Il perseguimento del solo fine economico non permette la configurazione del delitto di turbata libertà di industria o di commercio

Il solo utile economico, e non già il fine specifico di turbare o impedire un’industria o un commercio, non è sufficiente a configurare il reato previsto dall’art. 513 c.p

Turbata libertà di industria e illecita concorrenza con minaccia o violenza. Con la sentenza n. 12227, depositata il 24 marzo 2015, la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione interviene in tema di turbata libertà di industria o di commercio, definendo i contorni della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 513 c.p In particolare, secondo gli Ermellini , essendo il bene giuridico sacrificato dall’offesa descritta dalla norma dell’art. 513 c.p. il libero e normale svolgimento della industria e del commercio, il cui turbamento si riverbera sull’ordinamento economico, anche se può rilevare l’offesa nei confronti del singolo imprenditore, risulta penalmente rilevante unicamente una condotta che miri al turbamento del normale svolgimento dell’industria e del commercio. Al contrario - come si legge testualmente nella sentenza in commento - non può essere considerata tale quella che si limiti a predisporre atti di concorrenza sleale che non possono incidere a monte”, alterandola, sulla funzionalità dell’impresa rivale, ma soltanto a valle”, sulla destinazione dell’attività economica, ovvero sul target dell’attività produttiva e cioè, sul raggiungimento del consumatore. In realtà, secondo il ragionamento logico giuridico seguito dai giudici del Palazzaccio , la dimostrazione di quanto riferito alla norma di cui all’art. 513 c.p. deriva dalla configurazione dell’articolo successivo – 513 bis - dove trova collocazione penale la condotta di illecita concorrenza, seppur accompagnata da violenza o minaccia, diversamente rivestendo, in assenza di tali requisiti, valenza di mero inadempimento di tipo civilistico ex art. 2958 c.c Ne consegue l’orientamento in base al quale, esclusa l’applicabilità del delitto di cui all’art. 513 bis c.p., il quale punisce esclusivamente l’alterazione realizzata mediante minaccia o violenza, la condotta di chi altera la concorrenza ricorrendo a mezzi fraudolenti integra il reato di cui all’art. 513 c.p. solo nel caso in cui l’azione sia posta in essere al fine specifico di turbare o impedire un’industria o un commercio e, cioè, di attentare alla libertà di iniziativa economica. Sottrazione di dati e di informazioni alla società concorrente. Nel caso di specie, il ricorrente contestava la sentenza della Corte di Appello territoriale che, pur avendolo assolto dai reati di cui agli artt. 615 ter c.p., 167, comma 1, d.lgs. n. 96/2003 e 646, comma 1, c.p., aveva tuttavia confermato la sentenza del Tribunale quanto all’affermazione della responsabilità per il reato di cui all’art. 513 c.p In particolare, il ricorrente, insieme ad altri 2 suoi dipendenti, era stato accusato di aver acquisito dati e informazioni, senza peraltro procedere al trattamento degli stessi, relative ai rapporti di una ditta concorrente e per essersi appropriato del listino degli insoluti della stessa società, in tal modo turbandone l’attività. L’imputazione che qui interessa – quella relativa all’art. 513 c.p. – risulta strutturata nel giudizio di merito in quanto risulta contestata la condotta di avere, a mezzo di condotte fraudolente, turbato l’attività della società concorrente, ponendo in particolare le condizioni per uno storno di clientela. Del pari, altro e distinto ricorso proponeva anche la parte civile, contestando l’assoluzione del ricorrente per buona parte dei reati ascritti. Al contrario, secondo la parte civile, il ricorrente aveva posto in essere le condotte fraudolente necessarie per l’integrazione delle fattispecie contestate. Come si è già visto, i giudici di Piazza Cavour ritengono che il comportamento delittuoso posto in essere dal ricorrente non possa essere configurabile nell’art. 513 c.p., in quanto perseguente un solo utile economico e non già il fine specifico di turbare o impedire un’industria o un commercio. Da qui l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata poiché il reato di cui all’art. 513 c.p. non sussiste.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 22 gennaio – 24 marzo 2015, n. 12227 Presidente Fiale – Relatore Andreazza Ritenuto in fatto 1. S.M. ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d'Appello di Torino del 03/04/2014 che, assolvendo lo stesso dai reati di cui agli artt. 615 ter c.p., 167, comma 1, del d. lgs. n. 96 del 2003 e 646, comma 1, c.p., ha invece confermato la sentenza del Tribunale di Torino del 29/02/2012 quanto all'affermazione di responsabilità per il reato di cui all'art. 513 c.p. concedendogli la sospensione condizionale della pena. 2. Con un primo motivo lamenta la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in particolare deduce che, pur avendo la Corte territoriale ritenuto, quanto ai reati di cui agli artt. 615 ter c.p., 167, comma 1, del d. lgs. n. 96 del 2003 e 646, comma 1, c.p., per i quali è stata pronunciata sentenza assolutoria, mancante qualunque prova di un qualsiasi contatto tra l'imputato e i suoi dipendenti giudicati separatamente, giungendo ad affermare di non poter escludere l'ipotesi che le condotte fraudolente eseguite da C. e M. siano state frutto di autonoma iniziativa, la stessa è poi giunta illogicamente a differenti conclusioni con riferimento al reato di cui all'art. 513 c.p. infatti anche la condotta di storno di clientela avrebbe dovuto essere attribuita ai soli ex dipendenti e non certo all'imputato. Deduce inoltre che la Corte d'appello si è limitata a riportare esclusivamente uno stralcio della sentenza del 22/06/2010 della Corte di cassazione ove si è affermato che S. era ben consapevole che i risultati dell'attività di C. e M. avrebbero arrecato danno alla società concorrente e determinato un evidente utile per se stesso con conseguente sussistenza del dolo specifico richiesto ma si precisa che un tale ragionamento contrasterebbe in ogni caso appunto con la affermata insussistenza della consapevolezza da parte dell'imputato dell'attività posta in essere dagli ex dipendenti con riferimento ai reati ex artt. 615 ter c.p., 167, comma 1, del d. lgs. n. 96 del 2003 e 646, comma 1, c.p 2.1. Con un secondo motivo lamenta l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza di motivazione in ordine all'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 513 c.p., consistente nel dolo specifico infatti, a fronte della necessaria consapevolezza di avere adoperato mezzi fraudolenti discendente dal dolo in questione la stessa sentenza impugnata ha sostenuto non potere essere esclusa l'ipotesi che le condotte fraudolente siano state frutto di autonoma iniziativa degli ex dipendenti in altri termini, la responsabilità è stata affermata sulla base della sussistenza della sola circostanza oggettiva di avere conseguito un vantaggio da attività lavorativa dei dipendenti ma senza la consapevolezza che gli stessi avessero adoperato mezzi fraudolenti. 3. Altro e distinto ricorso è stato presentato dal difensore e procuratore speciale della società D.T.B. quale parte civile costituita avverso la decisione di assoluzione dai reati di cui agli artt. 615 ter c.p., 167 comma 1 del d. lgs. n. 96 del 2003 e 646, comma 1, c.p 3.1. Con un primo motivo lamenta la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Premette il ricorrente che, rinviati a giudizio S. , C. e M. per i reati di cui agli artt. 615 ter c.p., 167 comma 1 del d. lgs. n. 96 del 2003, 646, comma 1, c.p. e 513 c.p., nei confronti di S. veniva pronunciata sentenza di non luogo a procedere, impugnata avanti la Corte di cassazione, che annullava con rinvio la stessa ritenendo che egli fosse ben consapevole che i risultati dell'attività di C. e M. avrebbero arrecato danno alla società concorrente e determinato contestualmente un evidente utile per sé quanto agli altri coimputati giudicati separatamente, entrambi venivano ritenuti responsabili dalla Corte d'appello di Torino per tutti gli altri reati loro ascritti, ivi compreso il reato di cui all'art. 513 c.p. per il quale era intervenuta sentenza assolutoria a seguito del giudizio di primo grado. Ciò posto, denuncia che il capo di imputazione per cui è stata confermata la sentenza di condanna nei confronti di S. presupponeva testualmente l'effettuazione delle condotte fraudolente di cui agli altri reati. Di qui una evidente contraddittorietà della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato, posto che se S. è stato ritenuto responsabile del reato di cui all'art. 513 c.p. e la sentenza impugnata ha ritenuto sul punto che il S. fosse ben consapevole che i risultati dell'attività di C. e M. avrebbero arrecato danno alla società concorrente e determinato un evidente utile per se stesso con conseguente sussistenza del dolo specifico richiesto , ciò significa che egli ha posto in essere anche le condotte fraudolente necessarie per l'integrazione della fattispecie e consistenti proprio in quelle integranti i reati di cui agli altri capi per i quali invece la Corte ha ritenuto di assolverlo. Lamenta poi, quanto al merito del concorso del S. nel reato, che la Corte abbia ritenuto assente la prova dello stesso semplicemente perché i coimputati non hanno mai affermato l'esistenza di un accordo in tal senso con S. , finendo per far dipendere la