiezione difensiva ad oggetto la carenza assoluta della prova che gli scontrini consegnati dal D. al B. siano stati effettivamente riutilizzati da quest’ultimo con la conseguente effettiva sottrazione degli incassi. Sulla base dello stesso argomento con il terzo motivo vengono invece dedotti l’errata applicazione della legge penale e correlati vizi della motivazione in merito alla configurabilità dell’aggravante dell’utilizzazione del mezzo fraudolento. Mentre con il quarto motivo analoghi vizi lamenta il ricorrente in tema di commisurazione della pena, che seppure diminuita si discosta dai minimi edittali in ragione dell’erroneo presupposto della non occasionalità della condotta imputata. Infine con il quinto ed ultimo motivo il ricorrente deduce ancora vizio di motivazione in merito alla condanna del D. anche al risarcimento del danno d’immagine subito dalla società titolare dell’autorimessa, non avendo per l’ennesima volta la Corte territoriale confutato le obiezioni svolte in proposito con i motivi d’appello, limitandosi invece all’apodittica conferma delle statuizioni civili di primo grado. 4. Con memoria depositata il 12 novembre 2015 la parte civile Garage San Marco s.p.a. ha confutato i motivi di ricorso e ne ha chiesto il rigetto. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato e per certi versi inammissibile. 2. Pregiudiziale è l’esame delle eccezioni processuali sull’utilizzabilità delle videoriprese e delle dichiarazioni degli operanti, che sono peraltro infondate. 2.1 Sul punto è innanzi tutto ricordare come per l’oramai consolidato insegnamento di questa Corte le videoregistrazioni in luoghi pubblici ovvero aperti o esposti al pubblico eseguite dalla polizia giudiziaria vanno incluse nella categoria delle prove atipiche, soggette alla disciplina dettata dall’art. 189 c.p.p. Quanto invece a quelle eseguite all’interno del domicilio è necessario a distinguere se oggetto della captazione siano comportamenti comunicativi o non comunicativi mentre nel primo caso la disciplina applicabile è quella dettata dagli artt. 266 e ss. c.p.p., nel secondo le operazioni di videoregistrazione non possono essere eseguite, in quanto lesive dell’art. 14 Cost Ne consegue che è vietata la loro acquisizione ed utilizzazione e, in quanto prova illecita, non può trovare applicazione la disciplina dettata dal citato art. 189 del codice di rito Sez. Un., n. 26795 del 28 marzo 2006, Prisco, Rv. 234267-234270 . 2.2 Va altresì ricordato che il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è solo quello attinente alle questioni di fatto e non anche di diritto, giacché ove queste ultime, anche se in maniera immotivata o contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano comunque esattamente risolte, non può sussistere ragione alcuna di doglianza Sez. 2, n. 19696 del 20 maggio 2010, Maugeri e altri, Rv. 247123 Sez. Un., n. 155/12 del 29 settembre 2011, Rossi e altri, in motivazione Sez. Un. n. 52117 del 17 luglio 2014, Prevete, in motivazione . Pertanto le doglianze del ricorrente possono ritenersi ammissibili - ancorché infondate come accennato - solo in relazione alla conformità a diritto o meno della ritenuta utilizzabilità probatoria delle videoriprese effettuate dalla p.g. all’interno dei locali dell’autorimessa con il consenso del suo titolare e non anche per quanto riguarda gli eccepiti difetti di motivazione. 2.3 Ciò premesso deve ritenersi, alla luce dei principi sopra ricordati, che le conclusioni raggiunte dalla Corte territoriale siano corrette. Dirimente è la soluzione della seconda questione posta sul punto con il ricorso e cioè se il box all’interno del quale svolgeva le sue mansioni il B. possa o meno essere qualificato come domicilio, giacché dalla stessa dipende sia la rilevanza o meno della natura dei comportamenti captati, sia quella della eventuale necessità che gli atti investigativi venissero compiuti seguendo la procedura delle intercettazioni. 