Assegni familiari ed indennità di malattia: la falsa dichiarazione in merito al versamento non è truffa

Il datore di lavoro che non anticipa al lavoratore, per conto dell’INPS, gli assegni familiari e l’indennità di malattia non commette una truffa ai danni dell’ente previdenziale.

È quanto ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 41357/15, depositata il 14 ottobre. Il caso. Il gup del Tribunale di Avellino pronunciava sentenza di non luogo a procedere nei confronti del titolare di una ditta, imputato per truffa aggravata il datore di lavoro non aveva corrisposto ad un suo dipendente l’indennità giornaliera di malattia e gli assegni familiari, conguagliando le somme non versate con i contributi dovuti all’INPS. In sede di udienza preliminare, il giudice riqualificava le condotte di cui sopra nei reati di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ed appropriazione indebita, dichiarando non luogo a procedere. Con riferimento all’illecito di cui all’art. 316 ter c.p. indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato rilevava che il fatto non era previsto dalla legge come reato, poiché la somma portata a conguaglio era inferiore alla soglia di rilevanza penale. In merito al reato di appropriazione indebita art. 646 c.p. , il giudice constatava l’assenza di condizione di procedibilità. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Avellino proponeva ricorso, chiedendo l’annullamento con rinvio della pronuncia impugnata, lamentando l’erronea qualificazione giuridica del fatto come illecito di cui all’art. 316 ter c.p. invece che come truffa aggravata in concorso formale con l’appropriazione indebita e, dunque, procedibile d’ufficio. La falsa dichiarazione in merito al versamento di assegni familiari ed indennità al lavoratore non costituisce artifizio o raggiro . La Suprema Corte ha ritenuto infondato il ricorso nella parte in cui lamentava l’erronea qualificazione del fatto gli Ermellini hanno ribadito il proprio orientamento giurisprudenziale per cui il datore di lavoro che non anticipa assegni familiari ed indennità di malattia spettanti al lavoratore per conto dell’INPS, non pone in essere dei raggiri nei confronti dell’ente previdenziale. Il datore di lavoro produceva, secondo la Corte, una falsa rappresentazione in merito all’anticipazione delle somme e non all’esistenza del debito. L’orientamento giurisprudenziale sposato dalla Cassazione riconduce le condotte di cui sopra al reato di cui all’art. 37, L. 689/1981 omissione o falsità in registrazione o denuncia obbligatorie , escludendo le ipotesi di truffa in quanto assenti gli artifizi ed i raggiri richiesti dalla legge per la configurazione di tale reato. Gli Ermellini hanno precisato che il datore di lavoro realizza, in questi casi, un ingiusto profitto, ma non determina alcun danno. La Suprema Corte, traendo spunto da una recente pronuncia della sezione Lavoro sentenza n. 8873/2015 , ha argomentato che le false dichiarazioni del datore di lavoro sull’avvenuto versamento degli assegni familiari e dell’indennità di malattia non possano essere considerate degli artifizi o raggiri, perché il conguaglio opera automaticamente e non è soggetto ad autorizzazione da parte dell’INPS. Gli Ermellini hanno rilevato che nel reato di truffa, l’elemento del danno deve avere contenuto patrimoniale e deve consistere in una lesione concreta da cui scaturisca la perdita del bene. Per quanto concerne il reato di appropriazione indebita, la Suprema Corte ha precisato che lo stesso deve ritenersi, nel caso di specie, aggravato dall’abuso di relazioni di prestazione d’opera, circostanza di cui all’art. 61 n. 11 c.p. , che implica la sussistenza di un rapporto di fiducia tra le parti con conseguente facilitazione della commissione del reato. In considerazione di ciò, l’illecito deve considerarsi procedibile d’ufficio art. 646, comma 3, c.p. . Per le ragioni sopra esposte, la Suprema Corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 14 luglio – 14 ottobre 2015, numero 41357 Presidente Esposito – Relatore Cammino Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 25 febbraio 2015 il giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Avellino ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti di A.D., imputato del reato di truffa aggravata per aver omesso, in qualità di titolare della ditta omonima, di corrispondere al suo dipendente P.A. l'indennità giornaliera di malattia relativamente al mese di marzo 2013, ammontante ad euro 494,40, e gli assegni familiari per i mesi di febbraio e marzo 2013, per un importo di euro 496,40, conguagliando dette somme non versate con i contributi dovuti all'INPS, inducendo così in errore i dipendenti dell'INPS sulla correttezza deì conguagli e procurandosi un ingiusto profitto con pari danno per la persona offesa. Riqualificato il fatto nei reati di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato e appropriazione indebita, il giudice ha dichiarato non luogo a procedere perché il fatto non è previsto dalla legge come reato limitatamente al reato di cui all'articolo 316-ter cod.penumero , essendo la somma portata a conguaglio inferiore alla soglia di rilevanza penale, e per mancanza di querela quanto al reato di appropriazione indebita. 