Chiama la moglie del suo ex amante, e le svela quella relazione extraconiugale: condannata

Definitiva la sanzione nei confronti della donna, ritenuta colpevole del reato di molestie telefoniche. Tre chiamate, peraltro lunghe, si son rivelate sufficienti non solo per raccontare la liaison alla moglie del suo ex amante, ma anche per provocare fastidio nella destinataria.

Solidarietà – tardiva – tra donne. O, forse, desiderio di vendetta A prescindere dalla motivazione, però, ciò che conta è che la donna prende il telefono e chiama quella che è la moglie dell’uomo, che è suo collega di lavoro e che è stato suo amante per diverso tempo. Ora, una volta rotta la liaison, tutti i particolari vengano a galla, seppur solo parlando a distanza, e la donna prende contezza delle – presunte – relazioni extraconiugali intrattenute dal marito. Quelle telefonate – tre in tutto –, però, si rivelano fatali per l’ex amante. Che viene condannata per il reato di molestie” Cassazione, sentenza n. 28493/2015, Prima Sezione Penale, depositata oggi . Telefonata. Nessun dubbio hanno manifestato i giudici del Tribunale la donna, che ha effettuato tre chiamate telefoniche – due in forma anonima – per parlare con la moglie di quello che è stato il suo amante e per raccontarle la ‘passione’ del marito per le relazioni extraconiugali , è ritenuta responsabile di disturbo e molestie . Consequenziale la condanna alla pena di 400 euro di ammenda . Pronta la replica della donna, la quale, col ricorso in Cassazione, sostiene che quelle telefonate non possano essere considerate moleste , richiamando, su tutto, il dato della durata – a conferma della disponibilità a parlare da parte della donna che aveva ricevuto le chiamate – e il dato dei contenuti, ossia i rapporti extraconiugali dell’uomo, finalmente rivelati alla moglie. Molestia. Ogni contestazione, però, si rivela inutile. Per i giudici del ‘Palazzaccio’, difatti, giustamente in Tribunale la condotta tenuta dalla donna è stata qualificata come molestia . Innanzitutto, viene ritenuto non essenziale il numero ridotto delle telefonate . Allo stesso tempo, i giudici evidenziano che è irrilevante la mancata interruzione delle conversazioni da parte della destinataria tale atteggiamento non poteva essere interpretato come acquiescenza , soprattutto tenendo presente l’ importanza delle rilevazioni che le erano state fatte . Anzi, su quest’ultimo punto i giudici si soffermano ulteriormente per spiegare che, paradossalmente, i motivi biasimevoli erano insiti nello stesso contenuto delle rivelazioni effettuate tramite telefono. Tutto ciò conduce alla conferma della condanna per la donna, con relativa ammenda.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 21 maggio – 3 luglio 2015, n. 28493 Presidente Cortese – Relatore Rocchi Ritenuto di fatto 1. Con sentenza del 20/1/2014, il Tribunale di Potenza dichiarava colpevole D.R.A. del reato di cui all'art. 660 cod. pen. e la condannava alla pena di euro 400,00 di ammenda, con pena sospesa. Secondo l'imputazione, la D.R. aveva effettuato tre chiamate telefoniche verso l'utenza fissa di C.M.R.P., parlandole di presunte relazioni extraconiugali intrattenute dal di lei marito con la stessa D.R. e con altre donne, recandole disturbo e molestia. La prova era stata tratta dalla testimonianza della persona offesa, che aveva presentato querela, e dall'acquisizione dei tabulati telefonici. Si trattava di telefonate effettuate in forma anonima. 2. Ricorre per cassazione il difensore di D.R.A., deducendo violazione dell'art. 660 cod. pen. e vizio di motivazione. La ricorrente si chiede se due telefonate possano dar luogo ad un'intromissione continua sottolinea che il Giudice fa leva sulla forma anonima delle telefonate, senza considerare che nessuna certezza la D.R. poteva avere di non essere identificata successivamente, come poi avvenuto contesta il connotato minatorio della telefonata, non risultante affatto dalle parole che la persona offesa aveva riferito evidenzia che le telefonate non potevano certamente ritenersi abituali. In un secondo motivo viene denunciata violazione e falsa applicazione dell'art. 660 cod. pen Le conversazioni erano state di una certa durata, a dimostrazione che la persona offesa era disposta ad ascoltare e non aveva affatto posto fine ad esse. Quindi, la mancata interruzione della conversazione era un dato significativo e dimostrava che la persona offesa voleva avere ulteriori informazioni del tutto illogicamente, il giudice aveva ritenuto che tale atteggiamento non incidesse sul dolo dell'imputata, mentre faceva dubitare della consapevolezza della D.R. di turbare la sua interlocutrice. La motivazione era illogica quando sosteneva che la D.R. aveva agito nella convinzione di operare per il raggiungimento di un proprio diritto. In un terzo motivo, la ricorrente contesta la misura della determinazione della pena e la mancata concessione delle attenuanti generiche. La ricorrente conclude per l'annullamento della sentenza impugnata. 