2.3.1 In tal senso deve escludersi, per quanto riportato nello stesso ricorso, che il locale summenzionato possa essere equiparato ad un vero e proprio domicilio, anche nella più vasta accezione di domicilio lavorativo accolta in alcuni arresti di questa Corte. Ed infatti, come già evidenziato nella sopra ricordata pronunzia delle Sezioni Unite, il concetto di domicilio non può essere esteso fino a farlo coincidere con un qualunque ambiente che tende a garantire intimità e riservatezza. Non c’è dubbio che il concetto di domicilio individui un rapporto tra la persona e un luogo, generalmente chiuso, in cui si svolge la vita privata, in modo anche da sottrarre chi lo occupa alle ingerenze esterne e da garantirgli quindi la riservatezza. Ma il rapporto tra la persona e il luogo deve essere tale da giustificare la tutela di questo anche quando la persona è assente. In altre parole la vita personale che vi si svolge, anche se per un periodo di tempo limitato, fa sì che il domicilio diventi un luogo che esclude violazioni intrusive, indipendentemente dalla presenza della persona che ne ha la titolarità, perché il luogo rimane connotato dalla personalità del titolare, sia o meno questi presente. E in tal senso il luogo descritto in sentenza e nel ricorso non assume tali connotazioni, solo che si pensi che il locale in questione era di utilizzo promiscuo a tutti i dipendenti della società come dimostrato dal fatto che lo stesso D. vi aveva libero accesso e che le mansioni tipiche che al suo interno svolgeva il B. venivano svolte anche, secondo una programmata turnazione, da altri suoi colleghi. Né peraltro può considerarsi domicilio lavorativo qualsiasi luogo in cui il soggetto svolge la propria attività di lavoro, essendo per contro necessario che nel medesimo egli possa godere di quella riservatezza che garantisce l’esplicazione anche di atti della vita privata. Ed in tal senso il ricorrente non ha mai fornito dimostrazione che ciò avvenisse o anche solo fosse possibile all’interno del box in questione, che dunque non può essere qualificato come suo domicilio sul quale poter accampare una qualche titolarità. 2.3.2 Sotto altro profilo va poi ricordato che il giudice delle leggi, nell’occuparsi di questi temi si v. Corte Cost. n. 135/2002, ma soprattutto n. 149/2008 , ha avuto modo di precisare come, affinché sussista la tutela di cui all’art. 14 Cost., non basta che un certo comportamento attinente alla sfera personale venga tenuto in luoghi di privata dimora ma occorre, altresì, che esso avvenga in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non visibile ai terzi. Per contro, se l’azione - pur svolgendosi in luoghi di privata dimora - può essere liberamente osservata dagli estranei, senza ricorrere a particolari accorgimenti, il titolare del domicilio non può accampare una pretesa alla riservatezza e le videoregistrazioni a fini investigativi soggiacciono al medesimo regime valevole per le riprese visive in luoghi pubblici o aperti al pubblico. In una simile ipotesi, difatti, secondo la Corte Costituzionale, le videoregistrazioni non differiscono dalla documentazione filmata di un’operazione di osservazione o di appostamento, che ufficiali o agenti di polizia giudiziaria potrebbero compiere collocandosi, di persona, al di fuori del domicilio del soggetto bersaglio. Viene in conto cioè, quale criterio dirimente, quello della visibilità non protetta di tale luogo, che lo caratterizza per l’appunto come luogo esposto al pubblico. 2.3.3 Correttamente dunque i giudici dell’appello hanno posto l’accento sul fatto che il box avesse un’ampia vetrata che rendeva visibile all’esterno ciò che avveniva al suo interno. Né rileva in senso contrario l’obiezione difensiva per cui la telecamera era posta all’interno del box o che la stessa abbia registrato anche le manovre sottobanco del B. . Sotto il primo profilo è sufficiente osservare come il posizionamento della telecamera nel caso di specie, proprio in ragione dell’ampia visibilità esterna, sia irrilevante, mentre del tutto generico è il secondo rilievo non essendo precisato di che manovre trattasi , dovendosi peraltro evidenziare come anche in luogo pubblico il soggetto bersaglio può schermare alcune sue azioni senza che ciò muti la natura del luogo in cui si trova. 