Il fallimento, anche personale, può escludere la penale responsabilità?

In tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali, lo stato di decozione non libera il sostituto di imposta, in quanto per la contemporaneità dell’obbligo retributivo e di quello contributivo il soggetto interessato è tenuto a ripartire le risorse esistenti all’atto dell’erogazione degli emolumenti in modo da potere assolvere al debito para-fiscale, anche se ciò comporti la impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare. Il principio appena menzionato vale sia se a fallire sia soltanto la società che anche l’imprenditore.

Questo il principio di diritto che si rinviene nella pronuncia n. 36907/2015 della Terza Sezione Penale della Cassazione, depositata il 14 settembre. Sono fallito e non posso pagare Un piccolo imprenditore dichiarato fallito, quale socio illimitatamente responsabile di un S.a.s., viene tratto a giudizio in quanto, come amministratore di S.r.l., il mese successivo al proprio personale fallimento aveva omesso di versare le ritenute INPS di dipendenti della società di capitali di cui era amministratore. Condannato in primo e secondo grado per l’art. 2 comma 1 bis l. 638/83, l’imputato propone ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello, ritenuta viziata nella motivazione, deducendo la propria completa incapacità patrimoniale al tempus commissi delicti in conseguenza del proprio intervenuto fallimento personale, quale socio illimitatamente responsabile di altra società. Una questione con antiche radici La questione dei rapporti tra la dichiarazione di fallimento e l’omesso versamento delle ritenute previdenziali è questione dibattuta da molti anni e portata sino all’attenzione della Corte Costituzionale. Con la nota sentenza n. 267/92 venne, infatti, ritenuta inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, bis d.l. n. 463/1983, convertito nella l. n. 638/1983, come modificato dal. d.l. n. 338/1989, convertito nella l. n. 389/1989, sollevata, con riferimento agli artt. 3, 24 e 27 Cost., sotto il profilo che il menzionato articolo non ha previsto l'improcedibilità dell'azione penale contro il fallito, dal momento della dichiarazione a quello della chiusura del fallimento. ancorata ad un solido rigorismo giurisprudenziale Sulla scia di tale pronuncia del giudice delle leggi si è andato consolidando un rigoroso orientamento giurisprudenziale di legittimità secondo cui il reato di cui all'art. 2, comma 1 bis , d.l. n. 463/1983, convertito dalla l. n. 638/1983, è reato omissivo istantaneo, che si consuma alla scadenza del termine concesso dalla legge per il versamento, sicché le successive vicende che possano avere impedito al reo di avvalersi della causa di non punibilità, prevista dalla stessa disposizione, nel caso di versamento di quanto dovuto entro il termine di tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'avvenuto accertamento della violazione, non incidono sulla sussistenza della fattispecie incriminatrice. Investita della specifica questione, la Corte di Cassazione aveva ritenuto irrilevante, per escludere la punibilità, la dichiarazione di fallimento intervenuta dopo l'avvenuta consumazione del reato Cass. pen., sez. III, n. 1871/2011 . In altra più recente pronuncia, la Corte ha annullato la statuizione della Corte di merito, che aveva escluso il dolo per le difficoltà economiche della società amministrata dall'imputato, desunte dai decreti ingiuntivi e dai protesti ai quali aveva fatto seguito la dichiarazione di fallimento, sulla base del rilievo che il reato di omesso versamento, siccome è a dolo generico, è integrato dalla consapevole scelta di omettere i versamenti dovuti, sicché non rileva, sotto il profilo dell'elemento soggettivo, la circostanza che il datore di lavoro attraversi una fase di criticità e destini risorse finanziarie per far fronte a debiti ritenuti più urgenti Cass. pen., sez. III, n. 3705/2013 . E’ appena il caso di ricordare che il rigorismo giurisprudenziale è solo in minima parte mitigato dal fatto che le Sezioni Unite, con la nota sentenza n. 27641/2003, hanno precisato che il reato in esame è una forma particolare di appropriazione indebita e che, di conseguenza, per il suo perfezionamento, è necessaria l'effettiva corresponsione della retribuzione ai dipendenti. L'esborso delle somme dovute ai lavoratori è dunque un presupposto indefettibile della fattispecie criminosa che deve essere provato dalla pubblica accusa con documenti, testimoni o gravi, precisi, concordanti indizi Cass. pen., sez. III, n. 38271/2007 . e portata ad estreme conseguenze. Proprio ripercorrendo i propri precedenti arresti la Cassazione risolve il caso portato alla sua attenzione. Alla base del convincimento della pronuncia in commento vi è infatti il rilievo che, per la contemporaneità dell’obbligo retributivo e di quello contributivo, il soggetto interessato è tenuto a ripartire le risorse esistenti all’atto dell’erogazione degli emolumenti in modo da potere assolvere al debito para-fiscale, anche se ciò comporti la impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare. Laddove ciò non avvenga ne consegue la penale responsabilità dell’imputato, non assumendo alcuna rilevanza l’intervenuto fallimento, sia che esso abbia attinto la società che l’imputato personalmente. Ne consegue il rigetto del ricorso proposto, dichiarato inammissibile. Una motivazione che non convince. Pare tuttavia, a chi scrive, che la Cassazione abbia risolto il caso di specie senza prestare adeguata attenzione a due aspetti che indubbiamente caratterizzavano e distinguevano il caso di specie rispetto ai precedenti tutti richiamati. Nel caso sottoposto agli Ermellini, infatti, il ricorrente aveva evidenziato come la sentenza dichiarativa di fallimento fosse intervenuta prima della scadenza del termine ultimo per provvedere al pagamento e avesse attinto personalmente l’imputato, quale socio illimitatamente responsabile di altra società di persone, e non la società che aveva omesso il versamento delle ritenute previdenziali, per cui era processo. La questione viene sgombrata” sulla base delle generiche predette argomentazioni, richiamando un recente arresto in cui la Cassazione aveva reputato irrilevante il fallimento della società stessa Cass. pen., sez. III, n. 29616/2011 , ritenendo detto principio estensibile al caso in esame in cui, per contro, era stato dichiarato fallito anche l’imprenditore personalmente. Invero proprio, nella parte motiva della sentenza appena richiamata, si legge che [l]a circostanza che la società di cui il V. era legale rappresentante non fosse in bonis è, al fine che rileva, inconferente perché l'imputato, non fallito personalmente, ben poteva pagare la somma dovuta con le sue personali risorse finanziarie . Ciò che non rileva, dunque, è la situazione di insolvenza della società e il suo fallimento, ma questo è vero laddove – incidentalmente, ma specificamente osserva la Corte – non sia stato dichiarato anche il fallimento personale dell’imprenditore come a voler significare che a ben diversa conclusione potrebbe e forse dovrebbe giungersi allorché, invece, sia stato dichiarato anche il fallimento personale dell’imputato, cui consegue l’impossibilità di ricorrere a risorse proprie. Che al fallimento personale dell’imputato sia conseguita una situazione di impossibilità a pagare, ricorrendo a risorse proprie, quanto dovuto dalla società di cui il medesimo era legale rappresentante, appare conseguenza necessitata e, in quanto tale, avrebbe meritato, verosimilmente, un maggior approfondimento da parte dei giudici di merito con conseguente onere motivazionale, che, invero, dalla lettura della sentenza della cassazione non pare scorgersi non potendo sul punto ritenersi decisivo il generico riferimento a condotte di bancarotta, che avrebbero causato il detto fallimento .