prova in realtà dalla mancata confessione dei due coimputati sul punto in contrasto con la necessità che la valutazione delle prove sia operata rispetto ai fatti e non già in base a mere ipotesi. Anzi, in senso contrario, la stessa sentenza di primo grado del 29/2/2012 aveva fornito indizi utili per ritenere operante l'accordo ab origine poiché il S. aveva riferito non solo di avere avuto una conoscenza da tempo con M. ma che, contattato già nel gennaio del 2007, costui gli aveva proposto una collaborazione dicendogli che anche C. era intenzionato a cambiare casacca lavorativa la sentenza aveva anche posto in evidenza elementi significativi dell'interesse di S. alla operazione posta in essere tutte tali valutazioni, però, non sono state confutate in alcun modo dalla Corte territoriale. 4. Con memoria del 19 gennaio 2015 la parte civile, allegando le sentenze del Tribunale e della Corte d'appello, ha poi evidenziato che con sentenza del 30/09/2014 la Quinta sezione penale della Corte di cassazione ha definitivamente statuito in ordine alla responsabilità dei due coimputati per tutti i reati suddetti di cui agli artt. 615 ter c.p., 167 comma 1 del d. lgs. n. 96 del 2003, 646, comma 1, c.p. e 513 c.p. in particolare ritenendo che il ragionamento della Corte territoriale dell'esistenza tra i due e il titolare dell'impresa S. di un vero e proprio accordo criminoso sia non manifestamente illogico e riprendendo, sul punto della sussistenza del reato in questione, quanto già affermato dalla Terza sezione della corte di cassazione di annullamento con rinvio della sentenza di non luogo a procedere già ricordata sopra. Considerato in diritto 5. Il primo motivo del ricorso dell'imputato è fondato mentre è infondato lo speculare ricorso presentato, agli effetti della responsabilità civile, dalla parte civile. Come evincibile da quanto già illustrato sopra, a S.M. sono stati addebitati i reati di cui agli artt. 615 ter c.p., 167 comma 1 del d. lgs. n. 96 del 2003, 646, comma 1, c.p. e 513 c.p. sul presupposto di avere egli agito in concorso con C.S. e M.G. già dipendenti della D.T.B. e C. S.a.s. e successivamente assunti dal medesimo S. per avere, per il tramite di costoro, acquisito dati ed informazioni, senza peraltro procedere al trattamento dei medesimi come imposto dal d. lgs. n. 96 del 2003, relative ai rapporti della D.T.B. e C. S.a.s. e per essersi appropriato del listino degli insoluti della stessa società in tal modo turbando l'attività della D.T.B. e C. S.a.s Ciò posto, l'imputazione riguardante la fattispecie di cui all'art. 513 c.p. risulta essere stata letteralmente strutturata, quanto all'elemento oggettivo, attraverso il richiamo alle condotte fraudolente dei capi precedenti, essendo in particolare stata contestata la condotta di avere, a mezzo delle condotte fraudolente di cui ai capi precedenti, turbato l'attività di D.T.B. & amp C. S.a.s. in particolare ponendo in essere le condizioni per uno storno di clientela da quest'ultima alla S. S.n.c . Di qui, dunque, la logica considerazione che in tanto poteva ritenersi sussistente l'elemento oggettivo del reato ex art. 513 c.p. che, va rammentato, consiste nell'adoperare mezzi fraudolenti per impedire o turbare l'esercizio di un'industria o di un commercio in quanto si fossero ritenute sussistenti quelle stesse condotte fraudolente a mezzo delle quali, appunto, sarebbe avvenuta la turbata libertà dell'industria o del commercio. Nella specie, invece, la sentenza impugnata, pur avendo ritenuto motivatamente mancante la prova che l'imputato abbia concorso con C. e M. nelle condotte fraudolente già rammentate sopra, ha ritenuto sussistente il reato di turbata libertà dell'industria o del commercio semplicemente limitandosi a richiamare, a pag. 12, il contenuto della sentenza n. 37531 del 2010 di questa stessa sezione che però, oltretutto con riferimento ad una fase ben diversa da quella dibattimentale ovvero quella della udienza preliminare e con riferimento naturalmente ad altro provvedimento impugnato, era stata chiamata non già a valutare la correttezza della motivazione della sentenza assolutoria del G.u.p. in ordine appunto alla sussistenza dell'elemento oggettivo del reato, ma a sindacare l'affermato assorbimento del reato di cui all'art. 513 cit. nei reati di cui agli artt. 615 ter c.p., 167, comma 1, del d. lgs. n. 96 del 2003 e 646, comma 1, c.p. e la ritenuta insussistenza del dolo specifico del reato. Nessuna motivazione invece la sentenza impugnata ha reso in ordine alla realizzazione della condotta contestata, realizzazione del resto poco prima esclusa, come già detto, dagli stessi giudici con riferimento ai reati di cui agli artt. 615 ter c.p., 167 comma 1 del d. lgs. n. 96 del 2003 e 