Estorsione o esercizio arbitrario delle proprie ragioni?

Se la minaccia o la violenza sono sproporzionate rispetto al fine di perseguire un diritto, si ha estorsione e non esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 50150, depositata il giorno 21 dicembre 2015. I rapporti tra norme penali non sono sempre semplici da definire in ambito giudiziario, specialmente quando gli effetti connessi alle diverse fattispecie sono fortemente diversi, soprattutto per le libertà dei cittadini. Tra le maggiori difficoltà che in proposito si rinvengono nel codice penale del 1930, vi è proprio il rapporto tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni. La struttura oggettiva dei due delitti è sostanzialmente identica la differenza consiste nella finalità dell’azione. Nell’estorsione si deve perseguire e raggiungere per sé o per altri un ingiusto profitto con l’altrui danno nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p. la violenza e la minaccia sono protese a perseguire ed ottenere un preteso diritto, pur potendo agire per il tramite dell’autorità giudiziaria. Ciò che distinguerebbe le due fattispecie, quindi, atterrebbe allo scopo o, se si preferisce, al dolo specifico dell’agente. Se così è, innanzi a condotte identiche, la qualificazione rispetto a questa o quella dipenderebbe, come accennato, nel verificare la finalità dell’azione. Così dovrebbe essere, quanto meno, in una prospettiva astratta. Se non che la giurisprudenza talvolta mira ad inserire condizioni inespresse nelle fattispecie, al fine di dilatare la punibilità per i reati più gravi. Che il tutto possa essere, nel caso concreto, condivisibile, è fuori di discussione. Se ciò sia legittimo alla luce del quadro costituzionale e della tutela delle libertà dei cives , la questione è più complessa e va trattata con estrema cautela. Ma si venga al punto. Il caso. Nella specie, l’imputato, al fine di ottenere il pagamento di un preteso debito, trattenne per oltre due ore la vittima anche grazie alle minacce dei complici, provvedendo più e più volte a prospettargli seriamente la morte, se del caso mediante lo scioglimento nell’acido oltre che mediante tentativi di strozzamento, ove non avesse pagato quanto richiesto. Il Tribunale di primo grado ritenne di qualificare il tutto sub art. 393 c.p La Corte d’appello, invece, valutata la sproporzione tra le minacce e le violenze rispetto al fine, nonché il fatto che il preteso credito provvigione per una intermediazione era tutt’altro che pacifico, aveva provveduto a riconsiderare la qualificazione del reato, ritenendo sussistente l’estorsione, così come prospettato nel capo d’accusa originario. A mezzo di ricorso per cassazione, l’imputato aveva ovviamente chiesto di annullare la sentenza d’appello, provvedendo a mantenere ferma la qualificazione del fatto sub art. 393 c.p La Cassazione, pur dando atto del contrasto giurisprudenziale esistente sul punto, ha ritenuto di aderire non già al filone che fa riferimento al fine perseguito dall’agente, ma a quello più rigoroso” secondo cui nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la condotta violenta o minacciosa non è mai fine a se stessa, ma è strettamente connessa alle finalità dell’agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale, non può mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza . Si è così respinto il ricorso, rilevando come in determinate circostanze e situazioni anche la minaccia dell’esercizio di un diritto, in sé non ingiusta, può diventare tale, se le modalità denotano soltanto una prava volontà ricattatoria, che fanno sfociare l’azione in mera condotta estorsiva . Conclusioni. E’ indubbio, come accennato, che il caso meritava una considerazione piuttosto attenta e non semplicistica. Se non che, in una prospettiva a più ampio raggio, appare indispensabile porre l’accento sopra elementi più oggettivi, poiché il diverso trattamento previsto dal legislatore tra le due fattispecie è notevole. Ritenere che non vi sia proporzionalità tra la minaccia e la violenza rispetto al fine di perseguire un diritto, altro non significa che tale minaccia e violenza mirano ad altro e ciò può essere se il giudice ritiene, alla luce delle risultanze, che le motivazioni, che in concreto hanno portato l’agente ad agire così e non altrimenti, non siano direttamente ricollegabili al fine perseguito” e dichiarato. Ciò potrà essere, per