2. Avverso la predetta sentenza il pubblico ministero ha proposto ricorso per cassazione deducendo l'erronea qualificazione giuridica dei fatto come indebita percezione di erogazione ex articolo 316-ter cod.penumero , anziché come truffa aggravata, ed evidenziando, anche tenendo conto della sentenza numero 7537 dei 2011 delle Sezioni Unite, che nel caso di specie il datore di lavoro attraverso la falsa dichiarazione puntava ad ottenere la compensazione tra le somme fittiziamente versate al lavoratore e i contributi da lui dovuti all'INPS, contributi a suo esclusivo carico in base al regime previdenziale vigente il pubblico ministero ricorrente segnala pronunzie di questa Corte in cui la condotta dei lavoratore viene configurata come truffa Cass. 27 febbraio 2007 numero 11184 numero 36066 dei 2005 numero 12169 dei 2000 , aggiungendo che l'INPS per effetto della condotta dei datore di lavoro si troverebbe esposto patrimonialmente perché costretto a farsi carico dei mancato versamento degli assegni familiari al lavoratore e, nel contempo, a porre in essere nei confronti del datore di lavoro le azioni necessarie per il recupero dei mancato versamento dei contributi, indebitamente conguagliati sulla base della falsa dichiarazione. Quanto al reato di appropriazione indebita, che il pubblico ministero riconosce potersi configurare in concorso formale con il reato di truffa aggravata non con il reato di cui all'articolo 316-ter cod.penumero , detto reato nel caso di specie sarebbe procedibile di ufficio trattandosi di reato aggravato dall'articolo 61 numero 11 cod. penumero avendo il datore di lavoro abusato delle relazioni di ufficio o di prestazione d'opera per essersi appropriato di una somma di cui aveva la disponibilità in virtù della sua qualità di datore di lavoro e dei ruolo di adiectus solutionis causa. Considerato in diritto 1. Il ricorso è in parte fondato. Quanto alla qualificazione giuridica dei fatto come truffa aggravata, la Corte ritiene infondato il ricorso non potendo che ribadire quanto affermato nella sentenza emessa da questa stessa sezione il 15 gennaio 2013, ric. Meloni, in un analogo caso. In detta sentenza si puntualizzava che il datore di lavoro ha l'obbligo di anticipare per conto dell'I.N.P.S. gli assegni familiari e l'indennità di malattia spettanti al lavoratore, malattia la cui esistenza non era in discussione nel caso concreto, e si escludeva, pertanto, che il datore di lavoro avesse messo in atto dei raggiri nei confronti dell'ente previdenziale evidenziando nella denuncia contributiva il suo debito nei confronti dei lavoratore in relazione a indennità che non erano state di fatto erogate. Nei modelli DM 10 prospetti con i quali mensilmente il datore di lavoro denuncia all'I.N.P.S. le retribuzioni mensili corrisposte ai dipendenti, i contributi dovuti e l'eventuale conguaglio delle prestazioni anticipate per conto dell'ente, delle agevolazioni e degli sgravi la falsa rappresentazione riguardava pertanto non l'esistenza del debito portato a conguaglio, ma solo l'anticipazione delle relative somme al lavoratore. La Corte ha ritenuto pertanto di condividere l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale, allorché il datore di lavoro si limiti ad esporre dati e notizie false in sede di denunce obbligatorie, è configurabile il reato di cui all'articolo 37 della legge 24 novembre 1981 numero 689 qualora dal fatto derivi un'evasione contributiva per un importo mensile superiore a L. 5.000.000 e non il diverso reato di truffa, per il quale, oltre alle false dichiarazioni, devono sussistere artifici e/o raggiri di altra natura Cass. sez.III 27 dicembre 2000 numero 12169, P.M. in proc.Doti che, in ipotesi, potrebbero ravvisarsi solo nel caso in cui nei confronti dell'I.N.P.S. venisse simulata la situazione all'origine dei debito portato a conguaglio. La Corte ha rilevato inoltre che quando la discordanza tra la situazione rappresentata all'I.N.P.S. e quella reate riguardi soto l'effettiva erogazione di somme che l'ente previdenziale è tenuto a corrispondere al lavoratore tramite il datore di lavoro e quest'ultimo sostanzialmente riconosca il suo obbligo di corrisponderle pur non avendole di fatto, ancora, corrisposte nei confronti dell'ente previdenziale, il datore di lavoro sicuramente realizza -o, quanto meno, pone in essere atti idonei a realizzare l'ingiusto profitto dei conguaglio delle prestazioni che assume di aver anticipato, ma non determina alcun danno. Il lavoratore, infatti, non potrebbe che rivolgersi al datore di lavoro per ottenere quanto gli spetta