Il reato è consumato anche se la dazione di danaro è semplicemente promessa

Ai fini della integrazione del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione non è richiesto l’avvenuto pagamento del riscatto .

E’ con tale lapidaria e costante affermazione giurisprudenziale che la Corte Suprema, con la sentenza n. 36404/2015 depositata il 9 settembre, ha dichiarato l’inammissibilità di un ricorso mirante a censurare la legittimità di una sentenza di condanna che – a dire dei ricorrenti – non aveva tenuto in considerazione che la somma promessa dal sequestrato, non essendo stata versata, non poteva giustificare l’integrazione della fattispecie de qua . Come correttamente osservato dalla Cassazione l’art. 630 c.p. punisce chiunque sequestra una persona allo scopo di conseguire, per sé o altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione il dolo specifico è integrato, appunto, dal semplice rapporto tra liberazione e la volontà di conseguire un profitto connesso a tale liberazione, a nulla rilevando il fatto che l’impegno a pagare il prezzo della liberazione sia in effetti versato dopo che intervenga la liberazione in questione. Reformatio in peius. Il punto è di solare evidenza che non merita particolare approfondimento, come non lo merita il punto in cui la Corte di legittimità ha ritenuto come privo di interesse la mancata indicazione formale della concessione delle attenuanti generiche in sede di appello, posto che le stesse risultavano concesse in primo grado e che la pena anche in sede di gravame era stata diminuita al di sotto del limite edittale, situazione che poteva verificarsi solo se fossero state concesse le circostanze attenuanti in questione, attenuanti che come puntualmente osservato in motivazione non potevano non essere concesse visto il divieto di reformatio in peius . Talvolta i ricorsi risultano privi di consistenza evidente e le lagnanze espresse fanno riferimento o a norme, che non esistono, o a questioni prive di interesse processuale. Quando ciò che accade non deve scandalizzare se l’impugnazione non ottiene particolare considerazione e viene respinta. In fondo, non tutto si può dire legittimamente neppure in sede processuale penale, ancorché la dichiarazione provenga dall’imputato. Perché l’atto di impugnazione abbia una dignità tale da essere oggetto di giudizio ponderato, esso deve possedere dei requisiti, tra i quali assumono rilevanza prioritaria dal punto di vista pratico l’interesse ad agire e, quindi, ad ottenere un risultato diverso e la conformità al dettato legale ed all’ordinamento delle premesse giuridiche dell’argomentazione. Ma quid iuris se astrattamente considerato il ricorso appare legalmente proposto ma nel suo contenuto manifestamente infondato alla luce dei dati di causa? Qui la legislazione processuale, nell’intento di accelerare le procedure, può considerare come inammissibile ciò che ben potrebbe essere valutato semplicemente come infondato. Il discrimine, come è noto, non è semplice da definire ed in effetti è indefinibile se non nel particolare giudizio ad opera del singolo giudice dell’impugnazione investito del caso specifico. Quando, quindi, un ricorso scarsamente condivisibile sia inammissibile per manifesta infondatezza o semplicemente infondato non può essere determinato con certezza e a priori ma ben può essere compreso a posteriori, specie allorché il giudice di legittimità abbia comunque dovuto prendere in compiuta analisi il caso ed aver verificato che nei fatti le lagnanze proposte sono frutto di evidenti travisamenti delle risultanze processuali, come avvenuto nel caso di cui si tratta. In questi casi ciò che viene meno è l’affidamento sul rispetto della lealtà processuale e quando ciò avviene, al di là di aspetti formali, nella sostanza non può biasimarsi se il ricorrente viene condannato a pagare una somma a titolo di penalità. Dopo tutto la fiducia ha sempre un valore.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 17 giugno – 9 settembre 2015, n. 36404 Presidente Conti – Relatore Bassi Ritenuto in fatto 1. Con provvedimento del 24 ottobre 2014, in parziale riforma della sentenza emessa dal Gup presso il Tribunale di Brescia il 18 novembre 2014, la Corte d'appello ha ridotto la pena inflitta a K.S. ad anni quattordici, mesi tre giorni dieci di reclusione e nei confronti di Kr.Ko. ad anni dodici, mesi sette giorni dieci di reclusione, confermando nel resto la pronuncia appellata, in relazione ai reati - unificati sotto il vincolo della continuazione - di sequestro di persona a scopo di estorsione capo A , rapina aggravata capo B , lesioni personali aggravate capo C e, quanto al solo K. , al reato di tentata estorsione D , tutti commessi in danno di P.O. . Giova precisare che, nelle imputazioni suo capi A , B e C , ai ricorrenti è contestato di avere, in concorso tra loro, aggredito, con