2.4 Quanto all’eccepito contenuto comunicativo dei comportamenti ripresi si tratta di doglianza invero manifestamente infondata. Ricordato che questi ultimi sono solo quelli finalizzati a trasmettere il contenuto di un pensiero con la parola, i gesti, le espressioni fisiognomiche o altri atteggiamenti idonei a manifestarlo Sez. 3, n. 37197 del 7 luglio 2010, P.M. in proc. L. e altro, Rv. 248563 è evidente che l’atto evocato nel ricorso non abbia contenuto comunicativo, essendo consistito, per stessa ammissione del ricorrente, in una condotta passiva priva di qualsiasi elemento idoneo a caratterizzarla nel senso sopra descritto. In realtà lo stesso ricorrente confonde due piani che sono distinti e cioè quello della natura dell’atto e quello del suo significato probatorio. Se infatti anche l’inerzia di un soggetto a fronte di stimoli esterni può assumere valenza probatoria, ciò non significa che solo per questo egli abbia compiuto un atto a contenuto comunicativo. Ancora meno fondata è poi la pretesa di ricavare dal risultato probatorio prefissosi dal pubblico ministero nel decreto autorizzativo delle captazioni la natura di queste ultime, che invece deve essere individuata sulla base del loro effettivo contenuto. 2.5 Conclusivamente sul punto deve ritenersi che le videoregistrazioni cui si riferiscono le eccezioni proposte con il ricorso sono state legittimamente disposte, effettuate, acquisite ed utilizzate ai fini probatori. Conseguentemente manifestamente infondata è l’ulteriore eccezione proposta in riferimento all’inutilizzabilità delle deposizioni degli operanti che ne hanno riassunto il contenuto in sede dibattimentale. 2.6 Quanto alle altre censure svolte nel primo motivo deve rilevarsi come fosse manifestamente infondato il tentativo del ricorrente di contrabbandare la deposizione del teste A. come una prova a discarico, essendo sufficiente in tal senso evidenziare come sia stato proprio il B. a non accusarlo di aver accettato di spartire il profitto del riciclaggio degli scontrini, circostanza che esimeva la Corte territoriale dal confutare esplicitamente l’argomentazione difensiva una volta esaurientemente motivato sull’attendibilità del coimputato valorizzando gli esiti delle videoregistrazioni. Ed in tal senso irrilevante è la circostanza che le dichiarazioni dello stesso siano state rese per la prima volta dopo che egli aveva patteggiato la pena, né il ricorrente ha saputo indicare elementi concreti che possano apparire sintomatici della sua volontà di calunniare il D. in grado di compromettere la tenuta della valutazione compiuta sul punto dal giudice dell’appello. Analogamente irrilevante è che questi non abbia specificamente confutato tutte le argomentazioni svolte nei motivi d’appello in ordine alla sussistenza del dolo del reato, atteso che dalla motivazione nel suo complesso emerge in maniera chiara come la Corte territoriale abbia attribuito alla dichiarazione del citato B. di aver consegnato al davanzo la sua parte di profitto il compito di provare la sua consapevolezza di sottrarre alla proprietà dell’autorimessa una parte degli incassi percepiti, rimanendo dunque incompatibili con tale linea argomentativa le obiezioni della difesa. In proposito è infatti necessario ricordare come in sede di legittimità non sia censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata col gravame quando la stessa venga disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata. Pertanto, per la validità della decisione non è necessario che il giudice di merito sviluppi nella motivazione la specifica ed esplicita confutazione della tesi difensiva disattesa, essendo sufficiente per escludere la ricorrenza del vizio che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione della deduzione difensiva implicitamente e senza lasciare spazio ad una valida alternativa. Sicché, ove il provvedimento indichi con adeguatezza e logicità quali circostanze ed emergenze processuali si sono rese determinanti per la formazione del convincimento del giudice, sì da consentire l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata, non vi è luogo per la prospettabilità del denunciato vizio di preterizione ex multis Sez. 2, n. 29434 del 19 maggio 2004, Candiano ed altri, Rv. 229220 . 