Agevolazione dell’associazione: qual è l’elemento psicologico richiesto per l’integrazione della circostanza?

È necessario che l’effetto di favorire il gruppo criminale costituisca lo scopo almeno concorrente dell’agire delittuoso, cioè che ne costituisca un movente, non necessariamente il solo, non bastando che si tratti di una conseguenza accettata, in termini di maggiore o minore probabilità, del comportamento dell’agente.

Così si è espressa la Corte di Cassazione nella sentenza n. 29311, depositata il 9 luglio 2015. Il caso. La Corte di appello di Napoli confermava la sentenza con cui il locale Tribunale aveva condannato C.D. per il delitto di corruzione aggravata ex art. 7 d.l. n. 152/1991. In particolare, secondo entrambe le statuizioni di merito, l’imputato – nella qualità di Sottufficiale dei Carabinieri – avrebbe accettato la promessa e poi la dazione di denaro ed altri beni da parte di un soggetto esponente di un clan camorristico, in cambio del compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio avverso la sentenza della Corte territoriale C.D. ricorreva per cassazione, deducendo plurimi motivi di gravame. In primis , violazione di legge con riferimento alla utilizzabilità delle dichiarazioni indizianti rese da alcune persone a carico dell’imputato tali soggetti – raggiunti da seri indizi di colpevolezza per un reato di concorso nel fatto corruttivo ascritto ad esso C.D. – avrebbero dovuto essere sentiti con le necessarie garanzie di legge, in mancanza delle quali le dichiarazioni sarebbero inutilizzabili. In secundis , violazione di legge e vizio motivazionale con riguardo all’art. 319 c.p. i giudici di merito avrebbero dovuto dare prova dell’oggetto specifico del negozio illecito, non bastando una promessa vaga ed indeterminata del pubblico ufficiale. Ancora, vizi motivazionali e violazione di legge con riferimento alla contestata aggravante ex art. 7 d.l. n. 152/1991, la quale sarebbe stata applicata senza neppure affermare l’esistenza del dolo specifico che sarebbe elemento costitutivo della fattispecie. Le dichiarazioni indizianti ex art. 63 c.p.p Le dichiarazioni indizianti di cui all’art. 63, comma 1, c.p.p. sono quelle rese da un soggetto sentito come testimone o persona informata sui fatti che riveli circostanze da cui emerga una sua responsabilità penale per fatti pregressi, non invece quelle attraverso le quali il medesimo soggetto realizzi il fatto tipico di una determinata figura di reato. Corruzione necessaria la precisa individuazione dell’oggetto del patto corruttivo? I Supremi Giudici hanno specificato come – per quanto sia incontestabile che il compendio probatorio in atti non abbia evidenziato specifiche condotte di attuazione del patto corruttivo – secondo giurisprudenza recente è comunque da ritenersi corretto l’assunto della sufficienza di un patto generale di asservimento, di c.d. vendita della funzione”, che ancora conserva rilevanza anche dopo la riforma attuata con la l. n. 190/2012. In particolare, va rilevato che gli atti contrati ai doveri d’ufficio non devono essere puntualmente predefiniti, ne singolarmente identificabili ex post , purché appunto risulti provata la pattuizione corruttiva. L’elemento psicologico nell’aggravante mafiosa. All’imputato veniva contestato di avere agito al fine di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa di cui era esponente il soggetto con cui aveva stipulato il patto corruttivo. Tuttavia il Supremo Consesso ha annullato con rinvio sul punto la sentenza impugnata per carenza motivazionale spetterà nuovamente ai Giudici di merito stabilire se nei fatti il ricorrente avesse o meno agito con tale specifica finalità. In effetti, la Suprema Corte ha chiarito come la giurisprudenza in materia non sia lineare talvolta si leggono riferimenti al dolo specifico di agevolazione quale situazione soggettiva considerata dal legislatore in realtà l’elemento qualificante non è l’esclusione dell’evento perseguito dal novero degli elementi necessari per la consumazione della fattispecie – ciò che appunto caratterizza il dolo specifico – ma la stabilita irrilevanza delle situazioni soggettive di mera accettazione del rischio di un effetto di agevolazione, cioè del cosiddetto dolo eventuale. In