C’è rapina consumata e resistenza a pubblico ufficiale se l’agente, durante la fuga rocambolesca, si libera della refurtiva

In tema di resistenza a pubblico ufficiale, l’elemento materiale della violenza è integrato anche dalla condotta di chi si dia alla fuga alla guida di un’auto, non limitandosi a cercare di sfuggire all’inseguimento, ma creando deliberatamente un pericolo per l’incolumità personale degli agenti inseguitori e gli altri utenti della strada. In tale contesto e nell’ipotesi in cui l’agente sia stato costretto ad abbandonare la refurtiva durante la fuga ed immediatamente dopo la sottrazione, il reato di furto deve ritenersi consumato.

E’ quanto afferma la Corte di Cassazione con la sentenza n. 22098/15 depositata il 27 maggio. Il fatto. La Corte d’appello di Brescia condannava l’imputata per i delitti di rapina impropria, resistenza a pubblico ufficiale dichiarando invece estinto per prescrizione il delitto di danneggiamento aggravato, con la recidiva specifica infraquinquiennale. Avverso tale pronuncia ricorrono in Cassazione sia il Procuratore generale che il difensore dell’imputata, deducendo, da un lato, l’erroneità del computo del termine prescrizionale e, dall’altro, l’insussistenza di una condotta violenta quale elemento costitutivo del delitto di resistenza, nonché la configurabilità del solo tentativo di rapina. Entrambi i ricorsi sono privi di fondamento. Il termine minimo di prescrizione minima. Quanto al ricorso del Procuratore, la Cassazione sottolinea che il limite di 6 anni previsto come termine ordinario minimo per stabilire la prescrizione del reato, fa riferimento alle ipotesi in cui la pena edittale prevista per il reato, in tutte le sue forme, compresa la recidiva, non raggiunga quel limite edittale e questo debba dunque essere ragguagliato ai 6 anni legislativamente previsti proprio come termine minimo. La resistenza a pubblico ufficiale la guida pericolosa. Il ricorso presentato nell’interesse dell’imputata è ugualmente infondato. La giurisprudenza di legittimità afferma difatti che in tema di resistenza a pubblico ufficiale, l’elemento materiale della violenza è integrato anche dalla condotta di chi si dia alla fuga alla guida di un’auto, non limitandosi a cercare di sfuggire all’inseguimento, ma creando deliberatamente un pericolo, con una guida obiettivamente rischiosa, per l’incolumità personale degli agenti inseguitori e gli altri utenti della strada. Il furto consumato. Allo stesso tempo, lamentava la ricorrente l’erronea qualificazione del fatto come rapina impropria consumata, laddove era configurabile il mero tentativo. Anche in tal caso la S.C. conclude per l’infondatezza della doglianza, posto che il possesso autonomo del bene da parte dell’imputata è stato sicuramente conseguito, pur se per un breve periodo, in quanto l’abbandono della refurtiva durante la fuga non fa degradare la fattispecie a livello di tentativo. Il reato di furto è infatti consumato nell’ipotesi in cui la cosa sottratta al possessore e di cui si sia impossessato l’agente sfuggendo alla vigilanza del primo, restando irrilevante il fatto che l’agente sia stato costretto ad abbandonare la refurtiva immediatamente dopo la sottrazione per l’intervento di un terzo. Per questi motivi, la Corte di Cassazione dichiara inammissibili i ricorsi e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 19 – 27 maggio 2015, n. 22098 Presidente Fiandanese – Relatore Macchia Osserva Con sentenza del 31 ottobre 2014, la Corte di appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza emessa il 27 marzo 2008 dal Tribunale della medesima città nei confronti di A.G., ritenuta responsabile dei delitti di rapina impropria, resistenza e danneggiamento aggravato, con la recidiva specifica infraquinquennale, ha dichiarato estinto per prescrizione il delitto di danneggiamento, riducendo la-pena inflitta ad anni uno, mesi quattro e giorni dieci di reclusione ed euro 334 di multa. In particolare, i giudici dell'appello hanno rilevato che per il delitto di danneggiamento, con la aggravante della recidiva aggravata di cui all'art. 99, terzo comma, è applicabile la pena di anni quattro e mesi sei di reclusione, con la conseguenza che, a norma del primo comma dell'art. 157, cod. pen. il termine ordinario di prescrizione è pari ad anni sei termine interamente decorso dall'ultimo atto interruttivo, rappresentato dalla condanna in primo grado pronunciata il 27 marzo 2008. Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione il procuratore generale ed il difensore della imputata. Il Procuratore generale deduce la erroneità del computo del termine di prescrizione. Ad avviso del ricorrente, infatti, dovrebbe comunque farsi riferimento al limite minimo dei sei anni, sul quale poi applicare l'aumento di un terzo a causa della recidiva - in considerazione del limite al concorso tra circostanze aggravanti ad effetto speciale di cui all'art. 63, quarto comma, cod. pen., essendo il danneggiamento a sua volta aggravato e così individuando in otto anni il termine ordinario di prescrizione. I giudici dell'appello avrebbero dunque errato nel mantenere l'aumento all'interno e al di sotto del plafond minimo dei sei anni. Nel ricorso proposto nell'interesse dell'imputata si rinnovano le censure, già dedotte in appello e motivatamente disattese dai giudici di quel grado, relative alla insussistenza di una condotta riconducibile al concetto di violenza , tenuto conto delle modalità dei fatti e della condotta serbata dall'imputata, e si lamenta che la rapina impropria sia stata ritenuta nella forma consumata anziché in quella solo tentata, posto che l'imputata non avrebbe mai conseguito un possesso autonomo sulla cosa sottratta. I ricorsi sono entrambi palesemente destituiti di fondamento giuridico. Quanto al ricorso del Procuratore generale, infatti, deve reputarsi di tutta evidenza che il limite dei sei anni previsto come termine ordinario minimo per stabilire la prescrizione del reato, fa riferimento alle ipotesi in cui la pena edittalmente prevista per il reato - inteso questo in tutte le sue forme e, dunque, anche tenendo conto delle aggravanti computabili a norma dell'art. 157, secondo comma, cod. pen., fra le quali ben può essere annoverata anche la recidiva - non raggiunga quel limite edittale e, dunque, debba ad esso essere ragguagliato, proprio come termine minimo ordinario stabilito dalla legge. L'avverbio comunque, che specifica lessicalmente il tempo necessario per prescrivere come termine non inferiore a , non individua affatto come erroneamente presuppone il ricorrente Procuratore generale - un limite di pena base sulla quale computare le eventuali aggravanti ad effetto speciale, ma si limita del tutto ragionevolmente a stabilire, per ogni delitto, uno spazio temporale congruo ai fini dell'intervento della causa estintiva, proprio e soltanto per le ipotesi in cui la commisurazione della pena determinata secondo i criteri di cui al secondo comma dell'art. 157 cod. pen. non raggiunga quella soglia minimale. Quanto al ricorso proposto nell'interesse dell'imputata, a proposito delle censure relative al mancato uso di violenza - puntualmente disattese dai giudici a quibus con motivazione ampia e coerente, oltre che giuridicamente corretta - basterà ricordare la costante giurisprudenza di questa Corte secondo la quale, in tema di resistenza a pubblico ufficiale, si ritiene integri l'elemento materiale della violenza la condotta del soggetto che si dia alla fuga, alla guida di una autovettura, non limitandosi a cercare di sottrarsi all'inseguimento, ma ponendo deliberatamente in pericolo, con una condotta di guida obiettivamente pericolosa, l'incolumità personale degli agenti inseguitori o degli altri utenti della strada. Sez. F, n. 40 del 10/09/2013 - dep. 02/01/2014, E, Rv. 257915 . Quanto, invece, alla prospettata diversa qualificazione del fatto da rapina impropria consumata in ipotesi di tentativo, va rilevato che la questione, oltre che non essere stata dedotta espressamente in appello, si rivela palesemente infondata, dal momento che il possesso autonomo del bene sottratto è stato sicuramente conseguito, anche se per breve periodo, considerato che l'abbandono della refurtiva sulla via di fuga non può far degradare a semplice tentativo la condotta di impossessamento già realizzatasi. In tema di furto, infatti, il reato può dirsi consumato nell'ipotesi in cui la cosa sia sottratta al possessore e l'agente se ne sia impossessato, anche per brevissimo tempo, sfuggendo alla cerchia di vigilanza di quest'ultimo non rileva a tal fine il fatto che l'agente sia stato costretto ad abbandonare la refurtiva, immediatamente dopo la sottrazione, per l'intervento del tutto aleatorio di un terzo estraneo alla sfera di vigilanza del possessore derubato. Sez. 4, n. 31461 del 03/07/2002 - dep. 20/09/2002, Carbone, Rv. 222270 . Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso proposto nell'interesse dell'imputata segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che si stima equo determinare in euro 1.000,00 alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi del Procuratore generale e dell'imputata. Condanna quest'ultima al pagamento delle spese processuali e della somma di euro mille in favore della Cassa delle ammende.