La “messa alla prova” per adulti non si applica per il passato. Non restano che le Sezioni Unite

La Cassazione fa ancora prevalere la soluzione meno garantista e sfavorevole per l’imputato, per la natura processuale dell’istituto.

Così la Cassazione, quarta sez. penale, n. 40941/2015, depositata il 12 ottobre. Il dubbio. Veniva condannato da tribunale e corte d’appello per guida in stato di ebbrezza ex art. 186, lett. c e 2 bis e 2 sexies del Codice della strada, per aver provocato un incidente stradale in ora notturna. Veniva negata la messa in prova ex art. 168 bis c.p. – come introdotta dall’art. 3, undicesimo comma, della legge n. 67 del 2014 - in quanto la nuova norma – vigente a far data dal 17 maggio 2014 - era occorsa successivamente al termine ultimo previsto dall’art. 464 bis c.p.p. prescritto per richiedere il beneficio – limitatamente al primo grado in via generale fino alle conclusioni in udienza preliminare ovvero fino all’apertura del dibattimento ex art. 484 c.p. in caso di giudizio direttissimo e di procedimenti di citazione diretta a giudizio –. L’imputato deduce la valenza sostanziale e non meramente processuale dell’istituto, con conseguente applicazione in ogni caso del più favorevole regime per l’imputato – ai sensi dell’art. 2 c.p. -, altrimenti impossibilitato a godere di un beneficio che consente, all’esito della messa alla prova, l’estinzione del reato. La sentenza sarebbe di seguito nulla ex art. 606, lett. b, c.p.p., per violazione di legge. La Cassazione rigetta. La tesi sconfessata. La legge n. 67 del 2014 non aveva previsto una disciplina transitoria per regolare l’applicazione dell’istituto nei processi in corso. L’imputato sosteneva una interpretazione estensiva dell’art. 2, quarto comma, c.p. il quale, nel prevedere la prevalenza della lex mitior in caso di sopravvenienza normativa, andrebbe applicata per ogni effetto sostanziale di previsioni, anche di carattere processuale, che intervengono a regolare e ad incidere la posizione processuale particolare dell’imputato. Andrebbe fatta prevalere la soluzione più garantista , che meglio coniuga le esigenze difensive con un disposto normativo non inequivoco, e ovviamente quella dell' immediata applicabilità dell'istituto della messa alla prova anche ai fatti pregressi e per i processi pendenti , in applicazione delle note regole generali previste dall'art. 2 cit., riconosciuto a piene mani un sostegno normativo essenziale anche per la corte di Strasburgo – v. sentenza Coppola del 17 settembre 2009 -. La soluzione già prevalente della Cassazione in commento. Il conforto della Corte Costituzionale. Già era stata avanzata questione di legittimità costituzionale ex art. 3 della Costituzione, dell’art. 464 bis, secondo comma, c.p.p., nella parte in cui non consente l’applicazione dell’istituto della sospensione del processo con messa alla prova ai procedimenti pendenti al momento dell’entrata in vigore della legge. La deduzione fu dichiarata manifestatamente infondata dai giudici costituzionali in quanto si tratta di scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore, non sindacabile perché non palesemente irragionevole . La Cassazione si confà allora all’orientamento dominante, che presumibilmente non verrà sconfessato dalle Sezioni Unite, cui è stata in precedenza demandata la risoluzione del dubbio. Vige nel caso il principio del tempus regit actum , l’istituto della messa in prova non si applica a fatti e processi pendenti al 17 maggio 2014, per i quali erano decorsi i termini ex art. 464 bis c.p.p I paradossi processuali evitati. A ben vedere, la norma non avrebbe tenuto all’impatto di una sentenza di accoglimento dei giudici costituzionali. Avrebbe di fatto consentito all’imputato di richiedere la messa alla prova sino a che non fosse intervenuta la decisione di primo grado, operando le scelte più convenienti in relazione agli andamenti dibattimentali, sino a quel momento tenutasi – la deduzione non vale tuttavia in ogni caso, ad esempio nell'ambito di quei processi che, pur avendo superato la fase della dichiarazione di apertura del dibattimento, non hanno ancora visto iniziare alcuna attività istruttoria -. Inoltre avrebbe consentito di beneficiare dell’istituto in grado d’appello, oltre le finalità dell’istituto, che consente all’imputato la scelta di una soluzione radicalmente alternativa all’insaturazione del giudizio.