altre parole, non potrebbero considerarsi commessi al fine di agevolare l’associazione le condotte tenute in assenza di tale finalismo, in stato di mera accettazione dell’eventualità di un vantaggio dell’ente ma deve escludersi anche la sufficienza di un dolo che potrebbe definirsi diretto, cioè fondato sulla sicurezza dell’evento di agevolazione e tuttavia non indirizzato alla produzione dell’evento medesimo. La norma evoca dunque un effetto intenzionale della condotta, riconducibile al piano del movente non occorre che l’agevolazione rappresenti il movente esclusivo o anche solo dominante dell’azione criminosa, ben potendo la stessa essere determinata anche da finalità diverse, come quella di lucro personale. Infatti, il vantaggio in capo all’associazione non deve essere perseguito in termini di adesione ideologica o addirittura in ragione dell’ affectio societatis , essendo sufficiente un personale interesse dell’agente affinché sia prodotto un vantaggio a favore dell’ente, nella consapevolezza delle sue caratteristiche di mafiosità.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 3 dicembre 2014 – 9 luglio 2015, n. 29311 Presidente Conti – Relatore Leo Ritenuto in fatto 1. È impugnata la sentenza pronunciata nei confronti di C.D. il 24/01/2014 dalla Corte d'appello di Napoli, a conferma della sentenza in data 17/06/2010 del locale Tribunale. I Giudici territoriali hanno deliberato la condanna dell'imputato per un delitto di corruzione aggravato ex art. 7 del d.l. n. 152/1991, assolvendolo dai delitti di concorso esterno in associazione mafiosa e rivelazione di segreto d'ufficio. Secondo l'imputazione l'odierno ricorrente, sottufficiale dell'Arma dei Carabinieri in servizio presso la stazione di , avrebbe accettato la promessa e poi la dazione di denaro ed altri beni da parte di tale D.R. , esponente del clan camorrista Cennamo - Moccia, in cambio del compimento di atti contrari ai doveri dell'ufficio, come la rivelazione di notizie su indagini in corso e la prestazione di consulenze sul modo di eludere le indagini. Suindicata condotta si fondano sia l'addebito concernente il delitto di corruzione, sia le contestazioni per le quali il C. è stato ormai definitivamente assolto. Si apprende dalla sentenza impugnata che era stato proprio D.R. a rivelare i fatti, in una fase processuale durante la quale aveva assunto un atteggiamento collaborativo, poi venuto meno, tanto che le relative dichiarazioni, non reiterate in sede dibattimentale, sono state ritenute non utilizzabili dai Giudici del merito. Muovendo comunque dalla notizia di rapporti corruttivi tra il presunto camorrista ed un carabiniere della locale Stazione, erano state disposte intercettazioni ambientali in danno di D'.Al. e del figlio Ga. , titolari di alcuni esercizi commerciali, tra i quali un bar frequentato da D. e dallo stesso Ce. . I D'. , che subivano da tempo prepotenze da parte di D. e dei suoi associati consumazioni non pagate, ecc. , avevano commentato liberamente i fatti, sui quali nello stesso periodo erano stati sentiti dall'Autorità giudiziaria. Dai colloqui intercettati era quindi emersa la consegna da parte loro, in favore del C. e su richiesta del citato D. , di denaro e di altre utilità generi alimentari, bottiglie di vino . I due uomini avevano inizialmente negato la circostanza, ma l'avevano poi ammessa, una volta che erano state loro contestate le conversazioni registrate a bordo della loro auto. D'.Ga. aveva aggiunto parzialmente contraddetto dal padre, che per altro considerava la circostanza ovvia d'aver saputo dal D. che il denaro destinato a C. veniva erogato, come gli altri beni, al fine di ringraziare il militare per favori ricevuti o da rendere nel futuro. Le risultanze - secondo i Giudici territoriali - comproverebbero uno stato di soggezione dei commercianti nei confronti dei camorristi e dello stesso C. da parte del quale temevano ritorsioni attuate mediante controlli ed indagini dei Carabinieri , di talché sarebbe stata giustificata la scelta del pubblico ministero di non considerarli partecipi del fatto corruttivo, con la conseguente loro escussione in qualità di testimoni, anche nella sede dibattimentale. La Corte d'appello ha osservato come l'effettiva destinazione al