3. Manifestamente infondate e generiche sono invece le doglianze svolte con il secondo motivo, atteso che la Corte territoriale ha tratto il convincimento della riutilizzazione degli scontrini consegnati dal D. al B. dalle dichiarazioni rese da quest’ultimo anche in relazione all’avvenuta remunerazione dell’imputato. Dichiarazioni che come già detto hanno trovato riscontro nel contenuto delle videoregistrazioni, a nulla rilevando che queste non abbiano eventualmente consentito di verificare la specifica circostanza, giacché una volta che i riscontri acquisiti abbiano natura individualizzante - com’è nel caso di specie - non è necessario che ogni singola dichiarazione del coimputato in merito allo stesso fatto di reato venga confortato dai medesimi. Quindi non solo non risponde al vero l’obiezione difensiva relativa ad una presunta omessa motivazione sul punto, ma altresì le censure del ricorrente dimostrano di non essersi confrontate con l’effettivo contenuto di quella resa dalla Corte territoriale. E quanto detto vale a confutare altresì l’obiezione contenuta nel primo motivo per cui il fatto contestato potrebbe al più essere qualificato come tentato furto e non come furto consumato. Analoghe considerazioni valgono per il terzo motivo ad oggetto al configurabilità dell’aggravante del mezzo fraudolento, parimenti ritenuta sussistente in ragione delle dichiarazioni del B. , confortate ancora una volta dalle riprese della telecamera che, come contraddittoriamente ricordato anche dal ricorso, hanno ripreso il momento in cui lo stesso ha provveduto all’alterazione degli scontrini, nonché dalla logica considerazione per cui solo attraverso tale alterazione pacificamente integrante un mezzo fraudolento - era possibile riutilizzarli e dunque sottrarre gli incassi oggetto di contestazione. 4. Infondato è il quarto motivo, atteso che la sentenza ha adeguatamente motivato sui parametri utilizzati nella commisurazione della pena, che comunque, anche prima delle riduzioni per le riconosciute attenuanti, non si discosta in maniera significativa dai minimi edittali e si attesta in circa un terzo del limite massimo. Motivazione la cui tenuta argomentativa non è pregiudicata dalle censure avanzate con il ricorso, con le quali si contestano le affermazioni della Corte territoriale evocando in maniera incompleta alcune risultanze processuali come nel caso del brano estrapolato dalla deposizione del teste F. ovvero proponendo mere interpretazioni soggettive degli elementi valorizzati dal giudice dell’appello. Manifestamente infondato è invece il quinto ed ultimo motivo del ricorso, atteso che per il consolidato insegnamento di questa Corte la condanna generica al risarcimento dei danni, pronunciata dal giudice penale, non esige alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l’accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della esistenza di un nesso di causalità tra tale fatto e il pregiudizio lamentato, rimanendo onere del danneggiato dimostrare nel conseguente giudizio civile l’effettiva sussistenza ed entità del danno lamentato ex multis Sez. 5, n. 45118 del 23 aprile 2013, Di Fatta e altri, Rv. 257551 . 5. Il ricorso deve in conclusione essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali, nonché alla refusione di quelle sostenute nel grado dalla parte civile, che liquida in Euro 2.500, oltre accessori come per legge. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla refusione delle spese di parte civile che liquida in Euro 2.500, oltre accessori di legge.