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 18 settembre – 12 ottobre 2015, n. 40941 Presidente Bianchi – Relatore Pezzella Ritenuto in fatto 1. La Corte di Appello di Firenze, pronunciando nei confronti dell'odierno ricorrente, con sentenza del 10.7.2014, confermava la sentenza emessa il 30.10.2012 dal Tribunale di Firenze, appellata da M.L. , con la quale lo stesso era stato condannato alla pena di anni uno e mesi uno di arresto ed Euro 5000 di ammenda, oltre al pagamento delle spese processuali, con revoca della patente di guida, per il reato di cui all'art. 186 co. lett. c e 2bis e 2 sexies del Codice della Strada perché guidava l'autoveicolo tg. in stato di ebbrezza con un tasso alcolemicoi superiore a 1,5 g/l pari a 1,67 g/l e provocava un incidente, nella fascia oraria compresa tra le ore 2 e le ore 7, in OMISSIS . 2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, M.L. , deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen. a. ERRONEA APPLICAZIONE DELLA LEGGE PENALE - art. 606 Lett. b cod. proc. pen. - in relazione agli artt. 168 bis, 2 comma IV C.P. Il difensore ricorrente evidenzia che all'udienza del 10.7.2014 ebbe ad avanzare richiesta di sospensione del processo ai sensi dell'art. 168 bis c.p. con conseguente richiesta di messa alla prova specificando, già in quella, sede, che il superamento del termine processuale previsto dall'art. 424 bis cod. proc. pen. non poteva considerarsi ostativo all'accoglimento dell'istanza trattandosi di norma sostanziale e quindi con effetti retroattivi. Detta richiesta - ci si duole in ricorso - veniva dichiarata inammissibile in quanto proposta dopo le formalità di apertura del dibattimento di primo grado, come invece prevede la nuova norma. Ciò consente altresì di ritenere che la nuova normativa introdotta ha natura processuale e non sostanziale e che quindi non ha effetto retroattivo come ritenuto - dall'appellante . In altri termini la Corte territoriale ha considerato la nuova normativa di cui all'art. 168 bis c.p. di natura processuale e non sostanziale per il solo fatto che l'art. 464 bis cod. proc. pen. prevede un termine entro e non oltre il quale può essere chiesta l'applicazione di detta normativa. In realtà il ricorrente rileva che il legislatore ha previsto la messa alla prova sia quale causa di estinzione del reato inserita nel codice penale subito dopo la disciplina della sospensione condizionale della pena sia come possibilità di definizione alternativa della vicenda processuale con specifici momenti processuali per la proposizione della richiesta con diversificazioni collegate ai differenti procedimenti, ma comunque non oltre al giudizio di primo grado. La legge 67/2014 non ha previsto una disciplina transitoria diretta a regolare i procedimenti che, come quello de quo, alla data del 17 maggio 2014, abbiano superato le fasi processuali entro le quali, ai sensi dell'art. 464 bis cod. proc. pen., la sospensione del procedimento con messa alla prova può essere richiesta dall'imputato. Nella sua motivazione sul punto la Corte d'Appello non avrebbe, però, considerato che gli effetti di carattere sostanziale dell'istituto sopra indicati depongono necessariamente per una interpretazione estensiva della norma anche ai fatti-reato pregressi ed ai procedimenti pendenti, sia per l'applicazione dell'art. 2 c.p., comma 4, sia per coerenza con la significativa evoluzione della giurisprudenza sul principio di retroattività della lex mitior , alla luce delle fonti internazionali e comunitarie e dei principi affermati dalla Corte di Strasburgo. In particolare il ricorrente si riferisce all'art. 7 CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo sentenza 17 settembre 2009 Scoppola contro Italia - confermata nella successiva decisione 27 aprile 2010, Morabito contro Italia laddove per la prima volta venne affermato il principio secondo il quale l'art. 7 par. i della Convenzione non sancisce solo il principio dell'irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche il principio della retroattività della legge penale meno severa, traducendosi nella norma secondo la quale, se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all'imputato. Il