C. delle somme sarebbe comprovata dai commenti che i D'. si scambiavano sulla loro vettura, inconsapevoli dei controlli in atto, e come lo stesso C. non abbia in sostanza contrastato direttamente le affermazioni dei due testimoni, limitandosi a riferire delle presunte ragioni di rancore del D. nei suoi confronti. Sarebbe irrilevante ancora, secondo quanto stabilito dalla giurisprudenza di legittimità, la mancata individuazione di uno specifico atto contrario ai doveri dell'ufficio, essendo sufficiente l'impegno dell'agente pubblico a porre in essere i comportamenti antidoverosi richiesti dal corruttore. La Corte territoriale prospetta una sorta di vendita della funzione, che sarebbe ulteriormente comprovata dalla ripetizione e dalla regolarità delle elargizioni. Le argomentazioni difensive fondate sulla testimonianza di altri militari, secondo le quali C. si distingueva per il proprio impegno contro la criminalità organizzata, attuato anche con ripetuti controlli nei confronti del D. , sono state respinte proprio il prestigio del ricorrente lo rendeva particolarmente utile dal punto di vista dei camorristi, e la pressione da lui esercitata avrebbe potuto essere strumentale ad orientare il D. affinché formulasse ed attuasse le proprie offerte corruttive. La Corte ha confermato anche la ricorrenza della finalità di agevolazione del gruppo camorristico, essendo ben nota al C. la collocazione del suo interlocutore nel clan Cennamo, che esercitava il proprio controllo criminale proprio nel territorio di pertinenza della stazione CC presso la quale operava il ricorrente. Ancora, la decisione di condanna per corruzione aggravata non sarebbe in contrasto logico con quella di assoluzione per gli ulteriori reati, ed in particolare per quello di concorso esterno, non essendo stati individuati specifici contributi all'attività del gruppo criminale e non potendosi identificare l'evento tipico della fattispecie nel fatto stesso della conclusione di un accordo corruttivo tra un esponente del clan ed uno degli agenti di polizia giudiziaria operanti sul campo. Infine, la Corte d'appello ha confermato la decisione di non applicare le attenuanti generiche, in base ad un giudizio di marcata capacità criminale dell'interessato. 2. Ricorre il Difensore dell'imputato, prospettando varie censure al provvedimento impugnato. 2.1. Con un primo motivo - dedotto a norma dell'art. 605, comma 1, lettere b ed e , cod. proc. pen. - si lamenta la violazione degli artt. 63, 210, 192, comma 3, nonché dell'art. 500, comma 2, cod. proc. pen Sotto il primo profilo, si assume in sostanza che i D'. erano raggiunti da seri indizi di colpevolezza per un reato di concorso nel fatto corruttivo ascritto al C. , di talché avrebbero dovuto essere sentiti con le necessarie garanzie difensive, in mancanza delle quali le dichiarazioni da loro rese sarebbero inutilizzabili. Sarebbe irrilevante, al proposito, la scelta del pubblico ministero considerata nella specie strumentale di non procedere alla iscrizione della notizia di reato, né d'altra parte potrebbe operarsi una valutazione ex post in punto di responsabilità, dovendosi piuttosto aver riguardo al quadro indiziario esistente nel momento dell'audizione. Oltretutto, in occasione delle prime indagini del pubblico ministero, i D'. avevano tenuto un atteggiamento chiaramente reticente, e sarebbero stati perseguibili anche per favoreggiamento personale o per false informazioni. In ogni caso, gli interessati avrebbero dovuto essere sentiti nelle forme indicate all'art. 210 cod. proc. pen., con la conseguenza che la valutazione delle loro affermazioni avrebbe dovuto essere condotta in base ai criteri indicati al comma 3 dell'art. 192, e non secondo il metodo ordinario di approccio alla testimonianza. Per un secondo aspetto, la sentenza impugnata andrebbe annullata per aver fatto uso, come quella di prime cure, delle dichiarazioni predibattimentali dei testimoni, acquisite a seguito di contestazioni, ma valutate appunto a fini di ricostruzione del fatto storico, e non semplicemente per vagliare l'attendibilità delle testimonianze. 