esempio, allorché il tutto voglia manifestare una abnorme supremazia dell’agente rispetto alla vittima oppure si voglia umiliarla oppure si miri a sanzionarla per l’inadempimento o a manifestare con ciò una sorta di monito”, a futura memoria, per gli altri. Se così sarà, è evidente che il fine perseguito è ingiusto e, dunque, non vi è problema nel qualificare il tutto quanto meno per una parte sub art. 629 c.p Per contro, se – come nella specie – di per sé il fine perseguito non può essere considerato come l’attuazione di un vero e proprio diritto, allora ogni riferimento alla struttura della minaccia o della violenza non ha senso di essere. Non basta, dunque, una mera allegazione per ritenere sussistente l’art. 393 c.p., ma è necessario che si provi che in effetti le violenze e le minacce abbiano avuto come fine esclusivo quello di ottenere la soddisfazione di un diritto. Se così è, è giocoforza concludere che in sé e per sé considerata la disposizione in questione contiene un canone di proporzionalità o, se si preferisce, di strumentalità, che dovrà essere vagliata nel singolo caso dal singolo giudice. Il tutto, insomma, porta alla conclusione per cui è bene non inserire categorie astratte e far rilevare contrasti che sono il più delle volte meramente apparenti. Ciò che vale, quanto meno a distanza di oltre 80 anni dall’approvazione del codice penale odierno, è la semplificazione dei criteri giurisprudenziali di interpretazione delle singole fattispecie e non il loro proliferare. Del resto, entia non sunt moltiplicanda sine necessitate .

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 12 novembre – 21 dicembre 2015, n. 50150 Presidente Gentile – Relatore Aielli Ritenuto in fatto Con sentenza del 27.11 .2013 la Corte d'Appello di Brescia in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Brescia in data 27.11.2012 , su appello del Pubblico Ministero, condannava A.T. per il delitto di estorsione aggravata come originariamente contestato , rispetto al delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ritenuto in primo grado. Avverso tale sentenza propone ricorso per Cassazione l'imputato A.T. il quale deduce 1 l'inosservanza o erronea applicazione della legge penale art. 606 lett. b c.p.p. in relazione alla ritenuta sussistenza della fattispecie di cui all'art. 629 c.p., in luogo di quella minore di cui all'art. 393 c.p., atteso che la Corte d'Appello, pur non escludendo la fondatezza del diritto del ricorrente, ha ritenuto sussistente il reato di estorsione in ragione delle modalità della condotta dell'A. da cui, invero non era derivata alcuna lesione, inoltre la condotta si era esaurita in poche ore e le vittime non furono mai coartate nel loro agire 2 con il secondo motivo l’A. deduce la mancanza o manifesta illogicità della motivazione art. 606 lett. e c.p.p. in relazione all'art. 393 c.p., in quanto la Corte d'Appello ha dapprima qualificato come discutibile il diritto di credito vantato dall'imputato, poi, nel riconoscergli le circostanze attenuanti generiche , in regime di prevalenza, ha valorizzato il dato della sua convinzione di aver subito un torto inoltre la Corte, a dire della difesa, ha reso una motivazione viziata da illogicità e contraddittorietà laddove ha dapprima valutato la condotta del ricorrente fortemente pervicace, spregiudicata e intimidatoria e poi, nel riconoscere le circostanze attenuanti generiche in regime di prevalenza, ha evidenziato che la stessa si discostava dalle ordinarie vicende estorsive. In diritto II ricorso è infondato. Occorre premettere che in tema di differenziazione tra il reato di estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni si registra un oscillamento giurisprudenziale . Si sono infatti sviluppati , in parte qua , due distinti filoni interpretativi , da un iato la giurisprudenza che afferma che la distinzione tra le due fattispecie, non è correlata alla materialità del fatto, che può essere identica in entrambe le ipotesi, ma piuttosto, nell'elemento intenzionale quale che sia stata l'intensità e la gravità della violenza o della minaccia, solo l'azione che miri all'attuazione di una pretesa non suscettibile di tutela giudiziaria merita di essere tipizzata in termini di estorsione da ultimo cfr. Sez. 2, n. 23765/2015 rv. 264106 Sez. 2 n. 9759/2015, rv. 263298 Sez. 2 , n. 51433/2013 rv. 257375 . Dall'altro, la giurisprudenza che afferma che se