ricorrente afferma che la soluzione adottata dalla Corte d'Appello sarebbe in contrasto con l'art. 2 del codice penale e con la natura sostanziale dell'art. 168 cod. pen La norma introdotta - si sostiene in ricorso - non, può pensarsi esserlo stata come norma processuale che è volta solo per i futuri processi se con scopo defiattivo, diciamo così, immaginata dal legislatore, non può non prendere in considerazione anche il passato nel senso dei processi in corso che non abbiano ancora esaurito le fasi di merito. b. MANCANZA DELLA MOTIVAZIONE - art. 606 lett. e risultante dai testo stesso della sentenza in relazione ai motivi di appello proposti - INOSSERVANZA DI NORME GIURIDICHE DI CUI SI DEVE TENERE CONTO NELL'APPLICAZIONE DELLA LEGGE PENALE - art. 606 lett. b in relazione agli artt. 125 comma 3 e 111 comma 6 Cost Con l'atto di appello il difensore ricorrente ricorda di avere lamentato una errata valutazione delle risultanze processuali da parte del primo giudice in ordine alla ritenuta sussistenza del presupposto del reato, cioè la condotta di guida, nonché la contraddittorietà e carenza della motivazione su detto punto. In particolare si ravvisava contraddittorietà della motivazione laddove il primo giudice, da una parte, utilizzando termini perentori come appare evidente , aveva ritenuto provata la guida in stato di ebbrezza poiché al momento dell'arrivo della Polizia Municipale il M. era l'unico presente sul posto, dall'altra però, a fondamento della supposta evidenza, si era espresso con termini assolutamente dubitativi come con ogni probabilità1 e forse in punto di sussistenza della condotta, quale elemento oggettivo del reato contestato. Nell'atto di appello il difensore ricorrente ricorda anche di avere lamentato altresì la carenza di motivazione laddove il primo giudice nella valutazione degli indizi aveva del tutto omesso di motivare il perché certe circostanze emerse nel processo non fossero state ritenute idonee a rendere gli indizi posti alla base della condanna suscettibili di obiezioni, diversa interpretazione e/o non univoci. Il ricorrente dichiara di riferirsi al fatto che gli agenti intervenuti sul posto, avendo ritenuto superfluo escutere persone informate sui fatti ed acquisire il filmati delle telecamere poste nelle vicinanze del fatto, non erano stati in grado di determinare se fosse realmente il M. alla guida del mezzo, da quanto tempo si trovasse in quel luogo e quindi esattamente quando aveva bevuto cioè se prima o dopo il contestato incidente avvenuto nella fase di parcheggio. Ebbene il ricorrente si duole che la Corte d'Appello su detti specifici motivi di gravame avrebbe del tutto omesso di esprimersi, limitandosi genericamente ad affermare - m risposta al solo primo motivo di appello relativo alla ritenuta errata valutazione dei fatti - che si trattava di indizi gravi, precisi e concordanti e quindi tali da assurgere a prova certa del presupposto del reato. Alla luce di dette evidenti omissioni il ricorrente, richiamata la giurisprudenza di questa Corte Suprema sul vizio motivazionale, ritiene che la sentenza impugnata difetti dei requisiti imposti in punto di obbligo di motivazione dagli artt. 125 comma 3 cod. proc. pen. e 111 comma 6 Cost Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata. Considerato in diritto 1. I motivi sopra illustrati appaiono entrambi infondati e, pertanto, il proposto ricorso va rigettato. 2. Quanto al motivo in tema di sospensione del procedimento con messa alla prova va ricordato che il nuovo art. 464 bis, comma 2, cod. proc. pen., introdotto nel sistema processuale penale dall'art. 4, comma 1, lett. a , della l. 28 aprile 2014, n. 67, prevede che la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova possa essere proposta, oralmente o per iscritto, fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 o 422 o fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a giudizio , dovendo conseguentemente essere ritenuta tardiva la richiesta formulata oltre detti specifici momenti processuali. Ebbene, questa Corte di legittimità, con una giurisprudenza ormai costante che il Collegio condivide, ha chiarito che, deve ritenersi tardiva - in assenza di una specifica disciplina transitoria - l'istanza di