3. II difensore ha depositato memoria con motivi aggiunti di ricorso, deducendo violazione dell'art. 660 cod. pen. e vizio di motivazione. In primo luogo si contesta che alla D.R possa essere addebitata la telefonata partita dall'utenza della ASL n. 4 di Bari la sentenza lo afferma sulla base della disponibilità dell'utenza all'imputata che non è stata provata da alcuna indagine. Dei resto, la querelante aveva riferito che il marito aveva accertato che tale telefonata era partita dall'utenza dei suo ufficio, senza alcuna specificazione. In effetti, la motivazione della sentenza faceva riferimento a due telefonate, e non a tre esse erano state di lunga durata rispettivamente di 28 minuti e di 11 minuti , prive di contenuti minatori che, dei resto, non aveva alcun senso pronunciare nei confronti della moglie alla quale si rivelava che il marito la tradiva con due donne . In realtà, l'intenzione della D.R. era chiaramente quella di rivelare i rapporti extraconiugali alla moglie dell'amante. Le telefonate non erano state affatto assillanti e l'importanza delle rivelazioni aveva indotto la C. a proseguire nella conversazione. Nessuna petulanza si era verificata, poiché nemmeno la persona offesa riferiva in querela di avere diffidato l'interlocutrice a non reiterare le chiamate né le chiamate potevano ritenersi moleste, in quanto tese a rivelare alla querelante un fatto vero. In un secondo motivo si deduce vizio di motivazione con riferimento alla attribuita credibilità alla persona offesa che non poteva che provare rancore nei confronti delle donne che le avevano telefonato. Il giudice aveva dedotto l'attendibilità della querelante dalla lettura della denuncia ma le sue deduzioni appaiono il risultato di una percezione soggettiva. Nel terzo motivo la ricorrente ripropone le censure concernente la mancata concessione delle attenuanti generiche. Considerato in diritto 1. II ricorso è inammissibile. La ricorrente non fa che riproporre considerazioni in fatto concernenti il contenuto delle tre telefonate che il Giudice ha adeguatamente valutato o comunque. altre non valutabili da questa Corte, come nel caso della contestazione dell'attendibilità della persona offesa avanzata in sede di motivi aggiunti. Si deve premettere che l'addebito all'imputata di tre telefonate e non solo di due due chiamate provenienti dal telefono cellulare, uno dal telefono fisso della ASL è fondato sull'affermazione della persona offesa di avere riconosciuto la voce della donna, che era la stessa nelle tre occasioni. II Giudice ha affrontato la questione del numero ridotto delle telefonate effettuate, esattamente sottolineando che non si tratta di un dato essenziale per l'integrazione dei reato, se non quando è proprio la reiterazione a determinare l'effetto pregiudizievole e aggiungendo che l'idoneità lesiva delle chiamate, nel caso in esame, risiedeva nel loro contenuto assai grave rivelazione ad una moglie di ripetute relazioni extraconiugali del marito . Anche l'osservazione secondo cui la mancata interruzione delle conversazioni da parte della persona offesa dimostrerebbe che essa non era disturbata dalle chiamate perché voleva avere ulteriori informazioni viene respinta dal giudice di merito con motivazione logica, osservando che l'atteggiamento della C. non poteva essere interpretato come acquiescenza, tenuto conto della importanza delle rivelazioni che le erano state fatte. Del tutto congetturale è l'affermazione secondo cui la durata delle conversazioni farebbe dubitare della consapevolezza della D.R di turbare la sua interlocutrice l'imputata non ha reso dichiarazioni e l'ipotesi, dei resto, è esposta in termini possibilistici. La natura molesta e petulante delle chiamate viene giustamente ricavata dalla forma anonima delle stesse ancora una volta è congetturale l'ipotesi che la D.R. sapeva che sarebbe stata identificata perché allora, non presentarsi esplicitamente? , dal contenuto delle informazioni riferite che la ricorrente, nei motivi aggiunti, sostiene incidentalmente essere veritiere dato che non emerge affatto dagli atti del procedimento e dalla sentenza impugnata, cosicché resta del tutto indimostrato e da alcuni passaggi ritenuti - con una motivazione in fatto, insindacabile in questa sede - velatamente minatori o comunque tali da prospettare alla persona offesa futuri inconvenienti che i motivi della condotta fossero biasimevoli è dato insito nello stesso contenuto delle rivelazioni la presunta amante interveniva pesantemente sulla presunta moglie tradita nel momento in cui il marito aveva - a dir suo - intrapreso altra relazione . La decisione in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche è adeguata il giudice esattamente ha rilevato che la mera incensuratezza dell'imputata non era sufficiente a giustificare il beneficio la ricorrente non ha evidenziato alcun elemento ulteriore che il Giudice avrebbe tralasciato. 2. Alla declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione consegue ex lege, in forza del disposto dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento della somma, tale ritenuta, di euro 1.000 mille in favore delle Cassa delle Ammende, non esulando profili di colpa nel ricorso v. sentenza Corte Cost. n. 186 del 2000 . P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di euro 1.000 alla Cassa delle ammende.