Dichiarazione fraudolenta con false fatture: rischioso scaricare la colpa sui clienti inadempienti

Sono previsti dal legislatore dei meccanismi di recupero dell’imposta successivamente rivelatasi inesigibile per il mancato pagamento del corrispettivo fatturato, anche se ancorati a dati oggettivi ed incontrovertibili come l’infruttuoso esperimento di procedure esecutive che, a loro volta, presuppongono l’avvenuto esercizio dell’azione civile per la tutela giudiziaria del credito.

Lo afferma la Corte di Cassazione nella sentenza n. 12531, depositata il 25 marzo 2015. Il caso. La Corte d’appello di Palermo condannava un imputato per il reato ex art. 2, d.lgs. n. 74/2000 dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti . L’accusa era di aver indicato, come rappresentante legale di una società, nella dichiarazione annuale relativa all’IVA presentata nel dicembre 2007 per il periodo di imposta 2006 degli elementi passivi fittizi, avvalendosi di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti. L’imputato ammetteva di aver materialmente posto in essere la condotta, ma negava di voler evadere l’imposta, avendo utilizzato le fatture per compensare il mancato pagamento delle fatture attive emesse durante il 2006 nei confronti di alcuni clienti inadempienti per una somma ritenuta non più recuperabile. L’imputato ricorreva in Cassazione, lamentando il riconoscimento del reato sulla sola base dell’utilizzo delle fatture inesistenti, circostanza insufficiente in quanto mancavano l’effettiva evasione e l’elemento soggettivo, cioè l’intenzione di evadere. Esigibilità dell’imposta. La Corte di Cassazione ricorda che, in via generale, la fattura deve essere emessa al momento dell’effettuazione dell’operazione come determinata dall’art. 6, d.P.R. n. 633/1972. Le prestazioni di servizi si considerano normalmente effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo, ma il d.P.R. n. 633/1972, disciplinando l’imposta sul valore aggiunto, disciplina diversamente i modi e i casi in cui l’imposta diventa esigibile al momento della ricezione del corrispettivo o in un momento successivo o con la sola emissione della sola fattura a prescindere dal conseguimento effettivo dell’importo indicato. Nel caso di specie, il ricorrente aveva fornito l’anagrafica dei clienti insolventi, ma non aveva dedotto lo specifico tipo di prestazione, per cui non è più possibile, per gli Ermellini, stabilire se comunque le operazioni rese avrebbero consentito l’emissione della fattura al momento della corresponsione del corrispettivo oppure no. Come azionare il recupero. L’art. 26, d.P.R. n. 633/1972 contempla gli eventi successivi alla fatturazione dell’operazione imponibile che possono comportare la diminuzione o l’annullamento dell’imponibile stesso. Sono previsti dal legislatore dei meccanismi di recupero dell’imposta successivamente rivelatasi inesigibile per il mancato pagamento del corrispettivo fatturato, anche se ancorati a dati oggettivi ed incontrovertibili come l’infruttuoso esperimento di procedure esecutive che, a loro volta, presuppongono l’avvenuto esercizio dell’azione civile per la tutela giudiziaria del credito. Il ricorrente, invece, non aveva mai dedotto di aver azionato i propri crediti, nemmeno con le procedure monitorie. Perciò, la scorciatoia della creazione ad hoc di fatture false per ottenere un risultato che, in mancanza di deduzioni sulla tutela giudiziaria dei crediti, è anche incerto, è inammissibile per due ragioni. Da una parte, il risultato perseguito non è scontato, dall’altra non si può ricorrere ad un’azione criminosa per conseguire un risultato lecito per il quale l’ordinamento contempla degli strumenti idonei allo scopo. Aggiunge poi la Corte di legittimità che per imposta evasa si intende la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione. Nel caso di specie, l’imposta evasa era quella effettivamente dovuta, anche in base alle fatture emesse nei confronti dei clienti inadempienti il ricorso alle false fatturazioni provava l’intenzione di non adempiere. Il dolo di evasione, concludono gli Ermellini, non necessariamente esaurisce lo scopo dell’azione criminosa, né necessariamente deve identificarsi con esso, bastando che si ponga anche solo in un consapevole rapporto strumentale rispetto ad altri scopo che possono anche avere rilevanza ad altri fini ma che non concorrono a tipizzare la fattispecie e individuare il bene giuridico leso. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 10 dicembre 2014 – 25 marzo 2015, n. 12531 Presidente Squassoni – Relatore Aceto Ritenuto in fatto 1. Il sig. C.V. ricorre per l'annullamento della sentenza del 14/10/2013 con cui la Corte di appello di Palermo ha attenuato la condanna alla pena di un anno e otto mesi di reclusione oltre pene accessorie inflittagli, all'esito di giudizio abbreviato, dal Giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di quello stesso capoluogo per il reato di cui all'art. 2, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, commesso nel omissis , confermando nel resto l'impugnata sentenza. 1.1. Si contesta all'imputato, nella sua qualità di presidente e legale rappresentante della società cooperativa a r.l. VI.RO.GL , di aver indicato, nella dichiarazione annuale relativa all'imposta sul valore aggiunto presentata nel dicembre 2007 e relativa al periodo di imposta 2006, elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti per un ammontare complessivo di Euro 400.000,00. 1.2. Il ricorrente ha sempre ammesso di aver materialmente posto in essere la condotta ascrittagli, ma in entrambe le fasi di merito ha negato di essere stato animato dall'intenzione di evadere l'imposta poiché l'utilizzazione delle fatture era stata giustificata con la necessità di dover compensare il mancato pagamento delle fatture attive emesse nel corso del 2006 nei confronti di 12 clienti inadempienti per un importo complessivo di Euro 469.765,28 somma che, sempre secondo le deduzioni difensive, era non più recuperabile. 2. Nell'impugnare la sentenza della Corte di appello, il C. articola, per il tramite del difensore di fiducia, i seguenti due motivi di ricorso. 2.1.Con il primo, riprendendo i temi e gli argomenti già sviluppati in sede di appello, eccepisce, ai sensi dell'art. 606, lett. b ed e , cod. proc. pen., inosservanza o erronea applicazione dell'art. 2, d.lgs. 74/2000, o comunque mancanza di motivazione sul punto, e deduce che i giudici di merito hanno ritenuto la sussistenza del reato in base al solo utilizzo della fatture inesistenti ma ciò, aggiunge, non è sufficiente perché per l'integrazione del reato è necessario che sussistano anche l'effettiva evasione e, sul piano soggettivo, l'intenzione dell'evasione. A ciò si aggiunga che ove non avesse così operato, la cooperativa non sarebbe stata in grado di onorare il debito tributario, incorrendo nella possibile consumazione del reato di cui all'art. 10-ter, d.lgs. 74/2000. 2.2.Con il secondo motivo eccepisce, ai sensi dell'art. 606, lett. b , cod. proc. pen., violazione dell'art. 597, cod. proc. pen., perché la Corte di appello, nell'attenuare il trattamento sanzionatorio e nel rideterminare la pena, ha sostanzialmente disconosciuto le circostanze attenuanti generiche concesse dal primo giudice. Considerato in diritto 3. Il ricorso è infondato. 4. In linea generale, osserva questa Suprema Corte che la fattura deve essere emessa al momento della effettuazione dell'operazione come determinata dall'art. 6, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 art. 21, comma 4, d.P.R. 633/72 . 4.1. Le prestazioni di servizi, in particolare, si considerano normalmente effettuate all'atto del pagamento del corrispettivo, tuttavia il d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, sulla istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto, disciplina diversamente i modi e i casi in cui l'imposta diviene esigibile, se cioè al momento della ricezione del corrispettivo o in un momento successivo o con la sola emissione della sola fattura a prescindere dal conseguimento effettivo dell'importo ivi indicato. 4.2. La questione non è stata posta nei suoi esatti termini in appello perché il ricorrente ha fornito sì l'anagrafica dei clienti insolventi, ma non ha mai dedotto quale specifico tipo di prestazione fosse stata disimpegnata nei loro confronti. 4.3. Non è dunque più possibile, oggi, stabilire se comunque le operazioni rese avrebbero consentito l'emissione della fattura al momento della corresponsione del corrispettivo oppure no è una questione di fatto oggi non più deducibile in fase di legittimità. 