sospensione proposta successivamente alla dichiarazione di apertura del dibattimento, pur se tale dichiarazione sia anteriore all'entrata in vigore della predetta L. n. 67 cfr. sez. 3, n. 27071 del 24.4.2015, Frasca, rv. 263815 . Già in precedenza si era peraltro rilevato che il beneficio dell'estinzione del reato, connesso all'esito positivo della prova, presuppone lo svolgimento di un iter processuale alternativo alla celebrazione del giudizio e quindi appare assolutamente legittima la scelta del legislatore di non avere introdotto una disciplina transitoria che, se avesse ritenuto di applicare la nuova normativa oltre la dichiarazione di apertura del dibattimento, sarebbe inevitabilmente andata in contrasto con la ratio dell'istituto e avrebbe vanificato le attività processuali compiute sino a quel momento cfr. sez. fer. n. 42318 del 9.9.2014, Valmaggi, rv. 261096 conf. sez. 3, n. 22104 del 14.4.2015, Zheng, rv. 263666 sez. 2, n. 18265 del 16.1.2015, Capardoni ed altri, rv. 263792 . 3. In materia ci si è anche pronunciati, ritenendola manifestamente infondata, su una proposta questione di legittimità costituzionale dell'art. 464 bis, comma secondo, cod. proc. pen., per contrasto all'art. 3 Cost., nella parte in cui non consente l'applicazione dell'istituto della sospensione con messa alla prova ai procedimenti pendenti al momento dell'entrata in vigore della legge 28 aprile 2014, n. 67, quando sia già decorso il termine finale da esso previsto per la presentazione della relativa istanza, in quanto trattasi di scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore e non palesemente irragionevole, come tale insindacabile sez. 6, n. 47587 del 22.10.2014, Calamo, rv. 261255 . Peraltro, successivamente alla legge 67/2014, è entrata in vigore la L. 11 agosto 2014, n. 118 che ha introdotto nella L. n. 67 del 2014 l'art. 15 bis Norme transitorie , previsione concernente, tuttavia, il solo Capo III della legge e la disciplina ivi stabilita di sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili, ma non il Capo II relativo alla messa alla prova, confermando non esserci stato da parte del legislatore alcun ripensamento quanto alla individuazione del termine finale di presentazione dell'istanza di cui all'art. 464 bis cod. proc. pen., comma 2. Nel caso di cui alla sentenza 47587/2014 era stato il P.G. a chiedere alla Corte di Cassazione di sollevare questione d'illegittimità costituzionale con riferimento all'art. 3 Cost. nella parte in cui non è consentita la presentazione della istanza anche quando sia già decorso il termine finale di cui all'art. 464 bis cod. proc. pen., comma 2 e cioè, secondo logica deduzione, alla prima udienza successiva all'entrata in vigore della L. n. 67 del 2014 ma prima della pronunzia del dispositivo della sentenza di primo grado. Il Collegio, tuttavia, ritenne condivisibilmente di non poter accogliere l'invito formulato dalla parte pubblica, ritenendo che il tema dell'individuazione del termine finale di proponibilità della richiesta di ammissione al nuovo istituto involgesse, all'evidenza, scelte rimesse alla discrezionalità del legislatore, come tali insindacabili tranne il caso in cui risultino palesemente irragionevoli, come stabilito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 393 del 2006 a proposito della norma transitoria della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3 regolante l'applicazione retroattiva del più favorevole regime di prescrizione introdotto con quella legge. Già in quell'occasione, proprio il ricordato carattere alternativo del procedimento di messa alla prova rispetto all'accertamento giudiziale penale fu ritenuto non rendere irragionevole la fissazione del termine finale di presentazione della richiesta al momento della dichiarazione di apertura del dibattimento nel caso di procedimenti con citazione diretta a giudizio ai sensi dell'art. 550 cod. proc. pen., e segg Ciò in quanto la possibilità di presentare la richiesta alla prima udienza successiva all'entrata in vigore della L. n. 67 del 2014 avrebbe significato collegare l'esercizio della facoltà ad un termine di fatto mobile, posto che detta udienza potrebbe avere luogo ad istruttoria dibattimentale sia in corso che conclusa, durante la discussione finale o addirittura coincidere con quella fissata unicamente per la lettura del dispositivo, con grave compromissione - come condivisibilmente si ricordava nella sentenza 47587/2014- delle ragioni di economia processuale e in potenziale contrasto anche con il principio costituzionale di ragionevole durata del processo, il quale dovrebbe, infatti, riprendere in caso di esito negativo dell'osservanza del programma di trattamento imposto all'imputato. 