avendo l'I.N.P.S., attraverso il conguaglio, adempiuto il suo obbligo. Deve pertanto convenirsi con il giudice che ha emesso la sentenza impugnata sull'insussistenza del reato di truffa, non essendo configurabili nella condotta dell'imputato gli artifizi o raggiri. Tale conclusione sembra del resto trovare conferma in una recente pronuncia della Sezione Lavoro di questa Corte, emessa il 6 maggio 2015, la numero 8873 del 4 maggio 2015, secondo la quale l'attivazione da parte dei datore di lavoro del meccanismo, sicuramente agevolativo, di anticipazione degli assegni familiari e dei conguaglio di quanto corrisposto al suddetto titolo con quanto dovuto per contributi all'Istituto previdenziale, comporta l'obbligo dello stesso datore in caso di prestazioni indebitamente erogate al lavoratore e poste a conguaglio di recuperare le relative somme, trattenendole su quelle da lui dovute al lavoratore medesimo a qualsiasi titolo in dipendenza del rapporto di lavoro, giusta la previsione del D.P.R. numero 797 del 1955, articolo 24. Detta pronuncia, affermando nel caso opposto a quello in esame che il recupero di eventuali assegni non dovuti e il conseguente versamento all'INPS di dette somme si configura in capo al datore di lavoro senza dover attendere l'avvenuto recupero delle somme in capo al lavoratore, avvalora la tesi che il conguaglio opera automaticamente e non è soggetto ad alcuna autorizzazione da parte dell'INPS, nei cui confronti le dichiarazioni non veritiere del datore di lavoro sull'avvenuto versamento degli assegni familiari e dell'indennità di malattia non potrebbero configurarsi come artifici o raggiri. Nel delitto di truffa peraltro, mentre il requisito del profitto ingiusto può comprendere in sé qualsiasi utilità, incremento o vantaggio patrimoniale, anche a carattere non strettamente economico, l'elemento dei danno deve avere necessariamente contenuto patrimoniale ed economico, consistendo in una lesione concreta e non soltanto potenziale che abbia l'effetto di produrre mediante la cooperazione artificiosa della vittima che, indotta in errore dall'inganno ordito dall'autore dei reato, compie l'atto di disposizione la perdita definitiva dei bene da parte della stessa Cass. Sez.Unumero 16 dicembre 1998 numero 1, Cellammare . Nel caso di specie l'I.N.P.S., indicato nell'imputazione quale soggetto passivo del reato di truffa, non risulta aver risentito per effetto della condotta dell'imputato uno specifico ed effettivo danno di indole patrimoniale ovvero un reale depauperamento economico, nella forma dei danno emergente o dei lucro cessante. Il giudice che ha emesso la sentenza impugnata, una volta esclusa la sussistenza del reato di truffa, ha ritenuto di qualificare il fatto in termini di indebita percezione di erogazione pubblica ex articolo 316-ter cod.penumero e di appropriazione indebita, dichiarando non luogo a procedere in ordine al primo reato perché il fatto non è previsto dalla legge come reato essendo la somma non versata dal datore di lavoro inferiore alla soglia di rilevanza penale e in ordine al secondo reato per mancanza di querela. Per quanto riguarda la configurabilità dell'articolo 316-ter cod.penumero il pubblico ministero ricorrente non formula alcuna specifica doglianza limitandosi a sostenere la tesi della ravvisabilità nella condotta dell'imputato del reato di truffa aggravata. Il ricorrente non esclude, tuttavia, la configurabilità del reato di appropriazione indebita in concorso formale con quello di truffa aggravata , ma fondatamente rileva che erroneamente il reato sia stato ritenuto nella sentenza impugnata procedibile a querela e si duole che la mancanza della condizione di procedibilità abbia determinato anche in ordine a questo reato la pronuncia di non luogo a procedere. Il reato, per come il fatto è descritto nell'imputazione, deve effettivamente ritenersi aggravato dall'abuso di relazioni di prestazione d'opera di cui all'articolo 61 numero 11 cod. penumero perché agevolato dalle condizioni favorevoli create dal rapporto di lavoro, e quindi procedibile di ufficio ai sensi dell'articolo 646 comma terzo cod.penumero La nozione di abuso di relazione di prestazione d'opera, previsto come aggravante dall'articolo 61 numero 11 cod. penumero , si applica infatti a tutti i rapporti giuridici che comportino l'obbligo di un facere, bastando che tra le parti vi sia un rapporto di fiducia che agevoli la commissione dei reato, a nulla rilevando la sussistenza di un vincolo di subordinazione o di dipendenza Cass. sez.V 17 dicembre 2014 numero 7317, Herrera sez.II 15 ottobre 2013 numero 44343, Cavallo sez.II 10 gennaio 2013 numero 14651, P.G. in proc. Chatbi . Si impone, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata, con rinvio al Tribunale di Avellino per l'ulteriore corso. P.Q.M. annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Avellino per l'ulteriore corso. Roma 14 luglio 2015