4.4. Occorre inoltre aggiungere che gli eventi successivi alla fatturazione dell'operazione imponibile che possono comportare la diminuzione o l'annullamento dell'imponibile stesso, sono espressamente contemplati dall'art. 26, d.P.R. 633/72 che, nella sua versione vigente pro-tempore, disponeva che se un'operazione per la quale sia stata emessa fattura, successivamente alla registrazione di cui agli artt. 23 e 24, viene meno in tutto o in parte, o se ne riduce l'ammontare imponibile, in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili o per mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose o in conseguenza dell'applicazione di abbuoni o sconti previsti contrattualmente, il cedente del bene o prestatore del servizio ha diritto di portare in detrazione ai sensi dell'art. 19 l'imposta corrispondente alla variazione, registrandola a norma dell'art. 25. Il cessionario o committente, che abbia già registrato l'operazione ai sensi di quest'ultimo articolo, deve in tal caso registrare la variazione a norma dell'art. 23 o dell'art. 24, salvo il suo diritto alla restituzione dell'importo pagato al cedente o prestatore a titolo di rivalsa”. 4.5. Il legislatore, dunque, prevedeva e prevede meccanismi di recupero dell'imposta successivamente rivelatasi inesigibile per il mancato pagamento del corrispettivo fatturato, sia pure ancorandoli a dati oggettivi e incontrovertibili come l'infruttuoso esperimento di procedure esecutive che, a loro volta, presuppongono l'avvenuto esercizio dell'azione civile per la tutela giudiziaria del credito. 4.6. Il ricorrente, tra l'altro, non ha mai nemmeno dedotto di aver azionato i propri crediti, nemmeno con le procedure monitorie. 4.7. Sicché la scorciatoia della creazione ad hoc di fatture false per ottenere un risultato che, in mancanza di deduzioni sulla tutela giudiziaria dei crediti, è oltretutto incerto, è due volte inammissibile a perché il risultato perseguito non è affatto scontato b perché non è ammissibile ricorrere ad una azione criminosa per conseguire un risultato lecito per il quale, oltretutto, l'ordinamento contempla strumenti ritenuti idonei allo scopo. 4.8. A norma dell'art. 1, d.lgs. 74/2000, per imposta evasa si intende la differenza tra l'imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione. 4.9. Nel caso di specie, l'imposta evasa è quella effettivamente dovuta anche in base alle fatture emesse nei confronti dei clienti inadempienti ed il ricorso alle false fatturazioni prova il fine dell'intenzione di non pagarla. 4.10. Correttamente i giudici di merito hanno confinato nell'area del movente il fine, non tipizzato dalla norma e perciò irrilevante ai fini della integrazione del reato, perseguito dall'imputato di non incorrere in ulteriori e più gravi sanzioni e/o di alleggerire la posizione della cooperativa. 4.11. Il dolo di evasione non necessariamente esaurisce lo scopo dell'azione criminosa, né necessariamente si deve identificare con esso, essendo necessario e sufficiente che si ponga anche solo in consapevole rapporto strumentale rispetto ad altri scopi che potranno pure avere rilevanza ad altri fini ma che non concorrono a tipizzare la fattispecie e a individuare il bene giuridico leso. 5. È infondato anche il secondo motivo di ricorso. 5.1. Il GUP di Palermo aveva operato la riduzione per il rito partendo dalla pena di due anni e sei mesi di reclusione, pena già diminuita in conseguenza della concessione delle circostanze attenuanti generiche. 5.2. La Corte di appello ha ridotto di tre mesi la pena sulla quale il GUP aveva operato la riduzione, indicandola in due anni e tre mesi di reclusione ed operando su quest'ultima la riduzione per il rito. 5.3. Non è dunque corretto sostenere che la Corte di appello non ha applicato le circostanze attenuanti generiche concesse dal primo giudice perché, come detto, i giudici distrettuali hanno solo ulteriormente diminuito la pena già attenuata dal primo giudice per il concorso delle circostanze attenuanti generiche. 5.4. Ne consegue che il ricorso deve essere respinto ed il ricorrente condannato alle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.