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 9 luglio – 14 settembre 2015, numero 36907 Presidente Franco – Relatore Gazzara Ritenuto in fatto II Gip presso il Tribunale di Trieste, con sentenza del 4/4/2013, resa a seguito di rito abbreviato, dichiarava L.M. responsabile dei reato di cui all'art. 2, co. 1 bis, L. 638/83, perché, quale amministratore delegato della S.D.L. Port s.r.l., aveva omesso di versare all'INPS le ritenute previdenziali ed assistenziali, operate sulle retribuzioni dei dipendenti, relativamente al mese di febbraio 2008 con condanna del prevenuto alla pena di giorni 16 di reclusione ed euro 100,00 di multa, sostituendo la pena detentiva in euro 608,00 di multa. La Corte di Appello di Trieste, chiamata a pronunciarsi sull'appello interposto nell'interesse dei M., con sentenza dei 17/9/2014, ha confermato il decisum di prime cure. Propone ricorso per cassazione la difesa dell'imputato, con i seguenti motivi -vizio di motivazione in ordine alla riconosciuta responsabilità dei M. per il reato ascrittogli, in quanto l'imputato già dal 18/1/2008 era stato dichiarato fallito quale socio illimitatamente responsabile di altra società, la s.a.s. For Trans, pe cui, da quel momento lo stesso non aveva più capacità patrimoniale per potere assolvere a nessun adempimento. Inoltre, i giudici di merito hanno mal valutato la sentenza, prodotta dalla difesa, pronunciata dal Tribunale di Trieste nei confronti di B.V., socio dei M., giudicato per il medesimo reato con pronuncia assolutoria. Considerato in diritto Il ricorso è inammissibile. li vaglio di legittimità, a cui è stata sottoposta l'impugnata pronuncia, consente di rilevare la logicità e la correttezza della argomentazione motivazionale, adottata dal decidente, in ordine alla ritenuta concretizzazione del reato in contestazione e alla ascrivibilità di esso in capo al prevenuto. Il motivo di annullamento è dei tutto destituito di fondamento, in quanto la Corte territoriale ha compiutamente valutato i rapporti tra lo stato di insolvenza dell'imputato e la sussistenza del delitto de quo, facendo buon governo del principio affermato da questa Corte regolatrice, secondo cui, in tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali, lo stato di decozione non libera il sostituto di imposta dai doveri verso l'Erario in relazione alle retribuzioni corrisposte ai dipendenti, in quanto, per la contemporaneità dell'obbligo retributivo e di quello contributivo, il soggetto interessato è tenuto a ripartire le risorse esistenti all'atto dell'erogazione degli emolumenti in modo da potere assolvere al debito para-fiscale, anche se ciò comporti la impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare Cass. 17/4/2015, numero 16102 Cass. 21/11/2013, numero 19574 . Il principio richiamato vale sia se a fallire sia soltanto la società, che anche l'imprenditore nella prima ipotesi, peraltro, ove non dichiarato fallito personalmente colui che era il rappresentante legale della società, lo stesso è tenuto al pagamento delle ritenute con le personali risorse finanziarie Cass. 14/6/2011, numero 29616 non sono, insomma, le vicende fallimentari della società tenuta al versamento o dell'amministratore a costituire, di per sé stesse, cause di esclusione del dolo del delitto ex art. 2 L. 638/83, o addirittura di esclusione della punibilità, tanto meno nel caso in cui le vicende fallimentari siano, per giunta, caratterizzate da fatti di bancarotta fraudolenta, come nella specie. Inconferente, di poi, si palesa la richiamata sentenza assolutoria, resa dal Gup dei Tribunale di Trieste, nei confronti di B.V., socio dell'imputato, in quanto detta decisione è stata determinata dalla particolare posizione dei V., posto nella impossibilità di fare fronte al versamento del dovuto a favore dell'Erario nei termini di legge, in dipendenza dei sequestro, disposto dal p.m. sui beni dello stesso, che lo ha privato di ogni disponibilità patrimoniale situazione, questa, dei tutto diversa da quella dei M Tenuto conto, di poi, della sentenza dei 13/6/2000, numero 186 della Corte Costituzionale, e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che il M. abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, lo stesso a norma dell'art. 616 cod.proc.penumero , deve essere condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente fissata, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 1.000,00. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di euro 1.000,00.