Le Sezioni Unite sulla valutazione delle aggravanti ai fini cautelari: tutto come prima

Per la determinazione della pena ai fini della individuazione del termine di durata massima della custodia cautelare delle fasi antecedenti alla sentenza di primo grado, nel caso in cui vi siano più aggravanti ad effetto speciale, dovrà tenersi conto non soltanto della pena prevista per quella più grave, bensì anche dell'aumento di un terzo previsto per altre circostanze meno gravi.

Così ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, con la sentenza n. 38518, depositata il 22 settembre 2015. Termini di custodia cautelare e aggravanti. Argomento tabù per ogni studente universitario che si rispetti, è un settore davvero complesso del diritto processuale penale non soltanto per la natura piuttosto minuziosa della disciplina che lo regola, quanto piuttosto per la mancanza di una vera e propria anima” che ne agevoli la illustrazione. Di contro, ha una importantissima portata pratica, come dimostra la sentenza in esame e tutte quelle che l'hanno preceduta. La questione sul tappeto riguarda il modo in cui si deve procedere al calcolo della pena – da cui dipende sostanzialmente la individuazione del termine cautelare di fase – in presenza di più aggravanti ad effetto speciale. L'intervento delle Sezioni Unite è, questa volta, prudenziale. Nel senso che non vi è un vero e proprio contrasto di opinioni, nonostante la difesa del ricorrente da cui è scaturita la sentenza in commento abbia lodevolmente provato a rappresentare una situazione interpretativa tutt'altro che pacifica. La fonte di ogni dubbio. Secondo il ricorrente, in presenza di più circostanze aggravanti ad effetto speciale dovrebbe tenersi conto soltanto di quella più grave, mentre l'altra o le altre degraderebbero” a circostanze ad effetto comune e, di conseguenza, non potrebbero incidere sulla determinazione della pena cui si ricollega il termine massimo di fase. A suffragare questa tesi viene invocata una sentenza delle Sezioni Unite del 2011, nella quale – secondo la prospettazione data dal ricorrente – vi sarebbe la consacrazione del fenomeno della degradazione della ulteriore aggravante ad effetto speciale, meno grave di quella effettivamente considerata per il calcolo della pena. Le Sezioni Unite mantengono fermo l'orientamento consolidato niente da fare. Le aggravanti ad effetto speciale vanno considerate tutte quante con l'aumento di un terzo della pena derivante dal computo di tutte le aggravanti ad effetto speciale diverse da quella più grave. E' intuitiva la portata di questo orientamento, monolitico sin dal 1998 anno nel quale una decisione del massimo Consesso lo consacrò il termine massimo di fase può subire, a seconda del caso concreto, una significativa dilatazione. Con una motivazione molto articolata, nella quale non mancano apprezzabili richiami alla storia interpretativa delle principali norme in esame, gli Ermellini respingono la prospettazione difensiva, ispirata non soltanto al favor rei , ma anche all'altrettanto apprezzabile principio di contenimento” della durata della carcerazione preventiva. E' interessante porre l'accento su alcuni aspetti, primo tra tutti quello della obbligatorietà dell'aumento di un ulteriore terzo della pena per il computo complessivo delle aggravanti diverse da quella più grave. Nell'orientamento del 1998, quello che, per intenderci, viene oggi mantenuto fermo, si sostiene che detto aumento sia obbligatorio”. Anche le Sezioni Unite, nel testo della sentenza in commento mettono tra virgolette il riferimento alla obbligatorietà dell'aumento, che, a leggere la norma di riferimento art. 63, comma 4, c.p. ci appare invece del tutto facoltativo. La spiegazione alla base di questo fenomeno – trasformazione in obbligatorio di un aumento facoltativo – pare risiedere nel fatto che la norma del codice penale attiene alla determinazione del trattamento sanzionatorio all'esito del giudizio e non già al calcolo della pena ai fini cautelari. Ancora, nell'orientamento confermato con la decisione in argomento si afferma anche che la circostanza aggravante ad effetto speciale diversa da quella più grave non muta la sua natura. Resta tale, ergo va ugualmente computata. La decisione delle Sezioni Unite del 2011, invocata dal ricorrente, non sarebbe in grado di mettere in crisi l'impianto generale dell'orientamento rigorista” proprio perché essa si riferirebbe al problema del calcolo della pena in esito al giudizio di primo grado, ma non affronterebbe esplicitamente la problematica del calcolo delle circostanze ai fini cautelari. Un punto soltanto non convince la diversità di computo tra cautela e merito. E' chiaro che la decisione oggi in commento ha ritenuto di confermare un orientamento che si contraddistingue per un certo rigore di fondo più aggravanti ad effetto speciale, oggetto di contestazione, concorrono tutte a individuare il termine massimo della misura cautelare. La negazione della tesi della trasformazione” delle aggravanti diverse da quella più grave in circostanze ad effetto comune è comprensibile.Forse anche condivisibile, specialmente sotto il profilo strettamente tecnico-giuridico il fatto che una circostanza sia meno grave non vuol dire che muti natura oggettiva . Ciò che – a nostro sommesso avviso – andrebbe spiegato meglio è il motivo per cui l'aumento ulteriore” derivante dalla presenza di più aggravanti sia da operare obbligatoriamente durante la vicenda cautelare – nel quale l'addebito di responsabilità è ipotetico - e divenga invece facoltativo nella fase di merito, ove – invece – il fatto oggetto del processo è stato valutato compiutamente.

Corte di Cassazione, sez. Unite Penali, sentenza 27 novembre 2014 – 22 settembre 2015, n. 38518 Presidente Santacroce – Relatore Paoloni