2.2. Con un secondo motivo - proposto in base alle lettere b ed e del comma 1 dell'art. 606 cod. proc. pen. - si prospettano vizi di motivazione e violazioni di legge in rapporto all'art. 319 cod. pen Il corretto assunto della rilevanza d'un patto corruttivo non ancora seguito dalle rispettive prestazioni non varrebbe ad escludere - osserva il ricorrente - che debba essere data prova dell'oggetto specifico del negozio illecito, non bastando in particolare una promessa vaga ed indeterminata del pubblico ufficiale. Sarebbe significativo, quanto al caso di specie, che i Giudici territoriali abbiano dovuto assolvere l'imputato dal reato di rivelazione di segreti d'ufficio, condotta che pure è indicata quale prestazione pattuita nella contestazione del delitto di corruzione. La Corte d'appello avrebbe poi violato la disciplina del ragionamento probatorio offrendo una spiegazione irrazionale dell'ottimo stato di servizio del C. , e negando senza motivazione l'eventualità che i D'. avessero ricevuto denaro destinato al ricorrente ma non glielo avessero consegnato. 2.3. Con un terzo motivo di ricorso, proposto in base ai parametri già sopra indicati, si denunciano vizi di motivazione e violazione di legge in relazione all'art. 7 del d.l. n. 152/1991. Nella sentenza impugnata l'applicazione della circostanza aggravante sarebbe stata operata senza neppure affermare l'esistenza del dolo specifico che, secondo il ricorrente, sarebbe elemento costitutivo della fattispecie. Una volontà di favorire l'associazione, tra l'altro, del tutto incompatibile con il fattivo apporto che il ricorrente aveva recato all'arresto del capo del clan. Inoltre, l'obiettiva funzionalità della condotta all'agevolazione dell'attività mafiosa sarebbe oggetto di mera enunciazione. 2.4. Evocando ancora le lettere b ed e del comma 1 dell'art. 606 cod. proc. pen., infine, il ricorrente prospetta vizi di motivazione e violazione di legge in rapporto alla mancata applicazione delle attenuanti di cui all'art. 62 bis cod. pen Considerato in diritto 1. Il ricorso difensivo è solo parzialmente fondato, ed in particolare va accolto riguardo al motivo sopra indicato sub 2.3. ritenuta integrazione dell'aggravante di cui all'art. 7 del d.l. n. 152 del 1991 . Per il resto, l'impugnazione si fonda su errate considerazioni in diritto o su motivi diversi da quelli consentiti, e va dunque rigettata. 2. Deve negarsi fondamento, in primo luogo, alla tesi che i due D'. , trovandosi nella posizione sostanziale di indagati, avrebbero dovuto essere sentiti in qualità di testimoni assistiti, e non secondo le regole ordinarie della testimonianza, con l'ulteriore conseguenza che le loro dichiarazioni avrebbero dovuto essere valutate a norma dell'art. 192, comma 3, del codice di rito. È inconferente il riferimento ad una possibile responsabilità degli interessati per un reato di favoreggiamento, a fronte delle dichiarazioni inizialmente rese durante le indagini preliminari. Anche di recente, questa Corte ha chiarito che le dichiarazioni indizianti di cui all'art. 63, comma primo, cod. proc. pen. sono quelle rese da un soggetto sentito come testimone o persona informata sui fatti che riveli circostanze da cui emerga una sua responsabilità penale per fatti pregressi, non invece quelle attraverso le quali il medesimo soggetto realizzi il fatto tipico di una determinata figura di reato”, come appunto, tra le altre, il favoreggiamento Sez. 3, Sentenza n. 8634/15 del 18/09/2014, Rv. 262511 in precedenza, nello stesso senso, Sez. 2, Sentenza n. 36284 del 09/07/2009, Rv. 245597 Sez. 6, Sentenza n. 33836 del 13/05/2008, Rv. 240790 . Non risulta che le dichiarazioni degli interessati fossero state interrotte, e d'altra parte gli stessi, dopo iniziali reticenze, avevano manifestato il vero - per quanto può ritenersi in base alla prospettazione dei Giudici territoriali - di talché non ricorrevano certo i presupposti per una loro escussione come indiziati del delitto di favoreggiamento Sez. 1, Sentenza n. 41467 del 18/07/2013, Rv. 257602 . Quanto ad un presunto concorso dei D'. nei fatti di corruzione attiva ascritti al D. , è certo vero che non avrebbe potuto risultare decisiva l'omessa iscrizione del loro nome nel registro degli indagati, spettando al giudice di valutare la posizione sostanziale dell'interessato, così come si atteggia nel momento in cui deve procedersi alla sua escussione