4. Nel caso che ci occupa, come in quello sfociato nella più volte citata sentenza 47587/2014, il ricorrente chiede di fornire un'interpretazione costituzionalmente orientata al tema della applicazione intertemporale dell'istituto della messa alla prova introdotto nel sistema dalla citata L. n. 67 del 2014, indicando quale parametro di legalità costituzionale il principio di retroattività della lex mitior successiva desumibile dall'art. 7 par. 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e che, a suo dire, farebbe ormai parte del sistema quale specificazione dell'art. 2 c.p., comma 4. Il rilievo non è condivisibile. Non considera, infatti, il ricorrente che secondo la più recente giurisprudenza non solo della Corte Costituzionale Corte Cost. n. 236 del 2011 , ma anche della stessa Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo, il principio di retroattività della lex mitior , così come in generale delle norme in materia di retroattività contenute nell'art. 7 della Convenzione EDU, attiene alle sole disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono CEDU sent. 27 aprile 2010, Morabito contro Italia, nonché sent. 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, citata anche in ricorso , trattandosi oltre tutto di principio riconosciuto dalla Convenzione Europea che non coincide, tuttavia, con quello regolato nel nostro ordinamento dall'art. 2 c.p., comma 4. Quest'ultimo riguarda, infatti, come già ricordato nella sentenza 47587/2014, ogni disposizione penale successiva alla commissione del fatto, che apporti modifiche in melius di qualunque genere alla disciplina di una fattispecie criminosa, incidendo sul complessivo trattamento riservato al reo, mentre il primo ha una portata più circoscritta, concernendo le sole norme che prevedono i reati e le relative sanzioni v. Corte Cost. n. 236/2011 cit. La diversa e più ristretta, portata del principio convenzionale è confermata dal riferimento che la giurisprudenza Europea fa alle fonti internazionali e comunitarie e alle pronunce della Corte di giustizia dell'Unione Europea. Sia l'art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, sia l'art. 49 della Carta di Nizza, infatti, non si riferiscono a qualsiasi disposizione penale, ma solo alla legge che prevede l'applicazione di una pena più lieve . Secondo i giudici delle leggi, infatti, è da ritenere che il principio di retroattività della lex mitior riconosciuto dalla Corte di Strasburgo riguardi esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee all'ambito di operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità Corte Cost. sent. 236/2011 cit. . Nel solco della giurisprudenza citata di questa Corte può dunque concludersi che il nuovo istituto della messa alla prova, introdotto nel processo penale ordinario dalla L. n. 67 del 2014, con cui si è introdotto un percorso del tutto alternativo rispetto all'accertamento giudiziale penale, non incida affatto sulla valutazione sociale del fatto, la cui valenza negativa rimane anzi il presupposto per imporre all'imputato, il quale ne abbia fatto esplicita richiesta, un programma di trattamento alla cui osservanza con esito positivo consegua l'estinzione del reato. Ne deriva che si è al di fuori dell'ambito di operatività del principio di retroattività della lex mitior ed è pertanto da escludere che la mancata previsione di una applicazione retroattiva dell'istituto della messa alla prova si ponga in contrasto con l'art. 7, par. 1 CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo e violi l'art. 117 Cost., comma 1 che del primo norma interposta costituisce il parametro di legalità costituzionale. 5. Infondato è anche il secondo motivo di ricorso. Si deduce vizio motivazionale, ma, in realtà, si sollecita a questa Corte una rivalutazione del fatto non consentita in sede di legittimità. Sul punto va ricordato che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti tra le varie, cfr. vedasi questa sez. 3, n. 12110 del 19.3.2009 n. 12110 e n. 23528 del 6.6.2006 . Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l'illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi , dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento sez. 3, n. 35397 del 20.6.2007 Sez. Unite n. 24 del 24.11.1999, Spina, rv. 214794 . Più di recente è stato ribadito come ai sensi di quanto disposto dall'art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e , il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene né alla ricostruzione dei fatti né all'apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell'atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile a l'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato b l'assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento, sez. 2, n. 21644 del 13.2.2013, Badagliacca e altri, rv. 255542 . Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della decisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte circoscritto. Non c'è, in altri termini, come richiesto nel presente ricorso, la possibilità di andare a verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali. E ciò anche alla luce del vigente testo dell'art. 606 comma 1 lett. e cod. proc. pen. come modificato dalla l. 20.2.2006 n. 46. Il giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito. Il ricorrente non può, come nel caso che ci occupa limitarsi a fornire una versione alternativa del fatto, senza indicare specificamente quale sia il punto della motivazione che appare viziato dalla supposta manifesta illogicità e, in concreto, da cosa tale illogicità vada desunta. Com'è stato rilevato nella citata sentenza 21644/13 di questa Corte la sentenza deve essere logica rispetto a sé stessa , cioè rispetto agli atti processuali citati. In tal senso la novellata previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche da altri atti del processo , purché specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto. 6. Se questa, dunque, è la prospettiva ermeneutica cui è tenuta questa Suprema Corte, le censure che il ricorrente rivolge al provvedimento impugnato si palesano manifestamente infondate, non apprezzandosi nella motivazione della sentenza della Corte d'Appello di Firenze alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva. I giudici del gravame di merito con motivazione specifica, coerente e logica hanno, infatti, dato conto che la ricostruzione alternativa proposta dalla difesa l'auto, seppure di proprietà del padre del M. , poteva essere stata condotta fino al luogo del sinistro da terzi, magari allontanatisi dopo il sinistro, mentre il M. poteva esserne solo un semplice trasportato , era solo allegata, ma non minimamente provata. Essa quindi si risolve, secondo i giudici del gravame del merito, in un dubbio irragionevole, che non ha alcuna ragione d'essere, tanto più che neppure l'imputato ha mai prospettato, durante tutto il corso del processo una siffatta ricostruzione dei fatti, proposta dal difensore solo in appello. Al contrario si da atto in sentenza che gli indizi posti dal giudice di prime cure a fondamento del fatto che il M. si trovasse alla guida dell'auto al momento dell'incidente, fossero gravi precisi e concordanti il fatto che allorché intervenne la polizia il motore dell'auto fosse ancora in moto, il fatto che egli si trovasse appoggiato allo sportello aperto lato guidatore, il fatto che l'auto fosse di proprietà dei padre, il fatto che nessun altro fosse presente in loco e assurgessero quindi, a mente dell'art. 192, co. 2, cod. proc. pen. a prova certa del presupposto dei reato e cioè che egli si trovava alla guida dell'auto de quo e che guidava, in stato di ebbrezza come poi oggettivamente accertato tramite l'esame alcolemico. Rispetto a tale motivata, logica e coerente pronuncia il ricorrente chiede una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione. Ma per quanto sin qui detto un siffatto modo di procedere è inammissibile perché trasformerebbe questa Corte di legittimità nell'ennesimo giudice del fatto. 7. Al rigetto del ricorso consegue, ex lege , la condanna al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.