646, comma 1, c.p. allorquando, con ragionamento congruamente motivato e per niente illogico si è constatata l'insufficienza di un compendio probatorio semplicemente fondato, in assenza di qualsivoglia altro elemento, sulla sussistenza di un interesse di S. alla realizzazione di tali attività fraudolente a fronte della possibilità che le stesse siano state attuate del tutto autonomamente da C. e M. per presentarsi dal nuovo datore di lavoro S. con un bagaglio di conoscenze che avrebbe consolidato il nuovo rapporto di lavoro. Di qui, dunque, da un lato, la indubbia contraddizione intrinseca della sentenza laddove la stessa, pur avendo ritenuto motivatamente mancante la prova che l'imputato abbia concorso con C. e M. nelle condotte fraudolente già rammentate sopra, ha tuttavia ritenuto sussistente il reato ex art. 513 c.p. e dall'altro, la infondatezza del ricorso della parte civile che ha opposto ad un ragionamento come già detto logico e motivato, e che si pone sul medesimo livello di plausibilità delle affermazioni condannatorie della sentenza del Tribunale essendo infatti sufficiente, per la riforma di una decisione di condanna, una diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice cfr. Sez. 6, n. 40159 del 03/11/2011, Galante, Rv. 251066 Sez.3, n. 42007 del 27/09/2012, Rv. 253605 , oltre che il portato della sentenza già citata di questa Sezione, tuttavia non valorizzabile per le ragioni già dette, argomenti fattuali e di sindacato diretto della valutazione della prova non proponibili nella presente sede. La sentenza andrebbe dunque, sul punto della condanna, annullata con rinvio ai fini di un nuovo giudizio non essendo il reato ancora prescritto. 6. Sennonché, appare dirimente, ed in ogni caso prevalente rispetto a quanto esposto sin qui, la considerazione che, già così come formulata, la fattispecie di reato non può sussistere, essendo stato il fine di turbamento ravvisato, dall'imputazione, nella espressa finalità di porre in essere le condizioni per uno storno di clientela . Va invece ritenuto che, essendo il bene giuridico sacrificato dall'offesa descritta dalla norma dell'art. 513 c.p. il libero e normale svolgimento della industria e del commercio, il cui turbamento si riverbera sull'ordine economico Sez. 3, n. 3445 del 02/02/1995, P.M., Carnovale e altri, Rv. 203401 , se anche può rilevare l'offesa nei confronti del singolo imprenditore, è penalmente rilevante, però, unicamente una condotta fraudolenta che miri, appunto, al turbamento del normale svolgimento dell'industria e del commercio predetti, tale non essendo invece quella che si limiti a predisporre, come nella specie, atti di concorrenza sleale che, certamente, non possono incidere a monte , alterandola, sulla funzionalità dell'impresa rivale nella specie, normalmente continuata ma, unicamente, a valle , sulla destinazione dell'attività economica, ovvero sul terger dell'attività produttiva e, cioè, sul raggiungimento del consumatore. Ne è riprova il fatto che la condotta di illecita concorrenza, come quella che, in definitiva, viene addebitata all'imputato, trova collocazione penale nell'ambito della diversa figura di reato di cui all'art. 513 bis c.p. ove però accompagnata da violenza o minaccia, diversamente rivestendo, in assenza di tali requisiti, valenza di mero inadempimento di carattere civilistico ex art. 2958 c.c Ed è, evidentemente, per tale ragione, che questa Corte ha affermato che, esclusa l'applicabilità del delitto di cui all'art. 513 bis c.p., il quale punisce esclusivamente l'alterazione realizzata mediante minaccia o violenza, la condotta di chi altera la concorrenza ricorrendo a mezzi fraudolenti integra il reato di cui all'art. 513 c.p. solo qualora l'azione sia posta in essere anche al fine specifico di turbare o impedire un'industria o un commercio e, cioè, di attentare alla libertà di iniziativa economica cfr. Sez. 2, n. 20647 del 11/05/2010, P.G. e p.c. in proc. Corniani, Rv. 247272 , fine che, nella specie, non risulta mai considerato nella sentenza impugnata anche perché, evidentemente, contraddetto dall'addebitato perseguimento di un solo utile economico senza che, come già detto, l'attività della D.T. si sia mai interrotta. L'insussistenza del reato ascritto all'imputato comporta, dunque, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata. Non vi è luogo a condanna della parte civile soccombente al pagamento delle spese di lite sostenute dall'imputato non essendovi stata richiesta in tal senso. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato di cui all'art. 513 c.p. non sussiste rigetta il ricorso della parte civile che condanna al pagamento delle spese processuali dichiara interamente compensate tra le parti le spese di lite.