da ultimo, Sez. 2, Sentenza n. 23211 del 09/04/2014, Rv. 259654 . Si tratta per altro di un giudizio in fatto, come tale non sindacabile nella sede di legittimità, se non sotto il profilo dell'esistenza e della congruenza della relativa motivazione così, tra le altre, Sez. 2, Sentenza n. 51840 del 16/10/2013, Rv. 258069 e, soprattutto, Sez. U, Sentenza n. 15208 del 25/02/2010, Mills, Rv. 246584 . Il giudizio in questione, d'altra parte, può ben comprendere l'eventuale ricorrenza di cause di giustificazione Sez. 1, Sentenza n. 41467 del 18/07/2013, cit. . Nel caso di specie i Giudici territoriali, tanto in primo che in secondo grado, hanno espressamente valutato il problema posto dal ricorrente, stabilendo che i D'. avevano agito a fronte di risolutive pressioni dell'organizzazione camorristica cui apparteneva il preteso correo, e che dunque, specie nel momento in cui doveva procedersi al loro esame dibattimentale, non poteva ipotizzarsi a loro carico una responsabilità concorsuale per il delitto in contestazione. La relativa valutazione in fatto è argomentata, e non certo in termini irragionevoli od incoerenti, e con ciò si arresta il potere di sindacato di questa Corte. Tra l'altro, dal punto di vista sostanziale, le dichiarazioni dei D'. sono state esaminate e valutate secondo standard concretamente compatibili con la regola di giudizio invocata dal ricorrente. Non solo infatti le indicate dichiarazioni, nei punti essenziali, hanno trovato conferma l'una nell'altra il che non è elemento del tutto privo di rilevanza, data qualche differenza di atteggiamento comunque riscontrata . La narrazione dei testi, soprattutto, ha trovato riscontro analitico nelle comunicazioni tenute a bordo dell'autovettura di famiglia, che rilevano anche quando intervenute tra i diretti interessati è ovvia, in particolare, la disomogeneità sul piano della capacità probatoria di comunicazioni avvenute senza la consapevolezza del controllo in atto, e tenute proprio sul presupposto della loro riservatezza non v'è la minima indicazione di ragioni che avrebbero potuto indurre i D'. a raccontarsi, tra loro, circostanze non veritiere. La sentenza di primo grado contiene una disamina analitica e critica dei colloqui in questione, e ne valorizza la valenza confermativa rispetto alle dichiarazioni dibattimentali degli interessati. La sentenza confermativa in grado d'appello ha potuto, in quanto tale, rinviare alla motivazione del primo provvedimento, e per altro sviluppa a sua volta rilievi critici sui riscontri in questione. Di fatto dunque, e come accennato, le indicazioni dei testi sono state apprezzate alla luce degli elementi che ne confermavano l'attendibilità. Il ricorrente, da ultimo, ipotizza una violazione del comma 2 dell'art. 500 cod. proc. pen., poiché il Tribunale avrebbe utilizzato le dichiarazioni predibattimentali a fini di ricostruzione dei fatti, e la sentenza d'appello darebbe stata contagiata dal vizio relativo, avendo effettuato un comprensivo rinvio per relationem al provvedimento confermato. La censura è generica, non essendo indicata la parte del fatto per la cui ricostruzione sarebbe stato determinante l'apporto di elementi cognitivi non utilizzabili. È anche palesemente infondata. Vero che nella sentenza di primo grado un paragrafo è stato intestato le contestazioni dei verbali di s.i.t. e la lettura ai testi delle intercettazioni ambientali. La genesi delle dichiarazioni accusatorie dei D'. ”, paragrafo che contiene la notizia di contestazioni mosse ai testi mentre venivano sentiti a sommarie informazioni, sulla base appunto delle intercettazioni effettuate in quello stesso periodo. Si vede bene, però, che il Tribunale ha semplicemente inteso operare una ricostruzione dello svolgimento del processo, senza alcuno specifico riferimento alle dichiarazioni predibattimentali come fonti della propria ricostruzione. D'altra parte, una attenta lettura del paragrafo de quo evidenzia come, a parte le righe iniziali e finali che danno contezza dell'uso delle intercettazioni a fini di contestazione nel corso delle audizioni, il testo sia interamente dedicato al contenuto delle intercettazioni medesime, che ben poteva e doveva essere utilizzato dai Giudici procedenti. Ciò detto della sentenza di primo grado, le censure vanno a maggior ragione respinte con riferimento a quella di appello, che certo non potrebbe definirsi nulla per contagio” come si è accennato, a prescindere dal rinvio al provvedimento in quella sede impugnato, la Corte territoriale ha sviluppato una propria ricostruzione degli avvenimenti, in base ad un'autonoma valutazione critica delle prove, che risulta priva d'ogni significativo riferimento ai verbali dell'indagine preliminare. 