è vero che l'elemento intenzionale costituisce in linea di principio la linea di demarcazione delle due ipotesi delittuose, la gravità della violenza e la intensità dell'intimidazione veicolata con la minaccia, non costituiscono momenti del tutto indifferenti nel qualificare il fatto in termini di estorsione piuttosto che di esercizio arbitrario ex art. 393 c.p Poiché, infatti, nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la condotta violenta o minacciosa non è fine a se stessa, ma è strettamente connessa alla finalità dell'agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale, non può mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza. Quando la minaccia, dunque, si estrinseca in forme di tale forza intimidatoria e di sistematica pervicacia che vanno al di là di ogni ragionevole intento di far valere un diritto, allora la coartazione dell'altrui volontà, è finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i caratteri dell'ingiustizia. Con la conseguenza che in determinate circostanze e situazioni anche la minaccia dell'esercizio di un diritto, in sè non ingiusta, può diventare tale, se le modalità denotano soltanto una prava volontà ricattatoria, che fanno sfociare l'azione in mera condotta estorsiva cfr. in termini Sez. 1, Sentenza n. 32795 del 02/07/2014 Rv. 261291 Sez. 6, n. 17785/2015, rv. 263255 Sez. 5 19230/2013 rv. 256249 . Secondo questo indiR., dunque, a fronte di un preteso diritto che sia possibile far valere davanti all'autorità giudiziaria, ai fini della distinzione tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione, occorre verificare il grado di gravità della condotta violenta o minacciosa per cui si rimane indubbiamente nell'ambito dell'estorsione ove venga esercitata una violenza gratuita e sproporzionata rispetto al fine ovvero se si eserciti una minaccia che non lasci possibilità di scelta alla vittima così Sez. 6, 7 settembre 2010, n. 32721, Hamidovic, Rv. 248169 . Nel caso in esame la Corte d'Appello attribuisce alla condotta dell' A. la valenza estorsiva, in adesione a tale orientamento giurisprudenziale , valorizzando il dato delle modalità dell'azione, puntualmente descritte a pag. 10 consistite nel trattenere il B. presso l'ufficio dei C. per oltre due ore, avvalendosi della forza intimidatoria dei complici , minacciandolo ripetutamente di morte anche con il gesto fortemente intimidatorio dello sgozzamento , se non avesse pagato la somma richiesta , minacce ripetute per telefono alla socia S., nell'averlo fatto afferrare per il collo , nel minacciarlo nuovamente che lo avrebbe fatto sciogliere nell'acido , evidenziando altresì che il diritto dell'A. , ad ottenere la restituzione della somma di denaro, versata per la pR.zione di intermediazione resa dalla agenzia del B., non era affatto certo, ma anzi, assai discutibile, sicchè nemmeno potrebbe prospettarsi l'ipotesi della ragion fattasi, in assenza di una pretesa legittima. In ragione di tale ulteriore argomentazione la Corte di merito esclude decisamente il reato di cui all'art. 393 c.p. dando atto della ricorrenza della estorsione, sia sotto il profilo oggettivo modalità dell'azione , sia sotto il profilo soggettivo, per l'inesistenza del diritto azionabile , sicchè la motivazione proprio perché rafforzata sul punto, appare congrua ed esaustiva . Quanto al secondo motivo di impugnazione, consistente nella illogicità o contraddittorietà della motivazione avuto riguardo alla negazione della minore ipotesi di cui all'art. 393 c.p., nonostante la Corte avesse ritenuto che l'A. avesse agito con la convinzione di aver subito un torto , argomento speso anche per riconoscere all'imputato le circostanze attenuanti generiche in regime di prevalenza sulle aggravanti , deve evidenziarsi che la Corte d'Appello ha utilizzato tale argomento per modulare la pena ed adeguarla al caso concreto parametrando l'esercizio del proprio potere discrezionale, agli elementi valutativi di cui agli artt. 133 e 69 c.p. pag. 12 , senza che ciò potesse tuttavia incidere sulla effettiva valenza estorsiva del fatto . Tale valutazione di merito è insindacabile nel giudizio di legittimità, essendo il metodo di valutazione delle prove conforme ai principi giurisprudenziali e l'argomentare scevro da vizi logici. Al rigetto del ricorso segue la condanna al pagamento delle spese processuali . P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.