volto travisato, P.O. , e quindi privato il medesimo della somma di 400 Euro di avere quindi segregato per circa un'ora la persona offesa nel portabagagli dell'autovettura degli stessi sequestratori, con mani e piedi legati con delle fascette e la bocca sigillata con nastro isolante di avere poi lasciato andare il P. solo allorché questi, all'esito di una trattativa, si era impegnato a versare la somma da loro richiesta di 50.000 Euro in cambio della libertà. Sub capo D , è contestato al solo K. di avere - successivamente a detti fatti - avanzato reiterate richieste estorsive in danno del P. al fine di ottenere il pagamento di una somma di denaro inizialmente imprecisata e, poi, quantificata in 5000 Euro. 2. Avverso la sentenza ha presentato personalmente ricorso K.S. , difeso di fiducia dagli Avv.ti Aldo Pardo e Giuseppe Pardo, e ne ha chiesto l'annullamento del provvedimento per i seguenti motivi. 2.1. Violazione di legge penale in relazione agli artt. 605, 56 e 629 cod. pen., per avere la Corte d'appello errato nel ritenere integrato il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione nonostante nel caso di specie facciano difetto sia il dolo specifico del reato previsto dall'art. 630 cod. pen., sia una relazione diretta fra l'ingiusto profitto e la liberazione, sia lo stesso profitto, non potendo questo farsi coincidere con la promessa di pagamento. 2.2 . Vizio di motivazione in relazione all'art. 311 cod. pen., per avere la Corte disconosciuto l'esistenza dei presupposti della circostanza attenuante in parola, trascurando di considerare la breve durata del sequestro, la minima violenza esercitata, la circostanza che il profitto non sia mai stato messo in relazione con la liberazione della persona offesa, l'estemporaneità del delitto e la mancata predisposizione di mezzi e di luoghi dove tenere il sequestrato. 2.3. Contraddittorietà della motivazione per avere la Corte fissato la pena base al di sotto del minimo edittale, statuizione che sembrerebbe indicare la concessione delle circostanze attenuanti genetiche, senza che di ciò vi sia menzione nel dispositivo. 3. Avverso la sentenza ha presentato ricorso anche l'Avv. Massimo Dal Ben, difensore di fiducia di Kr.Ko. , e ne ha chiesto l'annullamento per i seguenti motivi. 3.1 . Violazione di legge penale in relazione agli artt. 605, 56 e 629 cod. pen., per avere la Corte d'appello errato nel ritenere integrato il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, laddove, nel caso di specie, è stato lo stesso soggetto sequestrato a promettere il pagamento di una somma di denaro dopo la propria liberazione sicché manca una relazione diretta fra la libertà ed il prezzo. 3.2. Vizio di motivazione in relazione all'art. 311 cod. pen., per avere la Corte disconosciuto l'esistenza dei presupposti per la circostanza attenuante in parola, trascurando di considerare la breve durata del sequestro, la minima violenza esercitata ed il fatto che la promessa di pagare una somma di denaro proveniva dalla stessa persona offesa. 4. In udienza, il Procuratore generale ha chiesto che i ricorsi siano dichiarati inammissibili. L'Avv. Giuseppe Pardo, per K.S. , e l'Avv. Massimo Dal Ben, per Kr.Ko. , hanno insistito per l'accoglimento dei ricorsi. Considerato in diritto 1. I ricorsi devono essere dichiarati inammissibili per manifesta infondatezza delle doglianze dedotte. 2. Con il primo motivo comune ad entrambi, i ricorrenti hanno contestato l'integrazione della fattispecie del sequestro di persona a scopo di estorsione sul duplice presupposto che, nella specie, farebbero difetto sia il dolo specifico, sia una relazione diretta fra promessa di pagamento del prezzo e liberazione della vittima. Il motivo è all'evidenza destituito di fondamento. 2.1 . Ed invero, alla stregua del lineare dato testuale della disposizione dell'art. 630 cod. pen. - che sanziona chiunque sequestra una persona allo scopo di conseguire, per sé o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione -, il conseguimento dell'ingiusto profitto come prezzo della liberazione costituisce, non un elemento oggettivo, materiale, della fattispecie tipica, bensì la prospettiva verso la quale si muove l'agire delittuoso e dunque il fine avuto di mira dall'agente, che appunto sostanzia il dolo specifico contemplato dalla norma incriminatrice. La fattispecie vuole infatti sanzionare la strumentalizzazione della persona in tutte le sue dimensioni dell'esistere concreto, comprese quelle affettive e patrimoniali, ai fini del conseguimento di un ingiusto profitto. Non è pertanto revocabile in dubbio che anche la promessa di pagamento di una somma di denaro - cioè l'impegno a versare pecunia -, a condizione che essa si ponga in relazione di causa ed effetto rispetto al conseguimento della libertà, possa integrare il reato, e ciò prescindere dal fatto che il profitto avuto di mira venga poi in concreto ottenuto. Il conseguimento del profitto non rappresenta infatti l'evento naturalistico della fattispecie e risulta dunque privo di rilevanza agli effetti della consumazione del reato, essendo solo necessario che l'ingiusto profitto sia perseguito come prezzo della liberazione del sequestrato. Come questa Corte ha più volte affermato, ai fini della integrazione del reato in parola non è richiesto l'avvenuto pagamento del riscatto Cass. Sez. 2, n. 12260 del 18/04/1989, Tanzi, Rv. 182078 . 