3. Il complesso dei motivi richiamati supra, al p.2.2. del Ritenuto in fatto, mira ad ottenere un nuovo giudizio sul merito delle contestazioni, difforme da quello maturato presso i Giudici territoriali, cosicché l'impugnazione si rivela per questo verso inammissibile. Le prove disponibili, in effetti, non hanno posto in luce specifiche condotte di attuazione del patto corruttivo, contrarie ai doveri del pubblico ufficio affidato al ricorrente. Nondimeno, è senz'altro corretto l'assunto della sufficienza di un patto generale di asservimento, di cosiddetta vendita della funzione”, che ancora conserva rilevanza, proprio a norma dell'art. 319 cod. pen., anche dopo a riforma attuata con la legge n. 190 del 2012. La giurisprudenza recente ha ribadito, in particolare, che gli atti contrari ai doveri dell'ufficio non devono essere puntualmente predefiniti, né singolarmente identificabili ex posi, purché appunto risulti provata la pattuizione corruttiva Sez. 6, Sentenza n. 6056/15 del 23/09/2014, Rv. 262333 Sez. 6, Sentenza n. 47271 del 25/09/2014, rv. 260732 Sez. 6, Sentenza n. 9883 del 15/10/2013, rv. 258521 . Il giudizio di sussistenza del fatto, nei termini appena delineati, è stato ampiamente motivato dai Giudici territoriali, i quali hanno anche spiegato perché non risulta contraddittoria l'assoluzione del C. dal delitto associativo avrebbe dovuto essere dimostrata la prestazione in concreto di un contributo determinante per l'esistenza gruppo ed il perseguimento del suo programma criminale, rilevante per l'organizzazione nel suo complesso o per una sua significativa porzione territoriale contributo certo non necessariamente recato dal patto corruttivo, in sé considerato, con un militare operante presso una Stazione , né quella dal delitto concernente i segreti d'ufficio avrebbe dovuto essere individuata una notizia segreta specificamente trasmessa ai camorristi, non bastando la semplice disponibilità alla rivelazione, od anche la notizia, concreta ma generica, del passaggio di informazioni riservate . Fuori dal piano delle osservazioni critiche a carattere generale, i rilievi difensivi sulla prova si risolvono nella prospettazione di valutazioni alternative il peso dei buoni precedenti professionali , o di ipotesi palesemente arbitrarie a fronte del materiale raccolto come la ventilata possibilità che i citati D'. avessero trattenuto denaro o beni destinati al ricorrente . 4. Si rivela pertinente al merito, ancora, la censura di cui al p.2.4. del Ritenuto, che concerne il rifiuto dei Giudici territoriali di applicare, in favore del C. , le attenuanti generiche. La sentenza d'appello è correttamente motivata sul punto. Il richiamo ai fattori elencati nell'art. 133 cod. pen. non implica un bis in idem rispetto all'opera di quantificazione della pena, dato che il riferimento al comune parametro è costantemente legittimato in giurisprudenza. Per un verso, all'esito di una lunga disamina del fatto, che ne palesa all'evidenza la gravità rapporti corruttivi di un carabiniere operante su un territorio ad altissima concentrazione di attività mafiose, specificamente destinati ad intralciare la repressione di tali attività , la Corte territoriale ha comunque richiamato elementi come l'intensità del dolo e la elevata capacità criminale dell'interessato. Per altro verso, come ricorda lo stesso ricorrente, le attenuanti generiche sono destinate soprattutto ad affinare la proporzione della pena rispetto ad elementi di speciale attenuazione della fattispecie concreta, che nel caso in esame non sono stati individuati. Oltretutto, i Giudici territoriali hanno potuto e voluto comunque orientare la determinazione della pena verso i minimi edittali, tanto per il valore di base che a fronte della contestata aggravante, l'aumento per la quale è stato determinato nel minimo. Ancora una volta, dunque, si vorrebbe giungere, attraverso il sindacato sulla motivazione, ad un ribaltamento dei giudizio di merito. 