2.2 . Fissati i paletti ermeneutici che devono guidare l'interprete nella soluzione del caso di specie, risulta di tutta evidenza la sussumibilità della condotta - come congruamente ricostruita dai Giudici della cognizione e neanche posta in discussione dai ricorrenti - nella fattispecie di cui all'art. 630 cod. pen. ed invero, P. si determinava a promettere il pagamento della somma 50.000 Euro ai suoi sequestratori, nel mentre si trovava legato mani e piedi chiuso nel bagagliaio di un'auto da un'ora, in stretta e diretta relazione rispetto alla privazione della sua libertà personale e quale chiara contropartita per ottenere la propria liberazione, che, difatti, la vittima conseguiva non appena assunto l'impegno a versare il denaro. Non colgono pertanto nel segno i rilievi dei ricorrenti con riguardo alla circostanza che la dichiarazione di impegno a pagare la somma di denaro provenisse dal P. , essendo ovvio - secondo l'ineccepibile ricostruzione dei fatti ad opera dei Giudici di merito - che la vittima si determinasse in tal senso su sollecitazione degli stessi sequestratori e nella prospettiva, da questi rappresentata, di ottenere la liberazione atteso che in tale modo lo avrebbero lasciato libero , v. pagina 23 della sentenza in verifica . 3. Manifestamente infondato è anche il secondo motivo comune ai ricorrenti, con il quale si è dedotto il vizio di motivazione in relazione alla mancata applicazione della circostanza attenuante del fatto di lieve entità. 3.1 . Mette conto rammentare che, a seguito della pronuncia di illegittimità costituzionale con sentenza n. 68 del 2012, anche in caso di sequestro di persona a scopo di estorsione, la pena comminata dall'art. 630 cod. pen. può essere diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità circostanze dell'azione, ovvero per la particolare tenuità del danno e del pericolo, il fatto risulti di lieve entità . 3.2 . La Corte territoriale ha argomentato in modo puntuale, lucido e giuridicamente inappuntabile l'insussistenza nella specie dei presupposti per applicare la diminuente in parola. Condivisibilmente i Giudici di cognizione hanno stimato i fatti estremamente gravi, e ciò sia avuto riguardo sia alle modalità dell'azione, sostanziatasi in un'iniziale aggressione della vittima con sottrazione di una somma di denaro e, quindi, nella segregazione della medesima per circa un'ora, con mani e piedi legati, all'interno di uno spazio angusto, buio e con penuria d'aria, quale il bagagliaio di un'autovettura, in condizioni veramente disumane sia all'estrema gravità delle minacce, prospettando più volte la morte alla persona offesa sia alla notevole entità della somma richiesta quale riscatto per la liberazione 50.000 Euro . La malvagità ed efferatezza dell'azione criminale, gravemente lesiva della libertà e della incolumità personale della vittima - della quale veniva messa in pericolo finanche la vita -, oltre che recante offesa al patrimonio - quantomeno in termini di messa in pericolo - nonché l'allarmante spregiudicatezza degli imputati e dunque la massima intensità del dolo sono stati a ragione ritenuti dai decidenti di merito ostativi al riconoscimento dell'invocata mitigazione sanzionatoria, in quanto dimostrativi dell'elevatissimo disvalore del fatto, non valutabile, sotto nessun aspetto, quale di lieve entità. 4. Inammissibile è anche l'ultimo motivo dedotto da K. in punto di circostanze attenuanti generiche. Ed invero, il minimo della pena comminata dall'art. 630 cod. pen. è di venticinque anni di reclusione, di tal che la commisurazione della pena base in anni venti di reclusione rende palese l'avvenuta applicazione anche in appello delle circostanze attenuanti generiche già concesse dal primo Giudice e che il Giudice di secondo grado non avrebbe del resto potuto escludere, in ossequio al divieto di reformatio in peius . La doglianza difensiva si appalesa pertanto del tutto destituita di fondamento o, comunque, sguarnita di un concreto interesse. 5. Dalla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti, oltre che al pagamento delle spese del procedimento, anche a versare una somma, che si ritiene congruo determinare in 1.000,00 Euro. P.Q.M. dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno a quello della somma di Euro 1000 in favore della cassa delle ammende.