5. Sono invece fondate, come si accennava, le doglianze difensive circa l'applicazione al delitto di cui all'art. 319 cod. pen. dell'aggravante delineata all'art. 7 del d.l. n. 152 del 1991. In entrambe le sentenze di merito il giudizio di integrazione della circostanza è motivato in base alla consapevolezza che il C. sicuramente aveva circa la caratura criminale del suo interlocutore e dunque circa la ridondanza delle sue condotte in favore del gruppo camorristico. In sostanza, una rappresentazione dell'atteggiamento soggettivo del reo in termini di accettazione” dell'effetto che segna, oltre il piano degli elementi materiali, il finalismo tipico della fattispecie aggravata. Nei termini in cui è ricostruita ed è apprezzata dalla Corte territoriale, la fattispecie concreta non corrisponde al modello legale, che riguarda delitti commessi al fine di agevolare l'attività delle associazioni” di tipo mafioso. Deve ammettersi che, al proposito, il quadro della giurisprudenza non è particolarmente lineare. Si leggono talvolta riferimenti al dolo specifico” di agevolazione quale situazione soggettiva considerata dal legislatore ad esempio, Sez. 5, Sentenza n. 1706 del 12/11/2013, rv. 258951 . In realtà l'elemento qualificante, sul piano descrittivo, non è l'esclusione dell'evento perseguito dal novero degli elementi necessari per la consumazione della fattispecie ciò che appunto caratterizza il dolo specifico , ma la stabilita irrilevanza delle situazioni soggettive di mera accettazione del rischio di un effetto di agevolazione, cioè del cosiddetto dolo eventuale. In altre parole, ed intuitivamente, non potrebbero considerarsi commessi al fine di” agevolare l'associazione le condotte tenute in assenza di tale finalismo, in stato di mera accettazione dell'eventualità di un vantaggio per l'ente. Ma deve dirsi - per ragioni analoghe - che va esclusa anche la sufficienza di un dolo che potrebbe definirsi diretto, cioè fondato sulla sicurezza dell'evento di agevolazione, e tuttavia non indirizzato alla produzione dell'evento medesimo. La norma evoca dunque un effetto intenzionale della condotta, riconducibile al piano del movente ad esempio, Sez. 6, Sentenza n. 31437 del 12/07/2012, rv. 253218 Sez. 6, Sentenza n. 2696/2009, del 13/11/2008, rv.242686 . Non occorre - conviene precisare - che l'agevolazione rappresenti il movente esclusivo od anche solo dominante dell'azione criminosa, ben potendo la stessa essere determinata anche da finalità diverse, cominciando da quella di lucro personale Sez. 1, Sentenza n. 49086 del 24/05/2012, rv. 253962 Sez. 6, Sentenza n. 26268 del 28/06/2006, rv. 235081 . Per la stessa ragione va notato che il vantaggio in capo all'associazione mafiosa non deve essere necessariamente perseguito in termini di adesione ideologica o addirittura in ragione dell' affectio societatis , essendo sufficiente un personale interesse dell'agente affinché sia prodotto un vantaggio a favore dell'ente, nella consapevolezza delle sue caratteristiche di mafiosità . È necessario, tuttavia, che l'effetto di favore per il gruppo criminale costituisca lo scopo almeno concorrente dell'agire delittuoso, cioè che ne costituisca un movente non necessariamente il solo , non bastando che si tratti di una conseguenza accettata, in termini di maggiore o minore probabilità, del comportamento tenuto dall'agente. Il che corrisponde alla lettera della norma ed alla sua ratio di contrasto ai comportamenti di contiguità, la sola che giustifica un inasprimento sanzionatorio davvero assai rilevante. Spetta ai Giudici del merito - che non ne hanno dato conto in motivazione - stabilire se nei fatti il ricorrente avesse o non agito per un finalismo riconducibile alla nozione fin qui delineata. La sentenza impugnata va quindi annullata con rinvio, limitatamente al punto in questione. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente all'aggravante ex art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991, e rinvia su tale punto ad altra sezione delle Corte d'appello di Napoli. Rigetta nel resto il ricorso.